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Incomunicabilità e desiderio (inappagato) nei racconti di Francesco Ruffinoni

Articolo. Si intitola «Desiderio e frustrazione» il primo libro di Francesco Ruffinoni, giornalista e autore di Eppen. Con una scrittura a tratti densa, a tratti spoglia e febbrile, Ruffinoni indaga stati d’animo come l’insoddisfazione e il senso di incompiutezza, ma anche grandi temi come l’incapacità di comunicare, la morte e l’ingerenza dei media. Senza nascondere la grande – necessaria – passione per la letteratura e la filosofia

Lettura 6 min.
(frabellins Shutterstock.com)

Tommy è un bambino senza volto. Vorrebbe essere amato, o quantomeno rispettato. Ma non ci riesce. Ruben, invece, è un insegnante. Vorrebbe tanto addormentarsi, ha rinunciato persino a guardare alla televisione uno dei suoi film preferiti per non affaticare gli occhi. Ma non ci riesce. Anche Nerino è un insegnante. Lo è stato, almeno. Vorrebbe voltarsi indietro, tornare dal mendicante all’angolo della strada che gli ha detto di avere fame. Ma non ci riesce.

«Desiderio e frustrazione» raccoglie undici racconti che parlano di desideri che rimangono insoddisfatti e della frustrazione che ci invade quando questo accade. L’autore del libro, edito da Bolis, è Francesco Ruffinoni, che per Eppen scrive di letteratura e di attualità. Di solito dà la parola agli altri, ne ascolta la storia. Qui, invece, in qualche modo racconta la sua, con le opportune licenze letterarie. «Il libro è tutto un gioco tra realtà e trasfigurazione, tra biografia e invenzione, tra verità e menzogna – spiega Francesco – Tutti i racconti più o meno sono speculari: il primo richiama l’ultimo, il secondo il penultimo e così via. Solo quello centrale, anche solo per la sua posizione, non riflette nessun altro racconto, anzi, si distanzia molto dagli altri».

Il primo racconto, il più lungo, è quello che dà il titolo all’intera raccolta e ne contiene un po’ tutti i temi principali. Il protagonista di «Desiderio e frustrazione» è un piccolo borghese fortemente ipocondriaco (e saccente) a cui viene diagnosticato uno strano male: l’essere «un uomo a metà». Non sappiamo cosa questo significhi, ma ci affezioniamo al protagonista proprio perché in qualche modo sentiamo nostro questo “problema”, che turba fior di medici e psicologi. «È un racconto nato come esercizio di stile, il malessere mi è servito per creare la narrazione – sottolinea Ruffinoni – ma in quel malessere ognuno ci può trovare quello che vuole». Un persistente senso di insoddisfazione, di incompiutezza.

In poche pagine, l’autore costruisce un piccolo romanzo di formazione, lasciando che emerga anche tutta la sua passione per la filosofia. «C’è il protagonista che si fa delle domande sui massimi sistemi del mondo e dell’universo – un’attitudine che rispecchia quella che Ruffinoni ha avuto tra i quindici e vent’anni, desideroso di creare dei sistemi filosofici che potessero, se non spiegare la realtà, almeno dare una soddisfazione ai tanti dubbi che lo attanagliavano – ma c’è anche una citazione esplicita di alcuni autori. E a livello di forma c’è proprio questo farsi domande del protagonista che quasi raggiunge l’ossessione. E secondo me, la comicità che viene suscitata dall’interessarsi a questioni e realtà di poco conto è causata anche proprio dall’ossessione con cui il protagonista riflette». Sì, perché il protagonista passa dal pensare ai concetti di morte e paradiso a «quanto sarebbe stato bello possedere un gigantesco aspiratore e aspirare tutta l’acqua del mare».

