Ho visitato per la prima volta il Servizio Affidi di Via San Martino della Pigrizia in pieno autunno, con le foglie rosse e gialle che ricoprivano completamente la Val D’Astino. Ricordo di essermi fermata a scattare una foto prima di entrare. Ad aprirmi le porte, Sara Modora, coordinatrice del servizio affidi e accoglienza familiare dell’Ambito di Bergamo. Sua è stata la voce che quel giorno ha dato il via a «Un cuore di casa», un videoracconto in tredici puntate diretto e condotto da Silvia Barbieri, andato in onda su Bergamo TV da dicembre ad aprile (rivedi qua tutte le puntate).
Un piccolo pezzo – ve l’avevamo anticipato in questo articolo – di quello che in realtà è un progetto molto più ricco, ideato da Sara Modora e Silvia Barbieri e sostenuto dall’Ambito Territoriale di Bergamo (un territorio che unisce la Città di Bergamo ai Comuni di Sorisole, Ponteranica, Torre Boldone, Gorle e Orio al Serio) per sensibilizzare la cittadinanza ai valori della solidarietà, dell’accoglienza e della cura.
Nel 2020, l’Ambito ha preso in carico ben 1.636 minori, di cui 1.500 solo nel capoluogo. Questi numeri nel 2022 non sono cambiati, ma continuano a richiedere attenzione e – soprattutto – partecipazione. Perché, come sottolinea il proverbio africano che ha fatto da fil rouge alle tredici puntate della trasmissione: «per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio».
La scrittura “del sé”
La casa è un luogo molto intimo, molto personale. In casa, non si fa entrare una persona di cui non ci si fida. «La trasmissione è servita per entrare nelle case e nelle storie di tutte quelle coppie, famiglie, single, che hanno scelto di accogliere un bambino», racconta Silvia Barbieri. «Le famiglie stesse si sono fatte testimoni dell’esperienza che stanno vivendo o hanno vissuto».
«Dalle puntate abbiamo avuto un riscontro importante» le fa eco Sara Modora. «Al servizio affidi si sono rivolte un po’ di famiglie nuove, che abbiamo avuto modo di conoscere. Qualcuno ha voluto iniziare il viaggio dell’affido». Quella del viaggio è una metafora che ricorre spesso nelle parole della coordinatrice. Così come quella della valigia. «A chi varca la porta del nostro centro per incontrare la nostra equipe chiediamo sempre, come all’inizio di un viaggio, di aprire una valigia e di tirare fuori la propria storia».
Aprire il proprio cuore per raccontare la propria storia non è mai facile. Per questo, alla produzione della trasmissione «Un cuore di casa» si sono affiancati alcuni laboratori di scrittura autobiografica, coordinati da Adriana Lorenzi, che hanno coinvolto sia i genitori affidatari che le operatrici del servizio. La scrittura, per i partecipanti, è stata un’occasione per fare il punto: su cosa significhi aver intrapreso l’avventura dell’affido oppure, nel caso delle operatrici, su quale sia il senso delle tensioni o del lavoro quotidiano.
Raggiungo Lorenzi al telefono per chiederle qual è la cosa più bella che un’esperienza come questa le ha lasciato. «Sicuramente, da una parte c’è la passione delle operatrici: stiamo parlando di lavoro, invece loro ne hanno parlato in termini di “vocazione”. È una cosa che mi ha colpito, e allo stesso tempo consolato: è così che bisognerebbe fare tutti i lavori. Invece, dalla parte delle famiglie, ciò che mi ha stupito è stato il coraggio sia nel raccontare le loro storie nell’ottica che qualcuno altro possa seguire il loro esempio. La voglia di raccontare per coinvolgere altre famiglie».
A partecipare ai laboratori sono stati soprattutto i papà. «Di solito sono di più le mamme – rivela Adriana –che sono meno spaventate dal fatto di dover raccontare su un piano più emotivo, oppure dal dover rispondere a domande come “Da dove vieni? Quali sono i ricordi legati al tuo primo incontro con il bambino? Il fatto di dover esplorare così tanto le emozioni di solito vede le figure femminili più a loro agio. Invece, sorprendentemente non è stato così».
Nel gruppo dei padri (che hanno accolto a tal punto la preziosità del progetto da allargarlo in un paio di casi anche ai figli), c’è anche Paolo Gritti. Papà affidatario di Erica, ha partecipato ad ogni incontro e quando non ha potuto farlo ha svolto “i compiti a casa”. Non sa dire se l’esperienza l’ha cambiato, o ha inciso in modo particolare sul suo rapporto con la figlia, accolta nel 2014.
Di certo, la rifarebbe. «Quando leggo la parola “laboratorio” penso sempre a un laboratorio chimico, artigiano, non certo di scrittura. Devo riconoscere che è stato molto interessante, perché inizialmente si faceva fatica a scrivere due righe, poi pian piano ho preso il coraggio a quattro mani. I miei testi, che ho sempre letto ad Erica e a mia moglie Rosanna saranno anche oggetto della rappresentazione che stiamo allestendo per cercare di sensibilizzare maggiormente famiglie, single, ad aprire la loro casa».
Una festa teatrale
La rappresentazione di cui parla Paolo sarà un «punto di raccolta di quello che è stato seminato», per dirla con le parole della regista, Silvia Barbieri. La seconda fase del progetto «Un cuore di casa» ha visto infatti le operatrici e le famiglie “cucire insieme” le narrazioni, le storie, le esperienze dirette di affido, per poi arrivare a costruire un canovaccio teatrale quanto più possibile vicino alla realtà.
Nelle scorse settimane, le famiglie hanno partecipato a dieci serate dedicate al gioco teatrale, alla relazione (qualcuno ha anche deciso di inserire i propri figli, come Chiara e Carmelo, che hanno portato con loro il piccolo Samuel). A metà settembre (la data o – meglio – le date sono ancora in via di definizione) verrà organizzata una “festa teatrale”.
Non uno spettacolo, attenzione, ma una festa da regalare alla cittadinanza, capace di coinvolgere adulti e bambini, in affido o non. «La metafora che abbiamo scelto, ancora una volta, è la valigia. Sara Modora, a cui ho dato una parte importantissima, cercherà una casa di cuore a cui portare la valigia. Nel cercarla, verrà aiutata dalle tessitrici, che sono le operatrici, le assistenti sociali, perché nel laboratorio di scrittura autobiografica dicevano che erano state proprio loro a tirare i fili, a dipanarli, a fungere da strumenti efficaci tra la famiglia d’origine e quelle affidatarie». Sul ruolo delle operatrici, si sofferma ancora una volta anche Sara: «mettere sullo stesso livello famiglie e operatori, e farlo divertendosi, è qualcosa di straordinario… La distanza che spesso si percepisce non c’è, non c’è il noi e il voi, ma il noi».
Un altro degli elementi che ricorrerà nella rappresentazione sarà la casa. «Le case hanno tutte un nome. C’è la Casa ABC, la Casa che Tra-balla. C’è anche una Casa Infortunata perché ci sono degli affidi che sono faticosi, magari non sempre vanno a buon fine».
Chiedo a Silvia cosa le ha dato questo progetto, che mi ha visto, per una piccola parte, camminare accanto a lei. Non c’è esitazione nelle sue parole: «mi ha dato l’inaspettato e la forza del bene, della gratuità, che in questo momento in cui le notizie dei giornali ci portano molti pensieri negativi sono come delle lucciole che fanno bella la notte. Sara, alla fine della rappresentazione, arriverà a una casa, su cui è scritto “Casa che Aspetta”. Perché non potresti essere anche tu una famiglia affidataria?».