Quando nel 1994 uscì «Pulp Fiction», fu evidente che nel giro di un paio di anni (a partire dal successo clamoroso de «Le Iene» nel ’92) quel trentenne un po’ svitato e dalla parlantina nevrotica che risponde al nome di Quentin Tarantino era stato in grado di aprire uno squarcio su un nuovo modo di fare film di genere e di intendere la scrittura cinematografica. Di quale portata lo si sarebbe appreso meglio nel corso del tempo. Di certo, furono ridefiniti i parametri “necessari” a confezionare un film di successo internazionale, secondo le formule magiche degli studios hollywoodiani. Il resto è una storia che conosciamo bene: parla di un immaginario scolpito nel marmo che prima diventa cult e poi quasi un genere a sé.
I maligni potrebbero dire che Tarantino non si è inventato nulla, in fin dei conti. E avrebbero ragione, in parte. Non è certo il primo a sbancare il botteghino con un film indipendente e a basso budget che poi diventa oggetto di culto: «Non aprite quella porta» di Tobe Hooper del 1974 o «Halloween» di John Carpenter del 1978 – per citarne due del decennio cui è dedicato gran parte di «Cinema Speculation». D’altra parte, il cinema di Tarantino è noto per essere un “tritacarne” postmoderno di rimandi, citazioni e temi presi dal cinema di genere degli anni Settanta: revenge movies, exploitation e blaxploitation (Pam Grier, che interpreta Jackie Brown, è stata un’icona del genere). Non avremmo film tarantiniani senza i film di Sam Peckinpah e John Flynn, non a caso due a cui l’autore dedica ampio spazio.
«La struttura della maggior parte dei revengeamatics [i revenge movies, ndr] è che il pubblico freme di rabbia quando il protagonista lo piglia in culo nella prima metà del film, e poi gode come una bestia quando, nel finale, l’eroe fa a pezzetti tutti i cattivi che lo hanno vessato». Francesismi a parte – che comunque danno un’idea del registro con cui Tarantino conduce le sue divagazioni: una conoscenza enciclopedica che si esprime “dal marciapiede”, un po’ come uno dei suoi personaggi – riconosciamo questa struttura in «Kill Bill» e «Django Unchained» per esempio. Ma il tema della vendetta è evidente anche altrove: Maynard e Zed in «Pulp fiction» ne sanno qualcosa, così come Stuntman Mike in «Grindhouse – A prova di morte» o i nazisti in «Bastardi senza gloria».
E allora ecco che le lunghe dissertazioni sui film di vendetta come «Organizzazione Crimini» e «Rolling Thunder», a cui sono dedicati due capitoli, non parlano solo delle ossessioni di un cinefilo cronico, ma di un percorso di formazione artistica che agli occhi del grande pubblico recupera e nobilita film considerati di serie B. «Cinema Speculation» è in realtà un romanzo di formazione che si nasconde (ma nemmeno troppo) dietro il saggio cinematografico. Del resto, “il piccolo Q” è abituato a frequentare i cinema con gli adulti (la madre e le sue frequentazioni) fin dai sette anni: «Per il fatto che avevo il permesso di vedere cose che agli altri ragazzini erano negate, ai miei compagni sembravo molto sofisticato. E dato che vedevo i film più provocatori del periodo più entusiasmante della storia di Hollywood, avevano ragione: lo ero».
Il cinema di quel periodo è un autentico pozzo di monete d’oro a cui Tarantino attinge a piene mani, ce lo dice senza nascondersi. Ne ha preso temi e stilemi, talvolta anche interpreti, e li ha portati in una nuova dimensione, che sì, è qualcosa di nuovo: come se l’autore ci dicesse «ecco cosa ha costruito il mio immaginario, i film che ho divorato e che ancora non riesco a togliermi dalla testa, ecco da dove arriva la mia estetica». Quando si dice: saper coniugare tradizione e innovazione. Qualcosa che, del resto, avevano già fatto i cosiddetti «Movie Brats» della New Hollywood, cui Tarantino deve molto e dedica ampio spazio.
