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«Il male, come il bene, è solo una scelta. Spetta a noi decidere», Giulia Sarli e il suo libro d’esordio «Malasorte»

Intervista. Nel romanzo di Giulia Sarli, edito da Castelvecchi, i confini fra verità e menzogna sono estremamente labili. A far da cornice, il fiume: metafora della vita ma anche delle ambiguità presenti nell’essere umano

Lettura 5 min.

Una scrittura musicale e seducente, sigillo di una trama in cui regna l’ipocrisia. Un’ipocrisia maleodorante, che ha a che fare con la prevaricazione dei vincitori ma anche con il rancore dei vinti. Al centro, un fratello e una sorella – Nico e Bea – alla ricerca della propria identità, ma proiettati verso una crescita troncata sul nascere. A far da testimone, il fiume, spazio iniziatico per antonomasia nonché metafora silenziosa della vita. Un luogo che divide due lembi di terra, labile confine all’interno del testo fra luci e ombre, verità e menzogne, ma anche fra le case dei cittadini “normali” e i rifugi dei “bambini – lupo”, bimbi fuggiti dall’emarginazione, dalla violenza e da una detenzione forzata. Una dimensione che conduce i protagonisti verso il loro personale cuore di tenebra. Tutto questo è «Malasorte», romanzo d’esordio di Giulia Sarli, giovane scrittrice bergamasca (classe 1987), edito quest’anno da Castelvecchi.

FR: Giulia Sarli, come è nato questo romanzo?

GS: L’idea è nata per caso, durante la pandemia di Covid-19 o, per meglio dire, durante il lockdown: in quel periodo, ho avuto parecchio tempo per pensare, scrivere ma anche per guardare la tv. Al telegiornale, una sera, trasmettevano un servizio sulle proteste in corso presso il CPR (Centro di Permanenza per il Rimpatrio, ndr) di Torino. All’epoca non sapevo bene cosa fosse un CPR, ma quella notizia è stata per me una sorta di scintilla da cui, poi, dopo la necessaria documentazione, è scaturita la storia di «Malasorte».

FR: All’interno di «Malasorte» c’è una forte vena sociale e sociologica, ma ci sono anche elementi del genere thriller e di quello fantastico.

GS: Durante la stesura del romanzo, non ho mai riflettuto sul genere a cui volevo ispirarmi. È stata infatti una scrittura incalzante, da un certo punto di vista spontanea. Sicuramente, la struttura è quella di un giallo: c’è una scomparsa, un’indagine e un mistero, innervato da elementi fantastici, quasi soprannaturali. Ma «Malasorte» è anche un romanzo di formazione, dove i due fratelli si misurano, incessantemente, con sé stessi: il fiume e le rotaie del treno, del resto, sono immagini classiche del romanzo di formazione. Bea e Nico, però, non riusciranno a completare questo percorso di crescita e a diventare realmente adulti poiché non saranno in grado di accettare completamente la realtà che li circonda.

FR: «Lo guardai in faccia. L’aria calda dell’estate mi riempiva il respiro dell’odore di shampoo misto a quello un po’ aspro della sua pelle. Aveva, come sempre, i primi bottoni della camicia slacciati. La catenina al suo collo riluceva, mi osservava di traverso, gli occhi dall’espressione volutamente triste, le labbra che facevano il broncio». Il tuo fraseggio è musicale, la tua scrittura suadente, quasi sensuale. Qual è il tuo rapporto con la parola?

GS: Il mio modo di scrivere dipende molto dalle mie letture: leggo tanta poesia. Al di là di questo, mi piace dare molta attenzione al ritmo. Ogni volta che scrivo una pagina, rifletto sulla sua musicalità. È un qualcosa a cui tengo particolarmente e di cui, volentieri, cerco di prendermi cura. La parola, per me, non è qualcosa che conforta, ma è sicuramente qualcosa di estremamente necessario.

FR: «A volte accade di avere dentro dei mostri. Io ne avevo e ne ero perseguitato. Erano mostri ingannatori, apparivano sotto le mentite spoglie del bene e del bello. Dell’affetto. In molti momenti ho creduto che fossero la mia felicità, nonostante sapessi sempre in cuor mio la loro vera natura». Una parola al servizio dell’ambiguità.

GS: È vero, tutto il libro è innervato dall’ambiguità. Ma l’ambiguità è dovuta, esclusivamente, a questa riflessione: nessuno si può dire totalmente buono. Credo che ognuno di noi, per esempio, almeno una volta nella vita, abbia avuto il pensiero di uccidere qualcuno. I miei personaggi sono persone dalle macchie profonde; persino Bea non è esente da queste sfumature di chiaroscuro: è molto gelosa del fratello e non sceglie in modo totale e definitivo il bene, rimane sempre in bilico. La sua non è una figura eroica, è innamorata del proprio piccolo mondo e, spesso, preferisce far finta di niente, girarsi dall’altra parte. Il male, dopotutto, è una scelta: spetta a noi decidere se intraprenderlo o, al contrario, dirigerci verso il bene.

