Specializzato in medicina del lavoro, Vittorio Agnoletto insegna globalizzazione e politiche della salute all’Università Statale di Milano, è responsabile scientifico dell’Osservatorio Coronavirus attivato da fine febbraio da Medicina Democratica, dalla trasmissione 37e2 di Radio Popolare e da altre associazioni. Attualmente sta lavorando a “Senza respiro”, un libro di inchiesta sulla pandemia e su come ripensare la sanità pubblica, i cui diritti d’autore saranno all’ospedale Sacco di Milano.
Lo abbiamo raggiunto per chiedergli innanzitutto una valutazione generale della gestione nazionale dell’epidemia: “Per prima cosa – e di questo nessuno ha parlato – non si è utilizzata quella che l’OMS definisce ‘finestra di opportunità’”.
MR: Ovvero?
VA: Ovvero il tempo che trascorre tra la comparsa del virus e la scoperta delle vie di trasmissione in un luogo del mondo e la comparsa di quello stesso virus da un’altra parte. Non si è organizzata una risposta sanitaria all’altezza per evitare di essere colti di sorpresa. E c’è stata grande confusione nelle indicazioni fornite per identificare i casi sospetti da sottoporre a tampone: nella circolare del 22 gennaio si prevedeva che una persona potesse essere sospettata indipendentemente dal viaggio in Cina o da contatti con la Cina; come criterio di caso sospetto c’era “la manifestazione di un percorso clinico insolito e inaspettato soprattutto un deterioramento improvviso nonostante un trattamento adeguato”. Nella circolare del 27 questo criterio sparisce. È stato un errore che ha rallentato l’identificazione di quello che poi è diventato il caso numero uno.
MR: Questo nella fase iniziale...
VA: Poi c’è stato il gravissimo errore di non aver dichiarato la zona rossa attorno a Bergamo. È inutile ora assistere al gioco dello scarica barile, la responsabilità è condivisa: lo poteva fare sia il governo che la regione. Un altro limite è stato che il governo ha rinunciato a dare in modo scientificamente accettabile i dati che venivano forniti ogni giorno alle 18. Erano dati inutilizzabili dal punto di vista epidemiologico, per avere un quadro statisticamente significativo dell’epidemia. Conseguenza del fatto che lo Stato non ha dato linee precise su come dovevano essere realizzati i tamponi: quali fette di popolazione, quanti tamponi, con quali criteri. Clamoroso è stato anche il metodo con cui fornivano la percentuale dei nuovi positivi, calcolata ogni giorno sul numero totale di positivi realizzati in quel momento: in questo modo anche se il numero dei nuovi positivi rimane lo stesso o aumenta di poco, come percentuale viene calcolato in diminuzione.
MR: E poi?
VA: Fino ad aprile inoltrato la Regione Lombardia non ha sottoposto a tampone gli operatori che hanno lavorato a fianco di un collega risultato Covid-positivo. La regola dei 14 giorni, quarantena valida per qualunque cittadino non valeva per i medici: continuavano a lavorare fino a quando non mostrassero sintomi. Sto parlando di una cosa seria: la Regione Lombardia non l’ha fatto per evitare di dover dichiarare in corso d’opera quanti operatori sanitari e quanti medici si erano infettati, e quindi qual era la responsabilità di non aver fornito fin dall’inizio dispositivi di protezione. Ha dovuto cominciare a fare i tamponi al personale sanitario solo dopo la circolare ministeriale, in aprile, del ministro Speranza.
MR: C’è un nesso consequenziale tra il sistema sanitario che la Regione Lombardia ha costruito negli ultimi anni e la gestione dell’emergenza?