La comicità, sottile, si insinua nei nomi dei medici del racconto: Tamburo, Centrino, Lattosio. «Adoro giocare con la parola. Mi piace trovare suoni esotici, bizzarri o grotteschi, sia nella lingua italiana che in quelle straniere – continua Ruffinoni – mi piace dare musicalità alla linea narrativa. Il primo autore che mi viene in mente e che forse mi ha ispirato in questo è sicuramente Gadda, ma penso che sia in realtà un fenomeno molto più ampio, che ha a che fare con la volontà di dar vita a una scrittura “carnevalesca”, se possiamo definirla così». Tra i maestri, lo scrittore irlandese Flann O’ Brien, a cui Ruffinoni ha dedicato la tesi di laurea, ma anche Kurt Vonnegut o Italo Calvino.

Ruffinoni si diverte, lo si legge tra le righe, e diverte anche noi che leggiamo, rendendo frizzanti situazioni all’apparenza normali, quotidiane. È la sensazione che si prova leggendo ad esempio i due racconti speculari «Meglio così» e «Articolo 1». Entrambi si sviluppano in forma dialogica ed entrambi sono ambientati in un bar, dove due amici si ritrovano davanti a birra. Nella prima storia, l’uno racconta all’altro un appuntamento che ha avuto con una bizzarra ragazza di origini franco-irlandesi; nel secondo, al centro della discussione c’è la difficoltà di un giovane nel cercare un posto di lavoro: un’odissea fatta di settimane di impiego non retribuite, promesse di contratti evaporate, colleghi scostanti. «Si può scrivere una riga di dialogo apparentemente innocuo e far sì che provochi un brivido lungo la schiena del lettore» scriveva Raymond Carver, maestro nel trasformare la quotidianità in opera d’arte. E si pensa proprio a Carver leggendo i passaggi più effervescenti dei due racconti anche se, «per quanto riguarda i dialoghi, l’ispirazione è Roddy Doyle» ammette Ruffinoni. Ancora una volta, uno scrittore irlandese.

Uno dopo l’altro, nel libro si susseguono ospedali e pub, uffici postali e scuole. Luoghi comuni lasciano spazio a luoghi che sembrano sospesi, senza tempo, come il villaggio di Zwiebel (anche questo nome è curioso: significa «cipolla»). Un paese freddo, cinquanta gradi sottozero, reso bianco dalla neve. Quando la neve si scioglie, un bambino scompare nel nulla. «L’inverno di Zwiebel» è il primo racconto che ha scritto Francesco, nel 2018, ispirandosi ad alcuni autori della tradizione letteraria mitteleuropea, da Heinrich Von Kleinst a Thomas Bernhard, e alla visione di una divinità imperscrutabile e luminosa: l’origine della sparizione del bambino, alla fine del racconto, è infatti forse imputabile alle preghiere che un gruppo di donne anziane ha rivolto alla Madonna dei bambini smarriti perché l’inverno cessasse. Un do-ut-des.

Dal 2018 a oggi, Francesco ha scritto, immaginato, riscritto i suoi racconti. «Una volta che ho terminato questo corpus e mi sono trovato a pensare al titolo, mi sono accorto che tutti i protagonisti, tutti i soggetti messi in campo, erano dei soggetti fortemente bramosi, fortemente alla ricerca di un sano equilibrio, ma che in realtà non riuscivano a raggiungere questa dimensione».

La scrittura di Francesco è densa, energica, ma anche, al contrario, spoglia, asciutta. Il finale dei racconti resta spesso sospeso in una dimensione di aleatorietà, la dimensione che del resto si trovano a vivere i protagonisti. I temi che Ruffinoni affronta sono molti, come l’ingerenza dei media, la morte, la violenza fisica e verbale, il desiderio stesso: «Io penso che il desiderio sia fondamentale, al di là del fatto che credo, per svariati motivi, che questa sia un’epoca senza desiderio – spiega – Il problema è quando il desiderio diventa ossessione, e tu non sei in grado di capire che comunque sei un essere finito e niente potrà riuscire ad appagarti mai del tutto. Lì subentra come una maledizione: non vivi più, vivi solo per appagare questo desiderio, che magari all’inizio è pure una necessità e un qualcosa di sacrosanto, ma che poi alla fine diventa una condanna, un capriccio».