«La prima generazione di giovani registi, maschi e bianchi, cresciuti vedendo la televisione e freschi di studi di cinema, che riuscirono ad affermarsi e a dare un’impronta al decennio con i loro film stilosi ma non elitari»: si tratta di Martin Scorsese , Brian De Palma, Paul Schrader, Francis Ford Coppola, Peter Bogdanovich, George Lucas, Steven Spielberg. Questi avevano rivoluzionato l’industria rielaborandone la tradizione in chiave cinefila, ossessionati dai registi della vecchia Hollywood. Scorsese e Schrader rielaborano «Sentieri Selvaggi» di John Ford in «Taxi Driver» e «Hardcore», De Palma rielabora «Psycho» e «La donna che visse due volte» di Hitchcock in «Le due sorelle» e «Obsession – Complesso di colpa». E allora si torna a Tarantino che, da parte sua, rielabora i “derelitti” della cinematografia hollywoodiana exploitation.
Dal libro, però, emerge qualcosa di più delle ossessioni e della cronaca formativa di un nerd che è diventato uno dei registi contemporanei più popolari e apprezzati. Oltre al costante raffronto tra i romanzi dai quali sono tratti i film di cui parla e i rispettivi adattamenti, oltre all’attenzione che Tarantino dedica a quanto sia determinante azzeccare la sovrapposizione tra personaggio sul copione e interprete sullo schermo, ciò che è ancora più interessante è come i film diventino strumenti capaci di raccontare lo spirito del tempo, degli autentici figli di un’epoca, stetoscopi con cui registrare la dinamica del respiro (o del rantolo) di una società.
A proposito dei motivi per cui ritiene irripetibile l’impatto che ebbe il primo «Rocky» con quel suo finale pieno di ottimismo, Tarantino scrive che «bisognerebbe essere passati per tutti i film cupi, impietosi, pessimisti e disperati dei primi anni Settanta per essere stesi dalla catarsi ottimistica di “Rocky” (...) Dal 1970 ad almeno il 1977, sembrava che ogni film che usciva fosse su “qualcuno pieno di problemi”. Parte della reazione liberatoria al match al termine di Rocky era dovuta al fatto che, dopo cinque anni di film degli anni Settanta, ormai ci aspettavamo il peggio. Mai e poi mai Rocky avrebbe vinto il titolo di campione del mondo o qualunque altra cosa. Sarebbe già stato tanto se non avesse fatto la figura del coglione. È per questo che quel finale fu sorprendentemente commovente e catartico. Ecco perché quando Rocky stendeva Apollo Creed noi spettatori impazzivamo».
Ed è proprio questa componente testimoniale a rendere unica la “speculazione”: è prezioso il racconto delle esperienze in sala, delle reazioni in base al tipo di pubblico, e l’occhio di riguardo alla fenomenologia delle grindhouse, le gloriose sale dei film di serie B che negli anni Settanta tempestavano Los Angeles. Sono testimonianze preziose perché raccontano un mondo che non esiste più, e che in qualche modo merita di essere inserito in un processo di storicizzazione, seppur in questo caso poco storico e molto “speculativo”. È lì dentro che Tarantino ha imparato a menadito cosa vuole il pubblico: cosa ti fa saltare sulla poltrona e cosa invece ti ci fa sprofondare dentro, cosa ti esalta e cosa ti indigna.
C’è poi la sua posizione di privilegio: è chiaro che si senta abbastanza autorevole per non mettere un filtro ai giudizi (a ragione, gliene diamo atto); e che alla bisogna possa permettersi di interpellare i colleghi: Walter Hill è una preziosa e diffusa fonte orale a cui ricorre, Paul Schrader lo si contatta via mail per togliersi qualche dubbio. Insomma, il libro conta più di quattrocento pagine ma per tutti questi motivi si fa bere che è una meraviglia. Ne uscirete storditi ma divertiti, e un po’ più consapevoli su una parte della storia del cinema. Ma soprattutto: con una gran voglia di guardarvi i film.