Pietro Scuri è nato a Bergamo nel 1926, ha vissuto in Città Alta con la moglie e i quattro figli, dove ha lavorato come fabbro nell’antica bottega in Piazza Mercato del Fieno, continuando la tradizione di famiglia iniziata dal nonno alla fine del 1800. Ha scritto poesie in dialetto, con le quali ha partecipato a concorsi e pubblicato i suoi versi su periodici, numeri unici, ma anche su foglietti “volanti” che regalava, o lasciava tra le pagine dei libri. Nel 2002, anno successivo alla sua morte, gli è stata conferita alla memoria, l’onorificenza di cavaliere al Merito della Repubblica Italiana.
Pietro Scuri, forse non consapevolmente, ha lasciato un patrimonio all’intera città di Bergamo: la sua poesia. Versi che raccontano di ciò che non esiste più, risvegliando in chi li legge quella che viene definita «sindrome dell’età d’oro», la nostalgia atavica che si prova per epoche mai vissute.
Se siete persone adulte cresciute a Bergamo, avrete certamente impresso nella memoria il ricordo di una Città Alta diversa da ciò che è oggi. Non nella sua architettura, ma nell’anima di un piccolo borgo che ha subìto un cambiamento radicale negli ultimi decenni. Scoperto da un meritato turismo, il quartiere – storicamente popolare – si è trasformato in una scintillante attrazione per visitatori da “toccata e fuga”, turisti affascinati e un susseguirsi di vetrine strabordanti di cibo, cosmetici e abbigliamento.
Un luogo molto diverso dagli anni in cui, gli ospiti della domenica, provenivano dalla provincia per una passeggiata al sole, un pezzo di pane di quel forno che dava profumo alle strette vie, o un piatto di polenta al ristorante più umile. Fino all’inizio degli anni ottanta, Città Alta, era vista dai bergamaschi come un luogo per lunghe passeggiate e dai suoi abitanti come un piccolo borgo con le stesse dinamiche di qualsiasi altro, nonostante la straordinarietà della cornice.
Sö la lüna a m’sé zà stacc,
gh’è gna bèi, gna bù, gna macc.
Gh’è negót amò öna ólta,
de piö bèl de Sità Ólta.
(da «Cansù a Sità Ólta» di Piero Frér)
Nonostante la sua scorza dura, Bergamo è una città ricca di poesia e di poeti e da tempo mi dedico a “frugare” tra i versi di chi la abita. Qualche mese fa, un amico ha condiviso con me alcune poesie in dialetto, incuriosita dall’unicità di quelle rime, mi sono prodigata alla ricerca del libro, fino a scoprire che si tratta di una raccolta non in vendita. La decisione di inserire la storia di Pietro Scuri, detto Piero Frér, nella rubrica #(di)versi, nonostante l’irreperibilità del suo libro, è dovuta alla necessaria condivisione del bello.
Piero aveva iniziato un lavoro di raccolta dei suoi versi poco prima della morte: «ü libretì per fa contét la famèa e l’ótra zét», diceva, con una modestia che traspare anche nelle sue opere. Fu la famiglia a concludere l’edizione e a farne una pubblicazione privata per amici e conoscenti. Si tratta di rime semplici, non sempre soggette alle regole della poesia, tipiche della parlata bergamasca «velata di quella bonaria ironia così adatta a descrivere la sua terra, i personaggi, le macchiette», scrivono moglie e figli nella prefazione.
I luoghi
Ògne tat, o mé montagne,
a ve arde a’ se só ‘n cà,
e di ólte gh’ó ‘l bisògn
de düsì ègn sö a troàv,
spéce quando, dét de me,
gh’ó ‘l magù e ‘ndó mia bé.
(da «Montagne», di Piero Frér)
Pietro Scuri era per tutti, amici e conoscenti, Piero “Frér”: il fabbro di Piazza Mercato del Fieno. Il suo mestiere lo svolgeva in bottega, tra gli arnesi, con la conoscenza tramandata dai suoi antenati. Il soprannome è l’emblema della semplicità del passato, in cui si era ciò che si faceva. Ma Piero non batteva solo il ferro: scriveva poesie nella lingua “di tutti”, versi di una naturalezza capace di raccontare con cura e senza ermetismi ogni spazio e dare luce ai luoghi quotidiani.
