«D ue più due può fare cinque» amava dire «Il mago di Riga», Michail «Misa» Tal’, morto nel 1992 dopo una vita di eccessi, genialità, autodistruzione e quella fantasia anarchica che lo ha reso una leggenda del gioco degli scacchi. Una leggenda che Giorgio Fontana ha raccontato – grazie ad una passione adolescenziale, divenuta poi matura – lasciando che gli scacchi, prima di ogni possibile metafora di vita, fossero “solo” scacchi. Una questione che riguarda l’intelligenza, il coraggio e la bellezza.
CP: Partiamo con una domanda personale: come nasce la passione per gli scacchi e la voglia di raccontare il genio di Tal’ in un romanzo breve?
GF: Da ragazzo ero molto appassionato di scacchi: lo sono tuttora, ma non con quel fuoco tipicamente adolescenziale. Studiando la storia del gioco incontrai la figura straordinaria di Tal’ restandone — come capita a tanti — incantato e deliziato. Molti anni dopo, dopo una cena a casa dei miei genitori, ho sfogliato per caso alcuni vecchi libri e ritrovato partite e cenni biografici del Mago di Riga. Al che ho pensato: «Sarebbe il personaggio perfetto per un romanzo» — perché raccoglieva tutto, o almeno molto di quel che mi interessava: il genio, l’ascesa e la caduta, il fascino, il rischio, l’autoironia, la libertà, la vita in Unione Sovietica ecc. E così l’ho scritto, cercando di condensare il più possibile questi temi in poche pagine. È il primo romanzo che scrivo con un protagonista realmente esistito, e il mio libro più breve; è anche il testo su cui ho più lavorato dal punto di vista squisitamente stilistico.
CP: La struttura narrativa alterna continui salti temporali nei quali il protagonista ricalca il suo passato di gloria, pur compiacendosi di un presente nel quale vive l’eccesso, sia nella vita privata che nel gioco, come una forma di ribellione, rispetto ad un mondo animato da serietà, cattiveria e disuguaglianze. Cosa ne pensa lei a riguardo?
GF: Lo credo anch’io, per più motivi. Innanzitutto, a differenza di quanto accade nella vita di ogni giorno, nel gioco le regole sono chiare e definite una volta per tutte: si può barare, certo, ma barando si nega l’essenza stessa del gioco. In secondo luogo, nonostante sia racchiuso in norme fisse — o proprio in virtù di ciò — il gioco è espressione della massima libertà: non ha altri fini se non se stesso, e quest’assenza di scopi ulteriori è cosa rara nella nostra società. Eppure l’atteggiamento ludico è fondamentale per l’essere umano e per gli animali; senza gioco non ci sarebbe nemmeno cultura: è un gesto davvero primordiale. Aveva ragione Huizinga (storico e linguista olandese, ndr) quando scriveva in «Homo ludens»: «Si possono negare quasi tutte le astrazioni: la giustizia, la bellezza, la verità, la bontà, lo spirito, Dio. Si può negare la serietà. Ma non il gioco».
CP: La rassegna di eventi alla quale parteciperà si intitola «Presente prossimo». Quale pensa che sia l’eredità lasciata dal «Mago di riga» e più precisamente dal suo personaggio?
GF: Ci sono moltissimi aspetti della vita e dello stile di Tal’ che ancora oggi sono estremamente attuali, come l’affermazione della propria autonomia personale in un mondo sempre più conformista, o la rivendicazione del senso dell’umorismo come correttivo fondamentale per una buona vita (cosa che mi trova pienamente d’accordo). Ma nessuno meglio di Tal’ stesso ha riassunto l’eredità più importante. In una frase posta ad esergo del romanzo, tratta da un’intervista del 1987, afferma: «Posso solo dire che si dovrebbe giocare a scacchi perché ci si diverte, non per vincere premi. E ciò che è più importante: non si deve aver paura di perdere una partita». Non vale solo per gli scacchi, ma anche per tutto il resto.
CP: Tutto il romanzo si incentra sul gioco, non solo quello della scacchiera che anima tutta l’esistenza di Tal’, fino alla morte, ma sulla forma ludica intesa come metafora dell’esistenza. Esistenza che per il protagonista non è tanto animata dal bisogno che le vittorie superino le sconfitte, quanto piuttosto dal desiderio di vitalità che arde solo tra i movimenti dei pezzi. Da cosa deriva questa visione pessimistica dell’esistenza nel caso del protagonista?
