Yabre e io decidiamo di vederci un sabato pomeriggio, dopo le 15, al termine del suo turno di lavoro come operatore ecologico a Madone. Davanti al bar in via Gavazzeni a cui ci siamo dati appuntamento si avvicina silenzioso, lo sguardo che fatica ad incrociarsi con il mio, un sorriso timido appena accennato. Entriamo e ci sediamo in una saletta: serve un posto tranquillo per sentire la sua storia.
«Come stai?» rompo il ghiaccio. «Bene» risponde lui. «Com’è il lavoro? Ti piace?» continuo. Lui alza gli occhi divertito: «meglio di niente – ridacchia – meglio di lavorare nei campi a raccogliere le arance». Appena arrivato in Italia, nel 2012, il suo primo “lavoro” è stato quello di bracciante in una piantagione di arance vicino a Foggia. Lì veniva pagato «3.50€ a cassetta» che significa, circa, ogni 40 kg di frutta raccolti. Poi arrivava il periodo dei mandarini, «quelli sono più piccoli, quindi venivamo pagati 1€ a cassetta». Facendo il conto, la media era di 25€ per più di 8 ore di lavoro al giorno. Il tutto, con ogni probabilità, senza un contratto. «Avevi una casa lì?» chiedo. «Sì, dormivamo dentro a dei container».
Il motivo per cui ha deciso di partire 10 anni fa con un visto turistico per l’Italia e per cui ha continuato per cinque anni a lavorare nelle piantagioni pugliesi è sempre stato quello di guadagnare qualcosa da mandare poi alla sua famiglia rimasta in Africa. La sua è quindi la storia di un migrante economico, una storia guidata dall’intento di migliorare le condizioni di vita della moglie Wousnawan e della figlia Wofobe. «Nel mio Paese è difficile lavorare. Se hai un posto statale, ancora ancora, altrimenti sei “sotto padrone” e sfruttato». Il suo impiego da insegnante di francese, quindi, non bastava.
In Puglia però le condizioni non erano di certo migliori e così Yabre decide di spostarsi. Dopo un periodo in Calabria, dove prende la patente, nell’agosto 2018 la scelta della tappa successiva ricade su Bergamo, dove allora viveva un suo compaesano. «Purtroppo però, quando sono arrivato, alla sera, il mio amico non mi rispondeva al cellulare e così ho dormito per strada, in stazione» ride amaramente. «Allora, il giorno dopo ho chiamato un altro mio amico che era al Patronato San Vincenzo e sono andato lì per chiedere un posto dove stare, ma la prima disponibilità era a marzo, otto mesi dopo».
Le strutture di accoglienza spesso sono costrette a scontrarsi con i limiti della realtà. Me lo aveva confermato qualche giorno prima in un’intervista un operatore del Patronato, Antonio Semperboni: «Ogni giorno noi riceviamo tantissime richieste di accoglienza. Purtroppo però siamo costretti a dire di no a molti, perché abbiamo “solo” 250 posti. Il mandato istituzionale dell’Opera, poi, è di accompagnare le persone in un percorso verso l’autonomia: spesso quindi ci vogliono degli anni. Non è un posto dove uno può stare una notte e basta».
Per Yabre, quindi, in quel momento il Patronato non poteva essere la soluzione: si prospettava un’altra notte per strada. «Sono andato allora al Galgario, il dormitorio della Caritas» prosegue, riferendosi al servizio “di bassa soglia” e di accoglienza d’emergenza offerto alle persone più ai margini. Al Galgario, Yabre poteva avere l’accoglienza temporanea che cercava, fintanto che aspettava che si liberasse un posto al Patronato.
«Come ti sei sentito, mentre eri in stazione o nei dormitori della Caritas?» gli chiedo, in pensiero. Il mio interlocutore fa la sua solita risata un po’ strozzata: «Sapevo che era una fase e che quindi sarebbe passata. Il mio obiettivo è sempre stato trovare un lavoro, non stare in strada». La risolutezza della sua risposta mi stupisce, facendomi riflettere sullo sguardo pietistico che talvolta si rischia di avere verso la storia degli altri.
