In questi freddi giorni di gennaio, in cui il ricordo dei lauti pranzi natalizi genera un po’ di nausea e, forse, pure un vago senso di colpa, è bene soffermarsi su ciò che è leggero e delicato e, allo stesso tempo, profondo e tagliente. Non trovo aggettivi migliori, del resto, per definire «Un’estate» di Claire Keegan, libro pubblicato nel 2010, ma portato in Italia solo due anni fa da Einaudi, con la traduzione di Monica Pareschi. L’ho adocchiato, per caso, in libreria e, volentieri, mi sono lasciato conquistare dal soggetto della sua agile copertina, dalle linee essenziali e dai colori densi e lucenti: un’opera a olio di Emma Cownie, che ritrae una bianca casetta del Donegal immersa nell’azzurro del cielo e nel verde dei prati. Insomma, un colpo basso per me che adoro i paesaggi “celtici” e che sono visceralmente innamorato dell’Irlanda.
Piccoli scorci di quotidiano: un racconto di formazione
La trama, ambientata nella campagna irlandese e da cui, nel 2020, per la regia di Colm Bairéad, è stata tratta anche un lungometraggio («The Quiet Girl»), è piuttosto semplice. Una bambina (il cui nome, nel testo, non viene mai accennato) viene affidata, dal padre, ai coniugi John e Edna Kinsella: passerà l’intera estate con loro. I genitori della piccola, infatti, vivono una situazione di indigenza e sono in attesa dell’ennesimo figlio. Sin dall’inizio, si delinea un percorso di formazione che, attraverso l’incantevole grazia del quotidiano e la profonda sensibilità dei Kinsella, segnerà la crescita emotiva e caratteriale della protagonista.
Tutt’attorno, l’asprezza (ma anche la dolcezza) di sfondi rurali e scorci di vita agreste che donano alla trama un tocco di poesia, come se all’improvviso, quasi, ci si trovasse di fronte a un brano di Patrick Kavanagh o di Seamus Heaney: «I campi di Kinsella sono ampi e piatti, divisi in appezzamenti con delle recinzioni che lei mi dice di non toccare, se non voglio prendere la scossa. Quando soffia il vento, le parti dove l’erba è più alta si piegano e si colorano d’argento. Su uno di questi appezzamenti, una mandria di alte mucche frisone è intenta a brucare tutt’intorno a noi. Qualcuna guarda in su al nostro passaggio ma nessuna si allontana di lì […]. Sento il rumore dell’erba quando la strappano dalle radici. Camminiamo, e il vento bisbiglia sfiorando il bordo del secchio». Ma è nel lavoro (che è, prima di tutto esempio e, quindi, pedagogia) che si fortifica la personalità della bimba: «Mi dà l’incarico di tostare il pane e mi accende la griglia, facendomi vedere come girare le fette quando sono abbrustolite da una parte, come se non l’avessi mai fatto prima, ma non ha importanza; vuole che faccia le cose per bene, vuole insegnarmi».
E ancora: «[…] prepariamo a voce una lista delle cose da fare, e le facciamo: raccogliamo il rabarbaro, inforniamo le crostate, pitturiamo i battiscopa, togliamo tutte le lenzuola dall’armadio della biancheria, usiamo l’aspirapolvere per eliminare le ragnatele e riordiniamo i panni puliti, impastiamo gli scones, puliamo la vasca da bagno, spazziamo le scale, lucidiamo i mobili, facciamo bollire le cipolle per la salsa e poi la mettiamo nei contenitori per congelarla, strappiamo le erbacce dalle aiuole fiorite e poi, quando cala il sole, innaffiamo le piante. Infine è ora di preparare la cena, allora bisogna attraversare i campi per andare al pozzo. Ogni sera accendiamo la televisione per guardare il telegiornale delle nove, e dopo le previsioni del tempo mi dicono che è ora di andare a letto».