VA: C’è un nesso evidente e precisissimo. Si parla del sistema di eccellenza della Lombardia. Una persona che ha bisogno di cure oncologiche per esempio, particolari e innovative, operazioni di alta tecnologia, sicuramente viene in Lombardia. Qual è il problema: il modello della sanità lombarda è fortemente segnato da una logica privata di alta specializzazione tecnologica, di medicina puramente curativa. Il 40% della spesa sanitaria regionale è destinato a strutture private accreditate che decidono su cosa accreditarsi e dove investire in base al maggior profitto che possono trarne. Alla medicina privata non interessa la prevenzione. Anzi, va detto in modo chiaro: la prevenzione, da un punto di vista della ragione sociale di un’azienda privata in sanità, è un avversario. Il privato guadagna in base al numero dei malati e del tipo di malattie, e se la prevenzione sottrae malati e malattie, diminuisce il profitto. Quindi non investono in prevenzione, in dipartimenti di emergenza, nei pronto soccorso ma in alta cardiologia, alta chirurgia, patologie croniche. Questo avviene addirittura sugli esami: le strutture private scelgono di accreditarsi per alcuni esami e non per altri che sono più costosi.
MR: Questo cosa ha comportato?
VA: I limiti di questo modello ospedale-centrico sono due: la presenza del privato orientata alle leggi del profitto e la logica del privato applicata tale e quale anche alla sanità pubblica. C’è la legge regionale 23 del 2015 che istituisce l’ASST, dove sono stati concentrati tutti i servizi ospedalieri e anche i servizi territoriali, persino la gestione dei servizi per disabili, di psichiatria, eccetera. Sono strutture molto grandi e poco in rapporto con i servizi diffusi sul territorio, che sono stati accorpati per poter drenare personale all’interno delle strutture ospedaliere. Questo ha sguarnito completamente la presenza dei servizi specialistici ambulatoriali sul territorio. La Regione Lombardia ha applicato la logica del privato alla struttura pubblica riducendo ai minimi termini tutti i servizi di medicina territoriale, abbandonando completamente a sé stessi i medici di famiglia. E ciò ha fatto sì che non abbia funzionato il sistema di allarme. Si può affermare con certezza che c’erano dei casi già a dicembre ampiamente diffusi: i medici di famiglia segnalavano un aumento non altrimenti giustificabile di polmoniti interstiziali. La domanda è: tutte queste segnalazioni, in quale cassetto della Regione sono rimaste? Per due mesi il virus si è diffuso indisturbato in Lombardia. E una serie di conseguenze sono arrivate anche dopo: nella fase due la Lombardia continua a fare pochissimi tamponi e questo ha lasciato campo libero all’esecuzione dei tamponi e dei test sierologici ai laboratori privati. Senza considerare poi che la legge 23 ha istituito anche le famose delibere regionali per l’affidamento a “gestori” privati della cura dei malati cronici (in breve: di cosa si tratta, ndr).
MR:37 miliardi di tagli negli ultimi anni, processi di aziendalizzazione, cooperative per la gestione del personale nelle strutture pubbliche, DRG, servizi intramoenia, investimenti minimi in prevenzione, servizi territoriali e dispositivi di protezione universale: tutte questioni sistemiche che non riguardano solo la Lombardia. Posto questo, perché il caso lombardo è un unicum?
VA: La Lombardia, essendo la regione più integrata nei processi di globalizzazione, era la più esposta al rischio di vedere per prima la comparsa dell’infezione. L’impreparazione del modello lombardo però ha portato a una diffusione del virus maggiore che in altre regioni: se non ci sono sistemi di sorveglianza, le spese le fa laddove l’agente infettivo arriva prima. Quei processi sono presenti in tutta Italia, ma le modalità esasperate con cui la Lombardia li ha sviluppati sono particolari. Non è questa la situazione di tutte le altre regioni. Anche in Veneto vi sono stati processi di privatizzazione, ma non è stata smantellata la rete dei servizi territoriali, non sono stati abbandonati i medici di famiglia. E questa rete è stata fondamentale. Il tasso di mortalità del Veneto è di 40 persone su 100mila, in Lombardia è di 165. Immaginiamo il Covid come una grande onda che sta per abbattersi sulla spiaggia. La medicina territoriale (ambulatori, medici di famiglia) è come un frangiflutti che rompe la potenza dell’onda che arriva sulla spiaggia – che è il servizio ospedaliero.
MR: Quindi il problema è stato il non funzionamento della prima linea di difesa...