Da quell’agosto del 2018 seguono per Yabre mesi di corsi di italiano, pratiche burocratiche per avere la residenza nella sua nuova città – «sono diventato bergamasco!» commenta divertito – e di lavori saltuari. «Per un primo periodo ho fatto il magazziniere. Lì dovevo essere veloce, il tempo conta» ricorda. «Poi ho trovato un lavoro in nero, come me». Ci metto un po’ a cogliere la sua autoironia, complice anche il tono di voce basso di Yabre. «Facevo un lavoro da ambulante, al mercato» continua.
Io però ripenso alla sua battuta, anche se fatta con serenità e innocenza. Mi tornano in mente le parole di Antonio Semperboni, quando mi aveva parlato del profondo senso di inadeguatezza che diversi stranieri – al Patronato, ma non solo – vivono: «Per molti è come se i bianchi fossero una declinazione di una specie diversa rispetto all’“africanità”. Mi è capitato che alcuni ragazzi mi dicessero “che belle case che costruite, voi bianchi, noi non siamo capaci…”. È difficile smantellare questo pregiudizio che hanno verso loro stessi». Gli operatori come Antonio allora cercano di lavorare anche su questo, spiegando loro che il colore della pelle non significa essere “più o meno intelligente, più o meno in grado di fare qualcosa”. Piuttosto talvolta significa che, a parità di capacità, l’uno ha avuto possibilità diverse dall’altro.
Ovviamente Yabre non si accorge dei miei pensieri e continua divertito con il racconto delle sue vicende lavorative: dopo l’occupazione di venditore si è messo a fare il corriere espresso. Purtroppo per lui, però, come per molti altri migranti, si alternavano solo brevi contratti (o “pseudo-contratti”) a tempo determinato, ben lontani da dare la stabilità che cercava. Di quel periodo, Yabre ricorda allora l’appoggio fondamentale della Chiesa Evangelica: un riferimento spirituale e un supporto nella ricerca del lavoro.
Dopo nove mesi, nell’aprile del 2019, arriva il tanto atteso ingresso al Patronato San Vincenzo, dove incontra nigeriani, marocchini, senegalesi, ivoriani e tanti altri stranieri venuti in Italia, come lui, in cerca di un futuro migliore. Nella struttura di via Gavazzeni vengono accolti diversi tipi di persone. Ci sono coloro che soffrono di problematiche, quali abuso di sostanze, malattie mentali (due fenomeni spesso legati), mancanza di documenti o difficoltà a riceverli. Tuttavia, aveva puntualizzato Antonio: «La maggior parte delle persone che bussano alla porta del Patronato sono lavoratori capaci, scolarizzati, con grande forza di volontà, ma che sono in strada perché non hanno una casa. Senza un contratto di lavoro a tempo indeterminato, chi ti dà l’affitto? Nessuno. Noi abbiamo visto solo ragazzi con continui contratti di lavoro a tempo determinato». Era proprio il caso di Yabre. Il primo passo per i nuovi arrivati come lui era quindi avere un tetto, cioè fare esperienza di housing sociale.
«È il passaggio fra il Patronato e l’indipendenza totale» mi aveva chiarito Federico Borsotti, un altro operatore del Patronato. «Si tratta di appartamenti in cui i ragazzi devono gestirsi in semi-autonomia condividendo gli spazi. Il senso di comunità che si crea aiuta moltissimo le persone coinvolte. Tanti sono connazionali e condividere la cultura e la lingua madre – non il francese o l’inglese, ma proprio il “dialetto” –significa molto per i ragazzi del Patronato. È un modo per sentirsi meno soli e per trovare un senso. Poi ci sono anche casi di convivenza tra persone di origine italiana e questi ragazzi: una formula che funziona, nonostante all’inizio non sia facile».
