Chi si ricorda di David Maria Turoldo? In pochi purtroppo all’interno di quel panorama culturale odierno che Goffredo Fofi ha definito in un suo recente saggio “L’oppio dei popoli”. Il sacerdote friulano, che trascorse gli ultimi anni della sua vita a Fontanella di Sotto il Monte (dove è sepolto), fu filosofo, scrittore, teologo e poeta fra i più intensi del secondo Novecento, vibrante di una coscienza lucida e inquieta, capace di dire ancora oggi, anche ai non credenti.
Ci siamo fatti raccontare una figura così complessa e multiforme dalla storica Mariangela Maraviglia, autrice di “David Maria Turoldo. La vita, la testimonianza” (Morcelliana, 2016): la studiosa sarà lunedì 21 ottobre (ore 20.45) a Torre Boldone per “Canta il sogno del mondo”, all’interno del calendario di Molte fedi.
L.B. - Partiamo da qui: Turoldo fu presbitero, teologo, filosofo, scrittore, poeta ma pure antifascista.
M.M. - Insieme al confratello Camillo De Piaz e a diversi amici e professori dell’Università del Sacro Cuore di Milano, dove frequentava la facoltà di filosofia (il filosofo Gustavo Bontadini, lo storico del teatro Mario Apollonio, lo scrittore Luigi Santucci e il critico letterario Angelo Romanò) maturò una viva coscienza antifascista, che sfociò in attiva partecipazione alla Resistenza: fondarono e diffusero un foglio clandestino, L’Uomo, e nei locali del convento di San Carlo al Corso offrirono aiuto e ospitalità a perseguitati politici e oppositori del regime. Con notevole sprezzo del pericolo: i tedeschi avevano posto la sede del comando dei trasporti proprio nel cortiletto di accesso al convento dislocato dietro all’abside della chiesa di San Carlo…
L.B. - Venne definito “coscienza inquieta della Chiesa” e rientrò in quel movimento di rinnovamento della Chiesa del secondo Novecento. Ma non sempre venne compreso. Che cosa disse nello specifico?
M.M. - Visto dal nostro tempo appare una figura esemplarmente novecentesca, l’incarnazione perfetta di quella generazione di cattolici che dopo la fine del fascismo scommise su una società democratica e solidale con i poveri e aspirò a una Chiesa più evangelica. Turoldo, con la sua potente predicazione, con i suoi scritti, soprattutto con la sua poesia, fu un portavoce di quella generazione: si entusiasmò per il Concilio Vaticano II, che apriva una nuova stagione di dialogo della Chiesa con l’umanità, anche di diversa o di nessuna fede.
L.B. - Il ritorno al Libro è un concetto fondamentale nella sua visione di fede.
M.M. - Turoldo invitava alla lettura della Bibbia per riscoprirvi il senso della relazione con Dio attraverso la persona di Gesù Cristo. Come non pochi della sua generazione padre David accordò anche fiducia ai movimenti del 1968, a una contestazione che rivendicava un mondo nuovo, liberato dalle schiavitù prodotte dal modello di sviluppo capitalistico e dalle politiche imperialistiche; sposò con generosità le cause degli oppressi di tutto il mondo, interpretando in chiave liberatrice la fede cristiana.
L.B. - Ebbe però un rapporto non sempre semplice con la Chiesa ufficiale. Ad esempio nel 1953 fu costretto a lasciare Milano e a rifugiarsi prima in Austria e poi in Baviera…
M.M. - La vita di Turoldo è stata una grande avventura. Soprattutto negli anni precedenti al Concilio, anni in cui nella Chiesa era imposta obbedienza acritica e unanimità di risposte – l’Azione Cattolica cantava “un esercito all’altar” –, fu visto come un pericoloso fomentatore di critica e di dissenso e allontanato. Fu indirizzato al convento di Innsbruck ma riuscì a stabilirsi in un monastero bavarese (1953); poi, non desiderato a Milano, fu accolto nella Firenze di Giorgio La Pira (1954-1958); seguì un nuovo “esilio” di due anni a Londra, con una lunga predicazione americana. Riuscì a ritornare in Italia, a Udine, nel 1960.
L.B. - Cosa dava fastidio?
M.M. - La forza trascinante della sua parola e il fervente attivismo con cui avviava iniziative culturali e sociali che lo facevano considerare una presenza scomoda e da espellere dai conventi in cui risiedeva. Una sua poesia, pubblicata nella sua prima raccolta poetica “Io non ho mani”, esibiva la consapevolezza della propria capacità di interrompere “paci” statiche e infruttuose: “Finalmente ho disturbato / la quiete di questo convento / altrove devo fuggire a rompere altre paci”.
L.B. - Da lettore di Turoldo ho una percezione di lui come uomo attraversato da una fede inquieta, puntellata di dubbi e macerazioni. È così?