GF: Non parlerei di pessimismo. Tal’ era anzi un ottimista nato — forse fin troppo, poiché pensava di poter vincere con un colpo spettacolare anche posizioni perdute! — ma era troppo intelligente per illudersi sulla verità di fondo: alla fine, tutti dobbiamo perdere; a tutti tocca morire. Questo però animava e rinfocolava il suo desiderio di vita e di bellezza: certo riteneva importante vincere, ma era molto più importante il modo in cui avrebbe trionfato: ovvero con mosse indimenticabili, straordinarie, perfino enigmatiche. Uniche.
CP: Nel libro c’è un passaggio in cui Tal’ parla del concetto di sacrificio. Egli individua quelli “classici” e i suoi. Questi ultimi non necessariamente si concretizzano in una vittoria ma devono piuttosto puntare a quello che lui definisce «squilibrio radicale». Condurre, cioè, l’avversario in acque torbide e vedere chi ha più forza per resistere. È possibile secondo lei dare attuazione a quest’idea nella vita “vera”?
GF: Sì, e anzi: molto spesso le nostre scelte sono guidate da intuizioni in luogo di calcoli estremamente precisi. Non possiamo eliminare il rischio dalle nostre vite — e sarebbe anche triste pensare il contrario — ma possiamo imparare a governarlo, o persino a stuzzicarlo e giocare con esso: proprio come faceva Tal’. Certo in tal caso dobbiamo essere pronti anche alla sconfitta; ma per citare di nuovo il mio protagonista, «non si deve aver paura di perdere una partita».
CP: Lo stile del «Mago di Riga», come suggerisce il suo stesso appellativo, si distacca dall’immagine classica di un gioco fatto di regole da seguire scrupolosamente, perché Tal’ cerca di trascinare sempre i suoi avversari in una fitta foresta di caos e disordine nella quale solo lui riesce a trovare la via. Può anche questa essere letta come una metafora per dare significato all’esistenza?
GF: Cerco di stare lontano dalle grandi metafore sull’esistenza quando scrivo, e in questo romanzo ho trattato gli scacchi innanzitutto come scacchi, e lo stile di Tal’ come stile di gioco. Ciò detto, è innegabile che il modo in cui Tal’ giocava somigliasse molto alla sua condotta di vita.
CP: A proposito di esistenza, Tal’ desidera viverla come un lago che non si deve esplorare lentamente ma bisogna piuttosto prosciugarlo alla svelta, per evitare il sopraggiungere dell’infelicità e della disillusione. Qual è la sua idea in merito?
GF: Tal’ ha bruciato la sua esistenza vivendo alla massima velocità possibile, con il massimo rischio possibile, e non conosceva altri modi per abitare questo mondo. Suo figlio Gera ricorda che a volte pareva quasi farlo apposta: sfidava le restrizioni mediche, non badava alla propria salute, voleva semplicemente obbedire al proprio stile di vita fino in fondo. Il prezzo da pagare è stato molto alto, ovviamente: la consunzione del proprio corpo e una morte prematura. Io da questo punto di vista sono più cauto e ritengo che ci si possa proteggere da infelicità e disillusione anche senza simili eccessi; ma ne capisco molto bene il fascino.
CP: A conclusione del romanzo Tal’ afferma che la vita intera è un gioco e ciò non significa che sia irrilevante o poco seria ma che anzi bisogna coglierne l’insensatezza di fondo. Come risponde a questa “provocazione”?
GF: È molto difficile rispondere. Ci sono momenti in cui la vita sembra effettivamente priva di senso, e ogni opera appare vana. Non sono credente e dunque non ho appigli trascendenti cui aggrapparmi: tocca fare i conti con quel che c’è ogni giorno e provare a investirlo di un significato. È un duro lavoro e difficilmente ce la si cava da soli: sono fortunato ad avere una comunità di affetti con cui condivido questa ricerca.
CP: Per Tal’, la magia del sacrificio è la via d’uscita. Qual è la sua?
GF: La scrittura.
CP: Riesce a dirci la ragione per cui anche chi non ha mai giocato una partita a scacchi dovrebbe cominciare?
GF: Perché gli scacchi hanno regole abbastanza semplici da apprendere, ma mostrano subito una profondità quasi abissale: ci si può divertire a ogni livello, anche se naturalmente più si approfondisce il gioco e più il suo fascino si disvela. Inoltre sono molto educativi: alla scacchiera contano soltanto le proprie forze, e ci si deve assumere piena responsabilità per ogni mossa — non è possibile scaricare colpe su altri. Infine, credo che la bellezza espressa da certe combinazioni e da certi finali di scacchi non sia da meno della bellezza di alcune opere d’arte: acquisire la capacità di goderne non è cosa da poco.