Tema centrale della raccolta, però, fil-rouge tra le undici storie, è l’incomunicabilità, nelle sue molte sfumature. «È un libro sull’incomunicabilità, che si dà mediante un desiderio inappagato e che si evince poi da questa frustrazione che nasce nell’ambito emotivo, sessuale, relazionale, sentimentale, ma anche lavorativo».

L’incomunicabilità può instaurarsi tra persone che non parlano la stessa lingua («Coraggio, ragazzi, ripassiamo il verbo essere» dice Nerino, protagonista del racconto «A ognuno il proprio mare», un ragazzo che si sforza di insegnare italiano agli stranieri, ma ogni giorno è costretto a ripartire da capo perché miglioramenti non ne vede) e tra persone che invece la parlano, ma non si capiscono comunque («Ma io non sono matto!» dice il protagonista del primo racconto, davanti a dottori e psicologi che dovrebbero fare della relazione il loro campo privilegiato, ma sono totalmente privi di empatia).

L’incomunicabilità nel libro ha un volto ben preciso, anzi, non ce l’ha. «Tommy-senza-volto» è la storia di un bambino di dieci anni di nome Tommaso, nato senza il viso («quel che aveva al posto della faccia era una sorta di pallone rosa pallido, piuttosto informe»). Tommaso ci vede benissimo, ma per la sua diversità è deriso dai compagni di scuola, tenuto a debita distanza. «Avevo il desiderio di dare una profonda immagine di assenza di comunicabilità, che non vuol dire silenzio, ma proprio la fatica di farsi capire, di farsi accettare, di mostrare le proprie fragilità e la fatica da parte degli altri di comprendere queste fragilità – continua Francesco – E quale immagine migliore di una persona con un’immagine esteriore che desti la lontananza da parte degli altri?».

L’incomunicabilità in amore è ben tratteggiata nel racconto «Un’ossessione», uno dei più viscerali e incisivi della raccolta. La storia di una relazione alla cui tossicità contribuisce il potere – attualissimo – con cui i social network e i cellulari influenzano la nostra vita: «Alle dieci di mattina, K lo chiama. Emme non risponde. Il cellulare squilla, ma Emme non risponde. K ritenta più e più volte, ma Emme non risponde». I protagonisti non hanno nome, solo un’iniziale, accuratamente selezionata. «Negli anni Settanta – sottolinea Ruffinoni – K ha tutta una tradizione sia politica ma anche letteraria. Cito un nome solo che è Kafka, ovviamente. K ha il suono duro e misterioso dell’enigma. Per Emme, K è l’enigma».

Un profondo pessimismo avvolge le trame di Francesco Ruffinoni. Lo spazio lasciato alla speranza è poco, anche se c’è, perché a esserci è la vita stessa. Ruffinoni cita Montale, trasforma il noto verso del poeta «la maglia rotta nella rete che ci stringe» nel titolo del racconto centrale della raccolta. Affida la conclusione del suo libro a «Non come orrida regione», storia di Paolo, un uomo «un po’ allergico alla vita», che vive un malessere profondo, simile a quello del protagonista del suo racconto speculare, «Desiderio e frustrazione».

Paolo, alla fine del testo, si ritrova a contemplare un magnifico faggio, davanti a cui è rimasto seduto a lungo un uomo in carrozzina dal sorriso contagioso. È allora che qualcosa si muove in lui. Non è pietismo, non è reazione alla sofferenza di “chi è più sfortunato”, come vorrebbe quel refrain che bene o male ci siamo sentiti dire tutti. È qualcosa di più complesso, come spiega l’autore. «Il protagonista ha la sua conversione nel momento in cui fa tutta una serie di ragionamenti, alcuni tossici, alcuni più veri. Quindi lì c’è il carburante, c’è il caos, il pensiero funzionale e disfunzionale. Da quel caos lui emerge. Capisce che si può vivere serenamente accettando il presente, il mutamento e sostando nel proprio dolore. È quella la conversione che ha il protagonista vedendo la persona affetta di disabilità, che però riesce comunque a essere grata, è questa la gratitudine di esistere».

Il fatto che ci sia comunque, come accade al protagonista del racconto «La giornata di un impiegato postale», qualcuno che ti conosce a malapena, ma ti lascia al bar un caffè offerto.

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