Tra le pagine di «Alma» si sente la Bora che spazza Trieste fuori dalle vetrine dei suoi caffè lungo i viali. In lontananza lo sciabordio delle onde che portano al largo e che si infrangono a riva lasciano affiorare un padre che scompare e ricompare da un altrove di cui poco si poteva dire. Si incontra una donna che da quella città dove è cresciuta si era allontanata, a cui ritorna e da cui riparte per muoversi ancora, tuffandosi nel passato e andando a Est, lasciandosi l’Italia alle spalle, per seguire una guerra vicina come quella dei Balcani.
Il libro di Federica Manzon è un romanzo inquieto e riflessivo insieme, dove si respira quella stessa aria «natia» e «tormentosa» di cui scrive il poeta Umberto Saba parlando della sua Trieste, città di cui anche l’autrice è figlia adottiva. Una città che è frontiera passata e presente per la protagonista di «Alma», romanzo vincitore del prestigioso «Premio Campiello 2024».
Ed è proprio a chi si trova alla frontiera che Manzon ha dedicato la sua vittoria: «a tutte quelle persone che stanno attraversando i confini, soprattutto il confine orientale di Trieste, e che lo fanno immaginando e sognando un presente, prima ancora che un futuro migliore. E in un momento in cui a Trieste, prima ancora che in altre parti d’Europa, il trattato di Schengen è stato sospeso ed è ancora sospeso, vorrei che in qualche modo potesse questa piccola mia cosa essere di buon auspicio per andare invece in un’altra direzione e non tornare indietro».
Sarà proprio l’autrice friulana questa sera, martedì 29 ottobre, alle 18 allo Spazio Hub di Treviglio a presentare il suo «Alma» in dialogo con Matteo Bianchi nell’ambito di «Buon Tempo Festival», una rassegna a ingresso libero dedicata alla letteratura italiana contemporanea.
SV: Trieste nel libro è una presenza tanto importante che sembra quasi un personaggio, con un carattere aspro come il vento che la sferza e la sua geografia che la rende sfuggevole a una definizione univoca, in bilico sul confine. Cosa raccontano le città di noi? E perché è tanto importante la città in questo libro?
FM: Penso che la geografia influenzi il nostro modo di essere, il carattere e i rapporti con gli altri profondamente. La geografia è un elemento più stabile della storia, che è un accidente che varia. Trieste per me è stato un caso fortunato, perché attraverso «Alma» volevo raccontare chi siamo noi, dove è la nostra casa e come definiamo noi stessi, anche in relazione a come ci vogliono fare pensare ultimamente, in un modo univoco che corrisponde a una sola lingua, una nazione, un’appartenenza del sangue. Le cose invece sono sempre più complicate e hanno a che fare con parti di noi che spesso combattono tra loro, una tensione che si rispecchia in Trieste, che per me è il punto da cui osservare le questioni che mi interessano: memoria, appartenenza, confini.
SV: Nel libro il tema dell’appartenenza ritorna nelle parole e nei movimenti dei personaggi. «Prendi le onde – fa dire al padre sfuggente della protagonista – Vedi, le onde hanno bisogno del mare aperto per formarsi, per diventare frizzanti e schiumose, ma poi tornano sempre a riva. Però quando toccano riva si disfano e allora il mare le riprende indietro e le rilancia al largo». Come ha raccontato questi movimenti nel libro?
FM: Penso sempre sia utile partire dai dettagli e dalle cose piccole: quando ho parlato del rapporto con le proprie radici avevo in mente la mia esperienza personale e quella di altri. Viviamo in un’epoca in cui spesso la gente è costretta a partire e a dover riconoscere come casa un posto lontano, da dove sente nostalgia per ciò che ha lasciato. È stata di nuovo Trieste a farmi da specchio per il libro, perché è il luogo perfetto in cui ritornare, ma è difficile da vivere, ce l’ha scritto Umberto Saba, poeta che questa città l’ha raccontata per tutta la vita e da cui se n’è andato. Quando ci tornava cadeva nell’abisso della depressione, ma solo lì riusciva a scrivere felicemente, in un posto di confine dove si sente il richiamo dell’altrove.
SV: Anche quando scrive del rapporto con il passato, nel libro non ci sono punti fermi, ma un movimento che passa dall’essere «cultori di reliquie» rivolti allo ieri all’«andarsene leggeri a inventare la vita» guardando al futuro, come suggerisce il padre di Alma…
FM: Nei giorni che Alma passa a Trieste per fare i conti con l’eredità di suo padre, con la memoria familiare e con un pezzo di Europa, c’è una forte ambivalenza. Io e Alma stiamo dalla parte del padre: fare della memoria passata un oggetto di culto può essere pericoloso sia per noi singoli, sia per Paesi che hanno passati di odio e di ferite aperte. Guardare troppo al passato può impedirci di vedere un futuro diverso, rende difficile immaginare una direzione nuova, ma se lo lasciamo andare del tutto e non sappiamo nulla della memoria nostra o dei popoli siamo in balia della manipolazione e questa è la contraddizione in cui abita Alma.
