In un Paese sempre più orfano di maestri la scomparsa di Andrea Camilleri arriva forse nel momento meno opportuno. La malattia che da alcune settimane lo aveva costretto all’ospedale Santo Spirito di Roma, complice l’età, se l’è portato via questa mattina alle 8.20. Oltre che (grande) scrittore, sceneggiatore, regista, drammaturgo e insegnante, Camilleri – che amava profondamente Bergamo, come raccontò in un’intervista a Corrado Benigni nel 2016 su L’Eco di Bergamo – era diventato negli ultimi anni una sorta di colonna morale all’interno della crisi sociale italiana.
Tante le sue esternazioni sui misfatti degli ultimi trent’anni di vita politica, da Berlusconi a Salvini passando per la crisi della sinistra. E pure le storie di Salvo Montalbano, magnifica invenzione letteraria nonché grande successo sia sulla pagina che in tv, sono ancora oggi una sorta di cartina al tornasole dello stato di salute dello Stivale – memorabile e confortante in questo senso “Il giro di boa”, dove Montalbano soffre il clima e i fatti accaduti a Genova nel 2001.
Tuttavia, se nelle prossime ore Camilleri verrà ricordato soprattutto come il “padre di Montalbano” e il gustosissimo inventore del “vigatese” (quel misto di siciliano inventato e italiano caracollante di tanti suoi libri), non è solo per questi due aspetti, seppur fondamentali, che dovrebbe essere celebrato. Come altri maestri prima di lui, Camilleri ha infatti scritto libri che sono andati a sondare lo spirito siciliano – e italiano, per chi crede che l’Isola sia lo specchio della specificità italica – con incredibile profondità. Fra questi “La concessione del telefono”, opera pubblicata nel 1998 che probabilmente non ha raccolto quanto meritava, complice forse il clamore suscitato dagli episodi di Montalbano.
La storia – ambientata a fine Ottocento in un’Italia unita da pochi anni – è quella del commerciante di legnami Filippo Genuardi e della sua “battaglia” per ottenere l’allacciamento di una linea telefonica fra il proprio magazzino e la casa del suocero. Ufficialmente per esigenze lavorative, in realtà per mantenere i contatti con la moglie di costui, con la quale da tempo Genuardi ha una tresca amorosa.
L’erronea spedizione di tre lettere al prefetto Vittorio Marascianno avvia una serie di equivoci, accuse campate in aria (come quella di appartenere ad una cellula eversiva socialista), inettitudini e incapacità di un sistema burocratico che scarica i suoi uomini peggiori in Sicilia. Fra questi, ad esempio, lo stesso Marascianno, paranoico ossessionato dalla paura di essere dileggiato alle spalle, capace di esprimersi quasi solo con i numeri della smorfia e in ricerca costante di complotti socialisti. Non sono da meno neppure i carabinieri Lanza-Turò e Lanza-Scocca, accusatori del Genuardi e incapaci di ammettere le loro colpe, infine spediti dall’inettitudine dei superiori in Sardegna.
Non riuscendo ad avere la tanto desiderata linea telefonica, Genuardi cerca degli “aiutini” e si rivolge a don Lollò Longhitano, capomafia di Vigata. A lui vende l’ex amico Sasà La Ferlita, che verso Longhitano ha dei debiti di gioco. La vicenda continua fra intrallazzi, carcerazioni e sotterfugi, che mettono Genuardi nei guai (presunto socialista e connivente con La Ferlita). E raccontano, non senza un certo pessimismo, la pochezza etica di un ecosistema conformista e sempre pronto allo sputtanamento e a cacciare nei guai il prossimo, fino all’epilogo finale tutt’altro che positivo.
Camilleri con “La concessione del telefono” tratteggia il carattere di un certo tipo di sicilianità, sempre un po’ arraffona e pronto ad ogni tipo di espediente. Rimandando così alla postura morale italiana, macchiavellica e incline all’escamotage, anche criminale, quando serve (e purtroppo a volte pure quando non serve).
Gli sforzi e le furberie per avere un telefono attuate da Genuardi costruiscono una storia che sembra scritta a quattro mani da Kafka e Plauto. Laddove il potere insondabile dell’autore praghese (a tratti viene in mente “Il castello”) diventa macchietta, fanfaronata e dilettantismo.
Camilleri non ce l’ha coi burocrati in sé e con l’uomo medio, ma con la degenerazione della burocrazia quando diventa raggiro della legge e del buon senso, in barba alla legalità (quante intercettazioni a base di un italiano sbrindellato ricordano il linguaggio de “La concessione”?). Un atteggiamento creatore di vittime, come il Genuardi, il quale però è anche connivente alla mafia e dunque colpevole. Homo homini lupus verrebbe da dire, ma homini in quanto ominicchi che badano al loro giardinetto e alla meschinità di ricevere il permesso per un telefono utile solo a chiamare l’amante.
Di tutto questo, in ogni caso, ne “La concessione” si ride, e anche parecchio. Perché è un libro prima di tutto divertente. Per le situazioni create e soprattutto per la lingua. Che è quel “vigatese” di cui Camilleri è unico inventore. Ma non pensate al “vigatese” di Montalbano, che ha una sua dignità e un suo rigore, o a quello di Tatarella, comico sì ma genuino. Il “vigatese” della concessione è ambiguo, facile ai doppi sensi, volutamente volgarotto quando Camilleri descrive la pochezza di un dialogo durante un incontro sessuale. Una linguaccia che si mischia con un italiano situato un passo indietro ai latinorum dell’Azzeccagarbugli manzoniano – e Manzoni riecheggia anche negli uomini di don Lollò che cercano La Ferlita. È l’italiano delle verità non dette o inventate, che però qui sono miserabili come la grettezza di chi le diffonde. Quelle “cose scritte” (le lettere) e “cose dette” (i dialoghi dal taglio teatrale) che si alternano durante la narrazione e la rendono frammentaria e contraddistinta da spazi di non-detto.
Chissà se un giorno, passata la giusta celebrazione di un grande scrittore, ci ricorderemo de “La concessione del telefono” come una comica operetta morale di Camilleri. Certamente, da oggi questo Tiresia cieco ci mancherà. Lui che negli ultimi anni bordeggiava splendidamente fra le proprie verità umane, prossimo alla morte, e la degenerazione cinica di troppi ministri delle Interiora, ci mancherà, come direbbero i suoi vigatesi, tanticchia. Anzi, molto di più.