L’abitudine muta in ritualità e la ritualità assume tratti pressoché fiabeschi e ogni fiaba che si rispetti, al proprio interno, racchiude una fase di iniziazione, affinché ogni cosa, come si legge a pagina 23, diventi «sempre qualcos’altro», trasformandosi «in un’altra versione di quello che era prima». Nel libro, a livello simbolico, si contano almeno tre momenti di iniziazione e hanno a che fare con l’acqua: quando alla bambina, appena arrivata dai Kinsella, viene fatto il primo bagno («Dopo un po’ mi sdraio nella vasca, e attraverso il vapore guardo la donna che mi strofina i piedi […], mi strofina i capelli e sciacqua via la schiuma»), quando si abbevera al pozzo («Tuffo il mestolo e me lo porto alle labbra. Quest’acqua è la cosa più fresca e pura che abbia mai assaggiato: sa di mio padre che se ne va […], di me che sono rimasta senza niente dopo che se ne è andato […]. Bevo sei volte e intanto esprimo il desiderio che questo posto […] possa essere per un po’ casa mia.») e quando, sempre al pozzo, rischia di morire («[…] mi abbasso con il secchio, lasciandolo galleggiare e riempirsi e affondare come fa la donna – ma quando allungo la mano per sollevarlo è come se un’altra come la mia sbucasse dall’acqua e mi tirasse dentro»).
Poi, ovviamente, c’è la “gita” al mare e l’attimo epifanico della simbiosi, in cui la protagonista si sente parte dei Kinsella: «Guardo il mare in lontananza. Le due luci baluginano come prima, ma in mezzo ne brilla un’altra, fissa».
La lingua della cura e la stagione del cuore
Già, i due affidatari, John e Edna Kinsella: senza figli, benestanti, intelligenti e moderni; argini di difesa contro il degrado materiale (e soprattutto morale) in cui versa la bambina, vittima di un padre violento (e probabilmente ubriacone) e di una madre rude e anaffettiva. La loro casa, a differenza di quella dei genitori, non è fredda, sudicia e caotica, bensì un luogo pulito, ordinato e sicuro, «dove ci sono lo spazio e il tempo per pensare».
John spinge la piccina a correre sempre più forte e la riempie di tenere parole; Edna le compra vestiti e libri e, con estrema premura, si prende cura del suo corpo trascurato e della sua istruzione. Entrambi la gratificano, facendole comprendere che la vita non è solo fatica, ma anche conoscenza e relazione. È un linguaggio diverso, che la protagonista non riesce a tradurre («Le sue mani sono come quelle di mia mamma ma hanno anche qualcos’altro che non ho mai sentito prima e a cui non so dare un nome. Continuo a non trovare le parole ma questo è un posto nuovo, servono parole nuove»), è il linguaggio gratuito dell’amore che, sin dalle prime pagine, scorre nella lingua materna (quella gaelica) di Edna: «Vieni dentro, leanbh», ovvero: «Vieni dentro, bambina». Ecco, allora, che grazie alla fattoria dei Kinsella (un mondo accogliente e salvifico, in cui esercitare la propria libertà) l’estate diventa un periodo di possibilità e accadimento.
Eppure, nonostante tutta questa gaiezza (e la piacevolezza della storia, narrata in prima persona dalla protagonista), l’opera di Claire Keegan è innervata da una sottile malinconia: quella del ritorno a casa della bambina, certo, ma non solo. Sul passato dei Kinsella aleggia infatti l’ombra di un terribile segreto: un lutto, quello del loro figlioletto, annegato, tempo addietro, nel pozzo del liquame. Una verità, questa, che viene svelata verso la fine del racconto e che permette di rileggere, con occhi diversi, alcuni passi del testo: «Mentre torniamo lungo il sentiero e attraverso i campi, io con la mano nella sua, ho la sensazione che stia in equilibrio grazie a me. Se non ci fossi, sono sicura che cadrebbe». L’estate, quindi, è prima di tutto una stagione del cuore; una dimensione che vivono sia i Kinsella che la bambina, “terza luce” che ha portato senso nella vita dei due coniugi.
Nel finale, struggente, pure il cielo pare non riuscire a trattenere la tristezza: una scarica di goccioloni (che segna, forse, la fine della siccità accennata all’inizio del libro) avvolge il paesaggio, mischiandosi ai singhiozzi e alla mestizia di Edna, di John e della bambina e sugellando, definitivamente, la loro unione. Un’unione al di là del legame di parentela biologico, della distanza geografica e del dolore.