Tra i risultati più sorprendenti, «molto spesso succede che i vicini degli appartamenti ci dicono “meno male che ci mandate un po’ di ragazzi stranieri, perché la casa viene tenuta meglio”». Al contrario di quello che si potrebbe pensare, aveva aggiunto Antonio, «i ragazzi di origine straniera hanno ancora l’idea del rispetto verso l’anziano. Solitamente, hanno 35/40 anni e vedono con grande riguardo una persona di 60 anni – età media degli italiani che si rivolgono al Patronato – e quindi aiutano molto. Sono solidali tra loro». E così succede anche che convivenze dapprima osteggiate, anche per rivalità culturali, che sfociano nel razzismo tra gli stranieri stessi, diventino esempi di integrazione. D’altronde, la comunità che si crea nasce dalla condivisione di un passato simile e di un futuro da costruire, a piccoli passi. Questo significa, per esempio, frequentare insieme i corsi dell’AFP, l’Associazione Formazione Professionale del Patronato, che svolge attività di educazione, assistenza e promozione sociale: un supporto per entrare nel mondo del lavoro e utile anche per Yabre. «Ho iniziato a fare l’autista per una Cooperativa di persone con disabilità» prosegue il mio interlocutore, ricordando anche le difficoltà legate al periodo della pandemia.
E così, nonostante le fatiche, nel giugno del 2021, quasi tre anni dopo il suo arrivo a Bergamo, Yabre firma un contratto a tempo indeterminato per quello che è tuttora il suo lavoro da operatore ecologico. Con i risparmi, è riuscito anche a prendersi una macchina per andare a lavorare. «Adesso mi manca solo comprare una casa mia, così poi posso far venire anche mia moglie e mia figlia qui a Bergamo». Dopo una piccola pausa conclude con la solita risata a cui ormai mi sono abituata: «E questa è la mia storia».
Il tempo è passato veloce e, dopo aver guardato insieme su Google Maps dove fosse il Burkina Faso e ripercorso le tappe che lo avevano portato lì davanti a me, gli chiedo che programmi avesse dopo il nostro incontro: «Vado dai miei amici in Malpensata. Vuoi venire?» domanda spontaneo. Decido di seguirlo per conoscere uno scorcio della sua quotidianità.
Lungo via Gavazzeni passiamo davanti all’entrata del Patronato e ci viene incontro Steven, un ragazzo gambiano sorridente che mi dà subito il cinque: «Come stai? Bene? È importante stare bene, grazie a Dio», mi dice, baciando il crocifisso che aveva al collo e tenendomi la mano. Continuiamo la nostra passeggiata fino al quartiere alle porte della città: «Qua ci sono tutti i miei amici. Noi chiamiamo questa zona “via Nigeria”!» il commento divertito di Yabre. Ci avviciniamo al parcheggio, tra i saluti della gente, e raggiungiamo un gruppo di persone riunito attorno a una scacchiera. «Loro giocano sempre a dama e così passiamo insieme il tempo libero».
I giocatori, concentrati sulla partita, spostano svelti le pedine – in quel caso, dei tappi di bottiglie di plastica – e si esortano a vicenda a compiere la mossa successiva. «So mia me!» urlano l’un l’altro, con un accento bergamasco guadagnato negli anni. Durante il match – tra un burkinabè e un gambiano – si avvicinano di continuo compaesani e compaesane, come Maria. La donna ha con sé un secchio colmo di bottigliette di plastica: «Ho preparato lo yogurt!» esordisce, offrendo la bevanda zuccherina ai presenti. Insieme a lei c’è anche il suo bambino: un piccoletto curioso che si aggira con la maglietta dell’Atalanta.
Il parcheggio diventa così un luogo di incontro per tutti: qualcuno racconta che forse sta trovando una casa da comprare – anche se un po’ cara – qualcun altro è appena tornato dalla Moschea, e poi c’è chi osserva in silenzio la partita a dama. Per me è il momento di salutare Yabre e di lasciargli trascorrere la serata con gli amici. «Ti auguro di trovare una casa, così puoi far venire qui anche la tua famiglia» gli dico, stringendogli la mano. Ringrazia, fa la sua solita risatina e poi si allontana, verso il Patronato San Vincenzo che forse, per lui, è già un po’ casa.
(Tutte le foto sono di Federica Pirola)