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«Caccia al testimone», in una Bergamo un po’ gotica e pulp il nuovo giallo di Fabio Paravisi

Articolo. Il nuovo romanzo, pubblicato dal giornalista bergamasco con Bolis, si concentra sul processo a carico di Vincenzo Verzeni di Bottanuco, finito sotto l’attenzione mediatica di tutta Italia per un omicidio commesso nel 1873. Tra colpi di scena e umorismo, ecco la nuova sfida per Fendo e Nino.

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Vincenzo Verzeni

Anche Cesare Lombroso, psichiatra, antropologo e padre della criminologia moderna, si interessò del caso di Vincenzo Verzeni , condannato, nel 1873, per l’omicidio efferato di due donne e l’aggressione di altre sei. Soprannominato «il vampiro della bergamasca», Vincenzo Verzeni fu colui che, prima ancora di Simone Pianetti, suscitò la morbosa curiosità della stampa del tempo, ma anche l’orrore nell’opinione pubblica orobica di ormai inizio Novecento. È proprio attorno al processo allo «strangolatore» Verzeni (ma anche a quello che vede antagoniste la famiglia degli Albani e quella dei Brembati) che ruota il nuovo romanzo di Fabio Paravisi, «Caccia al testimone» (Bolis Edizioni, 2024), settimo capitolo della serie (se così si può chiamare) che ha, come protagonisti, la guardia Defendente «Fendo» Pagnoncelli e il carabiniere Saturnino Fainella, detto «Nino».

Due protagonisti agli antipodi

Lo scenario? Una Bergamo in chiaroscuro, un po’ gotica, un po’ pulp. «La trama, tutto sommato, è molto semplice – racconta il giornalista Fabio Paravisi, che, dal 2012, lavora presso la redazione bergamasca del Corriere della Sera – Nel tribunale di Bergamo, si sta celebrando il processo a Vincenzo Verzeni, il “cannibale di Bottanuco”, primo killer seriale italiano. Tra i periti, c’è anche Cesare Lombroso che, per l’occasione, mette alla prova le sue teorie sull’“uomo delinquente”. In un’aula vicina, si sta svolgendo un altro processo per omicidio, che rievoca un’antica faida fra due importanti famiglie di Bergamo e il cui testimone chiave è scomparso: impegnati a cercarlo ci sono loschi figuri che vorrebbero impedirgli di parlare ma, naturalmente, anche gli integerrimi Fainella e Pagnoncelli».

Fendo e Nino: personalità fra di loro agli antipodi ma, sostanzialmente, complementari. «Fainella e Pagnoncelli sono due personaggi nati quasi per caso – spiega Paravisi che, con Bolis, ha pubblicato anche «Le impronte del male» (2018), «L’ombra del muto» (2021) e «Scena del crimine» (2023) – Non pensavo che, grazie alla loro genesi, potessero venire alla luce ben sette romanzi. Questi due appartenenti alle forze dell’ordine ricalcano il classico stereotipo degli opposti, rapporti speculari che continuamente si inseguono: il settentrionale, alto e magro, è alquanto scontroso e introverso e proviene da una famiglia di contadini della bassa bergamasca; è tormentato da dubbi e da un profondo senso di colpa (frutto di una rigida educazione cattolica) e ossessionato da una greve etica del lavoro tipicamente orobica, che classificherei, in realtà, come inconsapevolmente protestante e calvinista. Il meridionale, basso e rotondetto, è invece piuttosto affabile ed estroverso e la sua estrazione è piccolo borghese (i suoi genitori, dal Molise, si sono trasferiti a Roma dove, a Trastevere, hanno aperto una macelleria); è più solare e sicuro del suo collega (e decisamente più acculturato), nonché impegnato a osservare, dal di fuori, quelle strane “bestie” quali siamo noi bergamaschi».

Linguaggio dell’umorismo e umorismo del linguaggio

Stanlio e Ollio, Jake ed Elwood Blues, Bud Spencer e Terence Hill e, non certo ultimi, Asterix e Obelix: le citazioni, fra le pagine dei libri di Paravisi (raffinato cinefilo), si sprecano, contribuendo a rendere la trama (infarcita di colpi di scena e analessi) estremamente cinematografica e quasi metanarrativa. «Scrivo per divertirmi e per far divertire – afferma il giornalista – Per questo le mie trame sono pregne di leggerezza e umorismo. Un umorismo spiazzante, dagli esiti comici, capace, spesso, di virare verso salace ironia (grazie alla quale faccio l’occhiolino al lettore). C’è molto di Goscinny e Uderzo nei miei dialoghi. Per me, la cosa più bella e interessante, fra l’altro, è trovare l’umorismo nel dramma: quel che, del resto, ha sempre fatto la commedia all’italiana. Ciò che mi dà più fastidio, invece, è quando, raccontando una scena umoristica, si cerca di fare a tutti i costi i brillanti e gli spiritosi: se l’umorismo c’è, l’effetto viene di conseguenza. Buster Keaton insegna. Per quanto riguarda la letteratura (di genere giallo e non), mi rendo ben conto che ci sia un intero universo che mi precede (e che, proprio nelle mie opere, amo pure prendere un po’ in giro), ma, se devo per forza dire a chi mi ispiro, mi piace citare Georges Simenon, Raymond Chandler, Carlo Goldoni, Neil Simon e Pelham Grenville Wodehouse; per il cinema, direi Federico Fellini, Luigi Comencini, i fratelli Cohen e Aaron Sorkin».