SV: La memoria nel suo libro non è solo una questione di parole, ma anche di passato che affiora nelle immagini. Come mai ha scelto di inserire delle foto nel romanzo e che significato hanno?
FM: Uno dei temi del libro è anche un appello alla complessità, a una cautela nel non ridurre facilmente la realtà a una descrizione rispetto a un’altra. La fotografia, documento che dovrebbe essere più vero del vero, vuole aprire una riflessione su questo: persino quel documento può essere frainteso, c’è sempre un occhio che lo guarda e in cui mettiamo noi stessi, non c’è una sola interpretazione. La verità è sempre sfaccettata e complessa.
SV: La storia di Alma è intrecciata con la grande «Storia», quella di un conflitto neanche troppo lontano, quello della ex Jugoslavia. Come ha ricostruito la storia e come ricorda il conflitto lei che all’epoca era bambina?
FM: Quella guerra non l’ho vissuta in prima persona ed è il motivo per cui ci ho impiegato tanto a decidere di parlarne, non volevo raccontarla in modo diretto e, mentre pensavo a tutte le cautele da adottare, mi chiedevo perché quel pezzo di mondo e di tempo continuasse ancora a interessarmi. Non volevo raccontare Belgrado da belgradese o l’assedio di Sarajevo, ma cosa quella guerra avesse significato per chi era nato di qua. Alma vive uno smarrimento e quell’incomprensione quando finisce dentro queste vicende, perché noi come lei siamo altro, eppure ci riguarda.
SV: Pensa che la letteratura abbia un ruolo e se sì quale nel raccontare l’orrore?
FM: Credo che con il tempo e la distanza la letteratura possa fare quella cosa che le notizie e i saggi non possono fare, cioè farci mettere nei panni degli altri, siano essi vittime o carnefici o persone restate intrappolate nei fatti. Siamo molto frettolosi nel dire come dovrebbero stare le cose, chi ha ragione e torto, penso che la letteratura ci dia un tipo di comprensione diversa, non solo intellettuale e razionale, ma anche empatica. Che leggere permetta di vivere molte vite è un vecchio adagio molto vero. Grazie a Dio non abbiamo vissuto una guerra, ma leggerla ci aiuta a sentire quello che significa.
SV: Il libro è uscito nel gennaio 2024 e scritto in anni in cui le guerre ci sono state e ci sono attualmente. Quanto questi conflitti sono entrati nelle pagine?
FM: Abbastanza. Mentre stavo scrivendo il libro è scoppiata la guerra in Ucraina e mi ha impressionato la velocità con cui tracciavamo le linee di confine tra i popoli senza sapere niente fino al giorno prima. Io conosco un po’ i Balcani e mi impressiona vedere come tutta l’area che va dalla Slovenia alla Russia sia stata considerata un tutt’uno. Ho sempre sentito un po’ l’urgenza di sospendere l’opinione per ascoltare attraverso il lavoro di chi è sul campo le storie degli altri, penso alle parole e al lavoro della giornalista Francesca Mannocchi sull’Ucraina. Prima di parlare di guerre che non sono nostre, è importante ascoltare a lungo.
SV: Trieste è anche la città di Franco Basaglia, il medico che ha chiuso i manicomi. Lei nel libro ha dato spazio anche a questo, con il personaggio della mamma di Alma che ci lavora… come mai questa scelta?
FM: Questo è un altro dei confini della città, il confine tra follia e normalità, che si dovrebbe vivere in nodo poroso, senza dire dove stiamo, tutti siamo esposti. Tra la follia e la salute c’è un movimento oscillatorio, che va ben oltre un’idea di follia come stereotipo di un modo di pensare creativo e differente, quella è una verità parziale: la follia è faticosa, come lo è vivere da malati.
SV: Accanto a Federica Manzon scrittrice, c’è Federica Manzon direttrice di una nota casa editrice, Guanda. Oltre ai libri da scrivere, ci sono anche quelli che legge. Come è per lei un libro ben scritto?
FM: Sicuramente un libro che ha una lingua propria e che si interroga a partire da una consapevolezza di una letteratura che c’è stata prima di te e con cui stare in dialogo. Tutti noi raccontiamo sempre le stesse storie, sono la lingua e lo stile a trasformare le cose piccole trasfigurandole in letteratura.
Per informazioni su «Buon Tempo Festival» e sull’incontro di questa sera è possibile consultare il sito internet della rassegna o contattare direttamente gli organizzatori allo 0363317515 o via mail a [email protected].