Giugno è un mese che chiunque collega alla fine della scuola, alla sensazione di libertà e al sapore di estate che il suono dell’ultima campanella porta con sé. Giornate allungate e interminabili pomeriggi di cazzeggio, tramonti accesi e un’euforia a tinte pastello. Gli stessi colori che ritroviamo sulla copertina di “Giugno”, un libro (edito da Sperling & Kupfer) in cui tutte queste sensazioni diventano la cornice per un romanzo di formazione. Lo hanno scritto a quattro mani Paolo Bontempo e Gianluca Dario Rota, rispettivamente nativi di Bergamo e Concorezzo, colleghi nella Scuola di Cinema a Milano prima e partner “di penna” poi.
La storia è presto detta: Domenico, teppistello di quartiere diviso tra gang, motorini e bravate varie, viene costretto controvoglia a frequentare il CRE. Così la vita all’oratorio diventa un segreto inconfessabile, una frattura non sanabile che sfregia irrimediabilmente la sua consolidata routine fatta di pomeriggi allo skate-park e playlist trap sparate a tutto volume dalla cassa bluetooth. Detta così, potrebbe sembrare la classica parabola un po’ buonista pronta da scongelare per un classico romanzo con l’etichetta “per ragazzi” ben visibile.
Ma bastano poche pagine per capire che “Giugno” è un libro con diverse cose da dire, e non necessariamente pensato per un target che coincida anagraficamente con quello (pre)adolescenziale dei protagonisti che lo abitano.
Longuelo diventa un (non) luogo che è quasi un personaggio aggiunto. Le sue strade e i suoi luoghi vivono di un’energia e di una personalità capaci di generalizzarsi: così il quartiere di Bergamo può diventare per antonomasia una provincia nord-italiana qualsiasi, con i suoi loop e i suoi stereotipi (anche) sociali. E qualsiasi lettore può facilmente riconoscervisi anche nel caso in cui non abbia mai visto Bergamo neanche in cartolina.
Il narratore, onnisciente e in terza persona, racconta pensieri ed emozioni dei protagonisti senza mai filtrarli: così è la storia a parlare per sé stessa, rimandando al lettore qualsiasi valutazione. Un espediente narrativo che, unito alla scelta dei protagonisti e alla calura estiva che permea ogni pagina, riporta immediatamente alla mente le atmosfere di precedenti illustri: “Io non ho paura” di Ammaniti su tutti, o episodi Stephen-kinghiani come “The Body” o “It”.
E proprio questa assenza di filtri da parte della voce narrante rende definitivamente “Giugno” una lettura appassionata anche per fruitori più smaliziati e/o “attempati”. La crescita di Domenico è resa unicamente attraverso i suoi occhi. Le prime esperienze sessuali, le dinamiche di gruppo, il disagio familiare e le disuguaglianze sociali sono presentate esattamente per come le vede e le vive il protagonista. Manca una censura sia dall’alto che dal basso. Non c’è moralismo da adulti (o almeno non direttamente) e l’ingenuità del ragazzino non è mai didascalica.
Abbiamo approfondito questi e altri aspetti con i due autori, Paolo e Gianluca.
LR: Come vi siete conosciuti e qual è la vostra “storia” di autori?
LB - GDR: Ci siamo conosciuti alla Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti. Paolo veniva dal liceo Sarpi (senza studiare poi troppo), Gian invece si era appena laureato in lettere alla Statale. La cosa divertente è che per tutto il primo anno neanche ci siamo parlati, pur avendo molte amicizie in comune anche extra-scolastiche. Erano tutti lì che ci dicevano “Devi conoscere Gianluca!” “Devi conoscere Paolo!” e noi niente. Poi siamo finiti a fare lo stesso corso di sceneggiatura e lì è iniziato tutto.
LR: Come è nata l’idea di “Giugno”?
LB - GDR: In quel periodo in Civica, finiti i corsi del secondo anno, abbiamo continuato a trovarci in aula break a caso. Avevamo voglia di scrivere per partecipare a qualche concorso di sceneggiatura. E in quei giorni di caldo rovente, nasce l’idea di “Giugno”, che era l’idea per un film. Lo spunto principale era quello di un ragazzino che finisce controvoglia all’oratorio. In pochi giorni abbiamo composto il nucleo iniziale della storia. Da lì abbiamo cominciato a lavorarci, tanto da partorire un’intera sceneggiatura insieme ad Andrea e Stefano, altri due amici della scuola di Cinema che consideriamo padri della storia tanto quanto noi. Con questa sceneggiatura siamo arrivati alla finale di un concorso cinematografico a cui per caso partecipavano anche le case editrici, tra cui Sperling&Kupfer. Nasce da lì l’idea di farne un romanzo. Sono passati più o meno tre anni, la storia è cambiata molto, ma l’atmosfera delle origini è rimasta intatta. Quell’atmosfera fatta di caldo, giornate estive e la sensazione di cazzeggio di quando hai dodici anni e arriva giugno.