Ma l’umorismo, improntato quasi interamente sull’equivoco, è determinato anche e soprattutto da un linguaggio vivido, plurimo e gagliardo che, fedele ai contesti e alle situazioni, definisce i caratteri dei parlanti e dà vita a uno spassosissimo pastiche. È lui il vero protagonista del romanzo. «Giocare con i registri linguistici e i livelli narrativi è davvero piacevole – dice Paravisi – Del resto, l’italiano di Pagnoncelli è diverso da quello di Fainella. Entrambi, però prendono in prestito costrutti, calchi e parole del loro dialetto d’origine. Il pot-pourri linguistico, tuttavia, non è solo causato dalla geografia, ma anche dal ceto, dalla classe e dal ruolo sociale: l’italiano del giudice non è l’italiano dell’allevatore e l’italiano dell’allevatore non è quello degli impiegati, dei poliziotti o dei giornalisti».

Sfumature, queste, che rispondono al vero, testimoniate da un grande lavoro di documentazione. «Mi sono documentato principalmente attraverso i giornali locali dell’epoca – racconta lo scrittore – la Gazzetta di Bergamo e La provincia di Bergamo. L’italiano di fine Ottocento si discosta molto rispetto a quello attuale: più ingessato e formale; ciò appare lampante negli scambi verbali fra il presidente del tribunale e i testimoni. Anche l’approccio alla notizia è differente: i particolari più scabrosi vengono riportati nel dettaglio. All’interno del romanzo, alterno pura invenzione a fatti storicamente verificatisi: la cinquecentesca faida Albani-Brembati è vera, come accaduti realmente sono il crollo della miniera di Cazzano e i nomi delle vittime, l’inimicizia fra i Moroni e i Marenzi (con annessa storia del palazzo costruito e poi demolito) e l’accorciamento della torre del Gombito. Vera, inoltre, la storia di Vincenzo Verzeni (anche se ho condensato in due sedute un processo che durò tre settimane) e la presenza di Cesare Lombroso come perito».

Giallo sì, ma noir

I tratti caratteriali dei personaggi di «Caccia al testimone» sono accurati, a tuttotondo: i «buoni» rimangono «buoni» e i «cattivi» non operano il bene, eppure entrambi sono divorati da rimorsi, fragilità, inadeguatezze e piccole crisi esistenziali. Gli antagonisti sono tali non per il gusto di esserlo ma, sovente, per il contesto in cui sono nati e cresciuti, per le contingenze di una vita spesso faticosa, ingiusta, miserabile. Insomma, il mondo, per Paravisi, non è qualcosa di armonioso e ordinato che, a un certo punto, viene guastato da un delitto: il mondo è caos, un labirinto in cui, fra mille ostacoli, agiscono le «guardie» e i «ladri». È proprio il taglio psicologico e sociologico a far sì che la narrazione di quest’ultimo romanzo (come, del resto, quella dei libri precedenti) appartenga non tanto al filone del poliziesco bensì a quello del noir.

«Il fatto stesso che io scelga come protagonisti persone che, all’interno dei rispettivi luoghi di lavoro, rappresentino la base della catena alimentare, fa capire quanto il mio punto di vista parti dal basso – spiega Paravisi – Adotto questa prospettiva perché desidero donare una possibilità a chi, per ragioni economiche o personali, non ha avuto, dalla vita, fortuna né possibilità. Automaticamente, derido le gerarchie: nei miei libri, salvo poche eccezioni, chiunque occupa posizioni di potere è raffigurato come un imbecille. I “cattivi”, nelle mie opere, non uccidono per dare la scusa all’ispettore di turno di ricoprirsi di gloria; uccidono per le ragioni per cui la gente uccide: denaro, passione, avidità, risentimento, vendetta. Nei riguardi dell’essere umano, mantengo comunque uno sguardo distaccato e disincantato, amaro, sostanzialmente di sfiducia. Una sfiducia che, in “Caccia al testimone”, è la stessa di alcuni personaggi e che emerge, in primis, nei confronti della giustizia».

E Bergamo? «È la coprotagonista del romanzo – dice Paravisi – una città che non esiste più e che mi piace raccontare, poiché è dalla Bergamo del passato che proviene quella attuale. Una città che molti vivono senza, in realtà, conoscere veramente».

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