M.M. - Lo storico Michele Ranchetti, che gli fu amico e che ne ha scritto con simpatia critica, sosteneva che la fede di Turoldo non era attraversata dal profondo travaglio che proclamava ma era già intimamente risolta in una persuasione inattaccabile. Io credo che egli non potesse pensarsi al di fuori dello sguardo di Dio: tutta la sua poesia è, come scriveva lui stesso nella sua prima raccolta poetica, “rendiconto di una esperienza religiosa”, e nelle sue righe finali si autodefiniva un “maniaco di Dio”. Ma condivideva la domanda di molti “credenti pensanti”, secondo la formula magistralmente adottata da Carlo Maria Martini, “il credente e il non credente presenti in ciascuno di noi”, e sperimentava una intima contraddizione, infine risolta in un affidamento all’abbraccio di Dio.
L.B. - In lui c’era anche una grande fiducia verso l’uomo.
M.M. - L’uomo rimane l’orizzonte di intervento fin dalla sua giovinezza e dalla fondazione del giornale L’Uomo di cui si è parlato prima: un titolo che indicava l’avvio di una nuova società fondata sul valore assoluto dell’“uomo”, che prospettava la rinascita religiosa, morale, civile, politica di un popolo. Un ideale che lo accompagnò per tutta la sua vita. Nello scrivere la biografia di Turoldo, constatavo che la sua profezia religiosa, sociale e politica si stagliava come un unico impegno dispiegato nel corso dell’intero Novecento, senza soluzione di continuità.
L.B. - Come mai ad un certo punto decise di trasferirsi a Fontanella?
M.M. - L’incontro con Fontanella avvenne mentre, tornato da Londra e dall’America, viveva nel convento di Udine. Informato da amici della presenza della millenaria abbazia di Sant’Egidio nella frazione di Fontanella di Sotto il Monte, oasi di pace in cui si diceva avesse sostato anche il futuro papa Giovanni XXIII, la individuò come sede ideale per un suo progetto di comunità di laici e frati. Nell’autunno 1963 scrisse al priore provinciale per ottenere il permesso di vivere fuori dal monastero e incontrò il vescovo di Bergamo Clemente Gaddi che concesse l’abbazia. Nel 1964 Gaddi accolse la costituzione della nascente Casa di Emmaus, come “casa di preghiera e di studio” e il Centro di Studi Ecumenici Giovanni XXIII che lì venne costituito. Il suo sogno era quello di poter fare dei luoghi in cui aveva vissuto papa Giovanni, il grande papa che aveva indetto il Concilio Vaticano II e promosso il rinnovamento della Chiesa, “una piccola nuova Assisi”, una seconda capitale della pace a imitazione della città di San Francesco.
L.B. - Turoldo celebrò il funerale di Pasolini, recitando un’omelia bellissima, carica di pietà e misericordia. Che rapporto c’era fra i due friulani?
M.M. - Turoldo parlò più volte della sua attenzione e della sua stima per Pasolini, che però si esercitò a distanza. Qualche scambio si ebbe in relazione ai film girati: “Gli ultimi” di Turoldo nel 1963, “Il Vangelo secondo Matteo” di Pasolini nel 1964. Di Pasolini, Turoldo condivideva la denuncia culturale e politica e apprezzava “l’anima religiosa” di “credente senza fede”, di instancabile cercatore di un senso profondo della vita. Quando nel novembre 1975 Pasolini venne assassinato, e la sua non dimentichiamolo, fu una morte “scandalosa”, Turoldo partecipò alle sue esequie friulane, leggendo come orazione funebre una sua lettera indirizzata alla madre del regista, mostrando una pietà e una comprensione profonda che gli attirarono critiche feroci dagli ambienti più conservatori.
L.B. - Ogni volta che leggo Turoldo mi viene in mente un altro grande cattolico “eretico”, l’esegeta Sergio Quinzio.
M.M. - Possiamo accostarli per la radicalità della loro fede interpellante, anche se i profili umani e culturali delle due personalità sono assai diversi. La raccolta poetica “Canti ultimi” colpì Quinzio, che scrisse a Turoldo di aver “costeggiato intorno ai suoi stessi ‘difficili scogli’”, mendico come Turoldo di “una povera restituzione del semplice ’bene’ che abbiamo umanamente vissuto come tale”. Sicuramente sapeva che padre David stava vivendo i suoi ultimi giorni, gli scriveva il 30 novembre 1991, Turoldo sarebbe morto il 6 febbraio 1992. Riconosceva in lui la drammatica domanda di Dio che aveva contrassegnato anche la sua vita, ma gli era estranea la visione di un cristianesimo incarnato nella storia propria di Turoldo.
L.B. - Quale è la modernità di Turoldo oggi?
M.M. - Non so quanto la realtà di oggi, una cultura che Goffredo Fofi ha provocatoriamente definito nel suo ultimo libro “L’oppio del popolo”, possa accogliere una voce come quella di Turoldo. La sua era una personalità mai acquiescente, che condivideva con la “Lettera a Diogneto”, un testo del primo cristianesimo da lui molto amato e citato, l’intento di non essere asservito ai poteri “del mondo”. Il suo messaggio è un messaggio di “resistenza” a tutto ciò che è ingiusto, di opposizione a ogni forma di “disumanità”. Ma quanto possa essere “moderno” quello che allora fu considerato “un uragano benefico che smuove le acque dell’indifferenza” francamente non so dirlo. Sono però sicura che valga la pena ricordare che sono esistite personalità come la sua, di così grandi ideali e di così totale generosità. Per i tanti o per i pochi che vorranno raccoglierne il testimone.