Alla sua bottega ha dedicato una poesia che canta il rumore del ferro battuto: un richiamo per i passanti. La chiesa di Sant’Erasmo in Borgo Canale viene descritta come «picinina» (piccola), ma bella, protetta dalla statua del Santo Pellegrino poco distante. I versi dedicati alla fontana nella piazzetta San Pancrazio raccontano di Agostino Arnoldi, detto «Güsto», che negli anni trenta lì vendeva anguria a fette con il suo carrettino. Piero ha scritto del suo stupore, capace di scatenarsi di fronte a una pianta di cachi, per le montagne rassicuranti, o per la sua Città Alta, ma anche per Bergamo tutta; con un amore sempre denso di gratitudine verso tanta bellezza.
Il tempo
L’vé smórt, col tép, ol ciar de la mé tórsa,
co i agn, a póch a póch, pèrde la fórsa;
(da «Nedàl» di Piero Frér)
«Piero Frér amava recitare le sue poesie e lo faceva volentieri nelle varie occasioni in cui era chiamato a farlo, o più semplicemente nelle serate trascorse tra amici e parenti», raccontano i figli. Proseguendo: «Era solito alternare versi impegnativi ad altri più giocosi, così liriche ricche di metafore sulla vita succedono a versi allegri e ironici, l’intimità di una preghiera lascia il posto ad un canto divertito e scanzonato».
Nel contesto di Piero, a scandire il susseguirsi dei giorni, c’erano due cose: i rintocchi del campanone e i giorni festivi. Le ore tra la fine della giornata lavorativa e la cena erano quelle dedicate allo svago, alla convivialità, ad un bicchiere di vino, come emerge nei versi ironici dedicati all’amico Piero Cuminetti, che per ogni bicchiere offerto ricambiava intonando «Una furtiva lagrima» di Donizetti. I giorni di festa erano quelli in cui si indossava il vestito buono e per Piero un’occasione in più per scrivere, così restano i versi per la fine dell’anno e Natale. Ma anche per il compleanno di un amico, il pittore Bepo Milesi, descritto con affetto come un anziano spilungone temprato da un’infanzia difficile.
Le canzoni e i burattini
Gh’era lé töte löstrade
di barache de rispet
e pò bestie ai féi tacade
i è laùr de cór a vèd;
verticài, trombète, arnés
e i vestìcc ornàcc de péss;
(da «Palàss de rè, crepe de lègn e barache de sto mónd» di Piero Frér)
Non si può parlare di Bergamo tralasciando burattini e commedia dell’arte, una tradizione popolare propria della città. Giupì, Margì e Brighella sono personaggi che tutti conosciamo e abbiamo incontrato in qualche piazza almeno una volta. E il poeta di Città Alta era un amante delle baracche, quei teatrini in ferro e legno che nascondono l’artista, lasciando spazio ai sogni di grandi e bambini. Lo racconta nella poesia dedicata a Giupì, personaggio finto tonto e goffo, ma dotato di grande ingegno; nell’altra, dedicata a una mostra vista a Palazzo Reale negli anni
Seduta nel suo studio, la figlia di Piero, mi parla di una domenica pomeriggio in cui il padre decise di organizzare uno spettacolo di burattini per tutti gli abitanti del luogo: montò e lustrò la baracca e aprì le porte a famiglie e amici, regalando a tutti un pomeriggio di svago inaspettato, grazie all’amico burattinaio Vittorio Moioli, in arte «Bachetì».
Non esiste folclore, senza memoria. E se la criticità propria della poesia è quella di risultare talvolta inaccessibile, i versi di Piero Frér sono un’eccezione alla regola, così capaci di scaldare il cuore del lettore rimettendolo in una posizione rassicurante.