Quanti modi ci sono di fare poesia? Ne esiste uno più virtuoso di altri? Se è fisiologica un’evoluzione della lingua proporzionale ai mutamenti della società, lo è anche del linguaggio, ovvero la comunicazione e la facoltà umana di esprimere il pensiero. Personalmente, da accanita ricercatrice e amante della parola, trovo piuttosto ingenuo il reazionarismo letterario e il conseguente rifiuto verso nuove forme di espressione. Questo non esclude il riconoscimento del bello e del buono, non solo secondo convenzioni determinate dall’eccellenza, ma anche per mezzo di strumenti non classificabili, come sensibilità ed empatia.
Il secondo appuntamento di #(di)versi è con Alessandro Ardigò, classe 1982, caravaggese. Si laurea in Lettere e dopo aver collaborato con alcuni giornali si interessa di editoria libraria, lavorando come editor per diverse case editrici. Successivamente si abilita all’insegnamento e insegna Letteratura italiana nei licei.
A livello accademico, scrive articoli di ricerca sulla “Commedia” di Dante mentre cura l’edizione di un manuale scolastico di lingua italiana. Nel 2017 fonda RadiciDigitali.eu , una rivista online che si occupa di letteratura, storia e didattica, di cui tutt’ora è responsabile.
Attualmente sta conseguendo una seconda laurea magistrale, in Storia, presso l’Università degli Studi di Milano. Il suo primo libro, “Prosimetro moderno” (Eretica edizioni, 2020), è finalista del Premio Apollo Dionisiaco e selezionato al premio Quasimodo 2021. È recentemente uscita la sua ultima raccolta poetica dal titolo “Cedere e altre cose dette d’amore” (Eretica edizioni, 2022).
Un puro azzurro si ferma sulla fronte
oltrepassando il muro d’alberi al cielo.
Sono le vie antiche
della solarità.
CD: Come ti sei avvicinato alla poesia?
AA: Sembrerà strano, ma più che avvicinarmi, io dalla poesia cerco di fuggire. È lei che mi insegue con le sue immagini, le sue luci, le sue suggestioni, le sue combinazioni rivelatrici. A volte riesco a farla tacere, a volte no. Lo dicevano anche i nostri poeti della tradizione Stilnovista: il primo verso è una folgorazione che non si decide di avere. La si ha e basta. Poi il resto è costruzione artistica, è un’azione creativa – il poièin greco – figlia di una continua, instancabile riflessione e ricerca. Non sempre è piacevole l’atto del comporre. Anzi, credo che se non ci sia un minimo di causticità nei confronti del reale, una capacità di analisi e scontro, sorretta da una continua frequentazione di autori diversi e significativi, la letteratura non serva. Esprimere qualcosa, nel senso proprio di ex-primere, cioè di “tirar fuori”, spesso è lancinante e per questo, forse, terapeutico, per chi scrive e per chi legge. Le mie prime poesie risalgono ai primi anni delle scuole superiori. Più antica invece è l’inclinazione alla lettura, all’ammirazione del libro, illustrato soprattutto. Guardare per molto tempo e con meraviglia la pagina scritta e illustrata. Quello sì, risale all’infanzia.
CD: Chi sono i tuoi riferimenti e perché?
AA: Dante è il primo nome che, anche volendo, non riesco a non pronunciare. Ci ho scritto una tesi, diversi articoli scientifici, alcune conferenze e cerco di insegnarlo con impegno. Ma non solo, quello con Dante è un rapporto che arriva da molto prima dell’università, dai volumi illustrati della mia infanzia che citavo sopra. In “Cedere e altre cose dette d’amore”, Dante c’è subito nel titolo (il “Detto d’Amore”, la cui attribuzione è molto controversa) e in vari altri punti. I temi e gli stili, però, attingono da altre fonti e da altre logiche che quelle del pluristilismo dantesco. Io vengo da un libro – “Prosimetro moderno” – in cui mescolavo, in maniera abbastanza provocatoria, la prosa e la poesia. In questo senso la parola “ibrida” e pluristilistica di Dante mi faceva da guida.
CD: In “Cedere e altre cose dette d’amore”, invece, il verso si fa più limpido, la sintassi chiara.
AA: In questo caso ho guardato più al verso pulito di Sandro Penna, alle sue quartine di settenari o endecasillabi, nella convinzione che, se si vuole mostrare il conflitto, esso deflagra meglio in versi chiari, in virtù della contrapposizione che si viene a creare. In questa logica, permangono, nel libro, molti brani in prosa o versi liberi. Mi piaceva questa idea di accostare ad una quartina di settenari, ad esempio, una composizione totalmente libera. In questi passi il riferimento va ai paesaggi lunari di Leopardi, resi però più cupi.
Il sole di settembre indora i canti
degli operai. È già lontano il tempo
quando vinti al gran sole i nudi corpi
turbavano il mio cuore. Adesso brilla
deserto il fiume. Ritornato è l’uomo
in piedi. Io rido a più sereno amore.