FR: L’ambiguità si traduce anche nelle due dimensioni vissute dalla protagonista.

GS: C’è la dimensione del benessere e dell’abbondanza e c’è quella della miseria e della prevaricazione. Coloro che abitano nel primo mondo non si curano di quelli che abitano nel secondo, mentre coloro che permangono nel secondo covano rancore verso quelli del primo. Attorno a questa dicotomia (invero molto labile), ruota una domanda: perché, ancora oggi, vige questo rapporto fra conquistatori e conquistati? Una volta, quando c’erano le colonie, ci si permetteva di agire con inumana crudeltà; oggi si rinchiudono persone in centri speciali senza che esse abbiano commesso alcun tipo di reato. E tutto ciò avviene alla luce del sole, nelle nostre città e non in una terra lontana, distante dal nostro sguardo e dalla nostra ipocrisia. Ad ogni modo, c’è anche un altro tipo di ambiguità: quella determinata dal sottile confine fra verità e bugia, fra sogno e realtà. Il punto di vista di Bea, infatti, diverge nettamente da quello del fratello: Nico nega l’esistenza dei “bambini-lupo” riducendoli a mera fantasia, a un’invenzione a opera della sorella.

FR: «Moira riprese la sua risata che non capivo e guizzò nella stanza dei libri della nonna […]. Lei non era come me, era parte dello spazio, poteva mescolarsi alle cose e sparire. Diventare lupo, pesce, aria. Adesso era il corpo di una bambina». Moira è in realtà un’allucinazione?

GS: Le interpretazioni che si possono formulare a riguardo di un’opera sono infinite e, spesso, non necessariamente legate all’esplicita volontà dell’autore, ma di Moira credo si possa dire che è la figura più ambigua che c’è all’interno del romanzo; ma è anche l’alter ego della protagonista e, forse, la personificazione del senso di colpa oppure di un trauma che non si riesce a digerire. All’inizio pare un’alleata, ma, verso la fine, diventa sempre più crudele e persecutoria, come un pensiero ossessivo. Sicuro è che la sua apparizione segna profondamente la sorte di Bea, il suo allontanamento da casa e dalla sua famiglia, il suo finire in una sorta di limbo, in una sacca temporale da cui non riuscirà più a emergere del tutto.

FR: «I momenti che più restano impressi funzionano come i detriti del fiume. Attraversiamo il tempo che ci è dato, come acqua nei canali erodiamo il nostro tratto di storia, trascinando nella corsa obbligata ricordi, sensazioni, sentimenti, traumi. Li modelliamo, ne facciamo conglomerato. Una pietra in attesa che una nuova corrente venga a scomporla». Quanto è importante, all’interno del romanzo, questa similitudine fra fiume e vita?

GS: Il fiume, come detto, è un’immagine profonda, fortemente simbolica, legata all’iniziazione e al cambiamento e, quindi, alla crescita e alla maturità. Per me è il luogo dell’infanzia ma, soprattutto, dell’adolescenza: oserei dire che non c’è adolescenza senza fiume. L’acqua, inoltre, è il mio elemento: raramente quando scrivo non è presente nelle sue varie forme. E poi, nel libro, i riferimenti a «Cuore di tenebra» di Joseph Conrad non mancano. Nemmeno in questo caso. Con la differenza che il suo corso d’acqua andava da Londra al Congo; il mio, invece, fa il percorso inverso: da Clima (paese immaginario, occupato e devastato) fluisce in un torrente di una qualsiasi città europea.

FR: «La nonna ci raggiunse nella sala con indosso il grembiule da cucina. Venne a farmi le feste stringendomi forte tra le sue braccia, il mio naso contro la sua camicetta che sapeva di polenta e coniglio. Se mi impegno sento ancora l’odore e mi torna la fame». Queste righe, come altri passi del libro, rivelano un testo “materico”, a tratti pulsante, che prende per mano il lettore e lo riporta ai profumi e ai sapori di un tempo. Quanto c’è di Fenoglio, Pavese e Levi in «Malasorte»?

GS: La tradizione degli autori nominati mi appartiene e, soprattutto, cerco di fare mio il loro insegnamento: rispettare le parole, ascoltare al meglio la realtà e prestare attenzione agli oggetti, riproducendoli nel modo più onesto possibile. Insomma, mi sforzo di avere cura dei dettagli.

FR: Quanta Giulia Sarli c’è in Bea?

GS: Non molto, in realtà. Almeno non credo. Ho cercato di crearla distante da me. Non mi rivedo in lei, ma chissà.

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