LR: Da dove arriva la scelta di ambientare la storia a Bergamo?
LB - GDR: Inizialmente è stata una scelta quasi casuale, dovuta forse al fatto che Paolo fosse nato e cresciuto qui, e che in qualche modo Bergamo rappresentasse un luogo di provincia, ma non fuori dal mondo. Poi la scelta di Bergamo, con tutti i suoi luoghi e rituali che la rendono unica, ha aiutato la storia sia a livello evocativo sia a livello linguistico, per cui avere dei personaggi che dicono “pota” o “fidec” o che parlano di “città alta”, secondo noi dà tanto in più rispetto a una location generica.
Dall’altro lato, quella che si viene a creare è una sorta di “Bergamo immaginaria”. Sicuramente per un bergamasco le ambientazioni del libro ricordano molto da vicino i luoghi in cui è cresciuto, anche se non sempre sono descritti realisticamente. Ma anche chi viene da altre zone del Nord-Italia può riconoscersi in una realtà che non è tanto geografica ma umana. Un certo tipo di comunità, con i suoi gruppi, i suoi legami e i suoi luoghi simbolo, come l’oratorio, la zona con le case più belle e il supermercato di quartiere. Alcuni dettagli colpiscono al cuore solo chi è proprio bergamasco, come i cori dell’Atalanta e il panorama dai colli, ma chiunque può immedesimarsi e trovare un pezzo del suo mondo.
LR: A Bergamo siamo un po’ vittima dello stereotipo per cui il dialetto è collegato a un’espressione culturale “bassa”. Nel vostro libro invece aiuta la storia e diventa un elemento di caratterizzazione dei personaggi.
LB - GDR: Abbiamo tentato di liberare il dialetto dallo stereotipo di essere “la lingua degli ignoranti” o dei “campanilisti”, dandole valore di libertà di espressione in un gruppo con un forte legame di amicizia. Per questo il dialetto si mixa molto bene con l’uso di espressioni inglesi/slang giovanili/parolacce. Un linguaggio che crea identità. Ogni gruppo di amici ha i suoi jingle e che anche i nostri protagonisti hanno i loro. Dall’altra parte abbiamo voluto fare emergere il fatto che chi cresce in un ambiente più beneducato e pettinato usa meno espressioni gergali, un po’ per snobismo, un po’ perché non si sente libero di giocare la lingua. Abbiamo calcato la mano su questa differenza perché faceva gioco per l’immedesimazione del lettore nel protagonista.
Poi qualunque dialetto è figo e nella nostra ottica fa parte di un generale tentativo di utilizzare la lingua in maniera più espressiva, libera e nuova.
LR: A livello di ispirazione, c’è qualche testo o autore che è risultato significativo come modello per “Giugno”?
LB - GDR: Non ci siamo ispirati a nulla di preciso in fase di scrittura. Le analogie credo siano venute dopo. Qualcuno – non noi perché sarebbe stato veramente arrogante – ha accennato un paragone con “Jack Frusciante è uscito dal gruppo” e non possiamo che esserne felici. Noi citiamo anche due titoli che crediamo possano avvicinarsi molto, che sono “L’odio” (film) e “Il corpo” (racconto da cui è stato tratto il film “Stand by me”). Poi certo è impossibile non essere influenzati da qualcosa e qualcuno, ognuno di noi due ha reference personali e diversissime.
LR: Com’è scrivere un romanzo a quattro mani?
LB - GDR: Prima di scrivere “Giugno”, vivevamo nel mood “la mia intimità di scrittore”. Che ci sta, ognuno ha la propria personalità, la propria visione e ci sono contenuti che non si potrebbero scrivere in coppia ed è giusto che sia così. “Giugno”, nato da una collaborazione non poteva che percorrere questa strada. Ci ha aiutato la nostra estrazione da sceneggiatori, un mestiere che si basa sul teamworking su vari livelli.
È stata una bellissima scoperta. Da una parte avevamo molto bene in mente cosa volevamo raccontare, dall’altra abbiamo scelto di essere sempre disponibili ad accettare ciò che veniva fuori in maniera inaspettata, con l’idea che insieme stavamo costruendo qualcosa di nuovo: un nuovo equilibrio di azione e descrizione, un nuovo linguaggio, una cosa che non era solo dell’uno o solo dell’altro. I nostri stili si sono mixati a tal punto che non ci ricordiamo nemmeno più chi ha scritto cosa o chi abbia pensato cosa. Poi credo che finora nessuno ci abbia mai detto “si vede che lo avete scritto in due”, questa è la soddisfazione più grande.