(Sandro Penna)
CD: “Amore” è una parola largamente utilizzata e, in certi casi, abusata: come si riesce a renderla significante? Cosa è “amore” per te e dunque nella tua poesia?
AA: Il rischio della banalizzazione è in agguato in ogni ambito, soprattutto se si vogliono adeguare il contenuto e il linguaggio ad un presunto lettore standard, che è spesso la prassi odierna. Se l’opera viene confezionata su misura bisognerebbe parlare di intrattenimento più che di attività creativa. Il lettore deve avere un ruolo attivo di costruzione del significato; senza questo l’opera non può esistere, né produrre senso. Non voglio assolutamente dire che per me esista solo la “cultura alta”, anzi mi piace moltissimo indagare i più disparati linguaggi, ma non ci deve essere l’adattamento dell’opera al pubblico, la quale deve rispondere esclusivamente a sue logiche interne ed essere coerente con se stessa. Alla luce di questa premessa, quindi, l’amore e le relazioni non possono essere qualcosa di scontato o banale, ma sono qualcosa di strutturale, che non finisce mai di generare significati. In verità, l’affettività raccontata in questo libro è quanto mai controversa. In definitiva è qualcosa di impossibile. Non sarei assolutamente il primo ad affermare che la società contemporanea ha di fatto distrutto l’amore, per lo meno quello non filiale.
CD: Dicci di questo “Cedere…”: la tua raccolta è divisa in capitoli, qual è stato il processo che ti ha portato a farlo?
AA: Sì, in realtà i temi di “Cedere…” sono diversi. Non c’è solo l’amore e lo sguardo nell’interiorità. Si guarda anche all’esterno. La poesia è un potente mezzo di analisi e di indagine del reale. Essa individua dei meccanismi e li riesce a raccontare con una forza di sintesi che soltanto lei ha. Svela verità in relazione al suo linguaggio. In “Cedere…”, in particolare, le poesie è come fossero delle istantanee, delle fotografie in cui non viene narrato qualcosa. Il tentativo di narrazione è lasciato invece alla successione delle poesie e dei capitoli. Una narrazione che non è conclusiva e può essere, per forza di cose, soltanto franta. I capitoli sono sette, ognuno con un suo tema e andamento: Il Piacere, Amorose, Visioni, Pianeta Coma, Elementari, Pezzi, Ritorno.
CD: Le fotografie di Eugenio Tonoli raccontano una segretezza sgranata, immagini di luoghi quotidiani e al contempo invisibili alla fretta comune. Come è nata la collaborazione? Cosa ti ha spinto a inserire certe immagini tra le tue poesie?
AA: Eugenio è un giovane fotografo di Verona. L’ho contattato a libro quasi concluso, dopo aver visto su Instagram la foto dell’ombra – anch’essa franta – dei fiori sul muro, che nel libro apre il primo capitolo. Mi ha affascinato quella sua sintassi chiara e quel suo punto di vista un po’ discosto. Vi ho visto qualcosa in comune con la mia scrittura: entrambi usiamo linguaggi personali che, a partire da qualcosa di intimo, puntano a parlare di un pezzetto di mondo. La lettura, sia dello scritto che delle fotografie è veloce: sta al lettore poi decidere se soffermarsi su immagini e testi o passare velocemente oltre.
CD: I lettori di oggi sembrano spaventati dal testo in versi, forse per questo motivo è nato un filone di poesia “pop”, più immediata e colloquiale, lontana da quell’ermetismo che ha sempre distinto il linguaggio poetico. Cosa ne pensi?
AA: Forse ti riferisci al Poetry Slam: una “gara” fra poeti che, a suon di versi, spettacolarizzano la parola poetica. Come dicevo, a me piace indagare i vari linguaggi, più che censurarli. Osservare che significati assumono nel contesto in cui si diffondono. A rendere “pop” la poesia c’è anche Instagram: lì sono diffusissime immagini con testi “poetici” brevissimi. Certo, spesso, invece di essere critiche nei confronti della realtà, queste forme si nutrono delle retoriche dominanti e in un certo modo le nutrono. In definitiva non si staccano dallo stato di “slogan” o, al limite, di immediato aforisma. Interessante è anche il Mep – Movimento per l’Emancipazione della Poesia, perché va letteralmente ad appiccicare poesie anonime, negli spazi urbani. A fronte di tutto ciò mi pare abbastanza fisiologico che, in contrapposizione, stia riprendendo piede invece una linea che mi piace definire di “Nuovo Ermetismo”, prettamente elitaria, riservata a una ristretta cerchia.
CD: E tu da che parte stai?
AA: In “Cedere” io non seguo né l’una né l’altra linea. Cerco invece di lavorare sul verso, cosa che la poesia pop non fa, e allo stesso tempo fuggo dall’analogia e dalla parola “esoterica”, che invece è abbastanza cara ai “Nuovi Ermetici”. Cerco il conflitto nella chiarezza.