VA: Il Veneto con una medicina territoriale diffusa ha ottenuto una percentuale, rispetto ai casi, molto minore di persone arrivate negli ospedali. Il frangiflutti della Lombardia, essendo stato picconato dall’interno, ha permesso all’onda di abbattersi sulla struttura ospedaliera che a sua volta era ridotta in termini di letti di emergenza, segnata poi da un intervento del privato che si è attivato con due settimane di ritardo. C’è una specificità patologica del modello lombardo, anche per i servizi intramoenia e per i servizi di prenotazione: il Centro Unico di Prenotazione non fissa le visite nelle strutture accreditate, ma solo in quelle del SSN. Non ha senso, visto che già in epoca pre-Covid le liste di attesa erano assolutamente spaventose.
MR: È evidente che vi sia la necessità di riorganizzare il sistema sanitario nazionale. Da dove si parte?
VA: Io tornerei ai principi costitutivi della legge dell’8 febbraio 1978 che istituì il Servizio Sanitario Nazionale e ci portò l’ammirazione di tutto il mondo. Prevedeva un servizio sanitario universale, gratuito nell’accesso perché finanziato dalla fiscalità generale con modalità progressive in relazione al reddito. Questa era la filosofia della 833/78. Prevedrei che tutte le prestazioni incluse nel LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) siano fornite dal Sistema Sanitario Nazionale. In questa impostazione il privato è esterno all’SSN ed è a disposizione dei cittadini che sono in grado di pagare un servizio particolare o un’assistenza alberghiera-sanitaria migliore. È un’impostazione generale in linea con l’articolo 32 della Costituzione, che è uno dei pochissimi, forse l’unico, dove non si parla di cittadini ma di individui e collettività, proprio perché tutela il diritto alla salute come diritto universale.
MR: E quale ruolo dovrebbe ricoprire il privato?
VA: Un SSN pubblico con il privato accreditato dovrebbe stabilire alcuni paletti precisi, come fatto in Germania, ad esempio. Non permettere alla struttura sanitaria privata di decidere quali reparti accreditare e quali no: dovrebbe piuttosto rendersi disponibile dove serve. E dovrebbe essere compito della struttura pubblica decidere se il privato deve accreditarsi anche con il Pronto Soccorso e con quei servizi che sono fondamentali ma meno redditizi. A parità di diagnosi e patologia poi, i rimborsi alle strutture private non dovrebbero superare quelli del Servizio Sanitario pubblico. Poi c’è il meccanismo di controllo da parte della Regione, che dev’essere un meccanismo serio e totalmente separato dal settore che dà l’accreditamento.
MR: Secondo una ricerca dell’Università Cattolica pare che il circa 40% degli italiani diffidi del vaccino per il Coronavirus. Che ne pensa?
VA: Dobbiamo vedere quale sarà la situazione quando arriverà il vaccino. Quando avranno individuato un vaccino si verificherà se sarà ancora funzionale per il tipo di virus che avremo in circolazione. Oggi lo sforzo da fare è relativamente alle terapie. Quando poi ci sarà il vaccino valuteremo la situazione: presenza o meno di terapie efficaci, fasce di popolazione più o meno esposte, percentuali di efficacia sul virus che in quel momento sarà in circolazione. Anche il vaccino antinfluenzale viene rifatto ogni volta perché i virus si modificano. Discuterne a priori rischia di diventare ideologico.
MR: Crede che quel 40% abbia maturato il proprio scetticismo su queste valutazioni?
VA: Dentro quel 40% c’è una fetta di novax a priori. Credo anche che molti abbiano ascoltato gli infettivologi, che hanno parlato di priorità delle terapia e non del vaccino. A mio parere non esiste nessuna possibilità che nel prossimo autunno disporremo di un vaccino. Anche perché prima di poter avere l’autorizzazione per essere messo sul mercato deve dimostrare un’efficacia altissima. Un farmaco con un’efficacia del 60% può essere messo sul mercato. Un vaccino no, deve avere un livello di efficacia che sfiora il 100%. Se diamo il vaccino alle persone modificheranno il proprio comportamento – è documentato in tutte le ricerche fatte dall’OMS – e abbasseranno la soglia di attenzione. E se il vaccino funziona solo su sessanta otteniamo esattamente il risultato opposto.