41 anni, nata a Perugia da genitori di origine giordana, fra i fondatori dei Giovani Musulmani d’Italia (GMI), Sumaya Abdel Qader è consigliere comunale a Milano, dove ha conseguito una laurea in biologia, una in mediazione linguistica e una specializzazione in sociologia. Si occupa di nuovi immigrati, lavora nei centri antiviolenza e nei suoi romanzi (l’ultimo è “Quello che abbiamo in testa”, uscito nel 2019 per Mondadori) racconta lo sgomento delle sciure milanesi, quando scoprono che le donne musulmane indossano il velo per seguire la più grande influencer di tutti i tempi: la Vergine Maria.
CP: Molte fedi sotto lo stesso cielo è il titolo della rassegna di Acli Bergamo ed è anche il sunto perfetto di quello che scrive nei suoi romanzi. Cosa significa rivendicare il bisogno di autodeterminarsi come donna vivendo intimamente la propria fede e al tempo stesso confrontarsi con l’esternalità (e la cultura) occidentale che spesso si concentra solo su “quello che hai in testa”?
SAQ: Penso che autodeterminarsi voglia dire riuscire a svincolarsi da modelli preimpostati e imposti dalla società che premono per dire alle donne in modo trasversale chi e come devono essere. In più quando ci si confronta con una fede particolare, che non è quella professata dalla maggioranza della popolazione del luogo in cui si vive, diventa ancora più difficile e possono sorgere difficoltà, contraddizioni, ricerche personali rispetto a come vivere la propria religione e rispettarne i precetti. All’interno di un contesto che spinge nel verso opposto. Indossare il velo, nello specifico, va contro la tendenza generica ad esaltare il fisico, il corpo e un’idea di perfezione da esibire e inseguire a tutti i costi, che sfociano poi nel bodyshaming.
CP: Nei suoi scritti la dedizione spirituale che veste e prefigura ogni azione si accompagna ad un senso di incertezza che non ha necessariamente una valenza negativa ma assume la connotazione di un bisogno. Quello di riuscire a trovare un equilibrio tra la tradizione delle religioni e questo mondo che continuamente, muta, evolve e si adatta. Quali sono, dunque per lei i principi inderogabili da cui partire?
SAQ: Innanzitutto, la ricerca di un equilibrio in un tempo che cambia penso sia connaturata nell’essere umano. E il fatto di aderire ad una fede che arriva da molto lontano implica una sfida: vivere una spiritualità che affonda le sue radici in un contesto completamente diverso. Ma parlando dell’Islam, quello che la maggior parte delle persone non sa è che esso si caratterizza per una flessibilità interpretativa che è stata prevista proprio per consentire all’essere umano di comprendere come vivere la propria fede in una realtà mutata e mutevole. Si tratta di uno sforzo interpretativo che non è condiviso da tutti i musulmani, perché c’è anche chi vive nella rigidità totale ed è inflessibile rispetto ai cambiamenti. Dipende dalle scuole alle quali si aderisce.
CP: Quindi è tutto molto meno fisso di quanto si creda…
SAQ: In generale, i principi inderogabili su cui tutti i musulmani concordano sono quelli legati al credo (la testimonianza di fede, la preghiera, l’imposta coranica, il digiuno nel mese del Ramadan e il pellegrinaggio alla Mecca). Al di là di questi c’è la messa in pratica della vita spirituale e delle regole che vengono estrapolate per uno sforzo intellettuale umano che come tale può cambiare. Le faccio un esempio concreto, parlando del mutuo. I musulmani non concepivano che si pagasse il tasso di interesse. Oggi i nuovi sapienti hanno valutato che aprire dei mutui sia comprensibile e vantaggioso rispetto al peso di dover gestire degli affitti. Questo vale anche per altre questioni che sono state discusse e riviste alla luce dell’evolversi di tempi e luoghi. Nel mondo dell’Islam c’è un fermento culturale enorme, anche rispetto all’immagine e al ruolo della donna o al tema del velo che è di grande interesse. Bisogna solo mettersi nelle condizioni di voler conoscere e capire.
CP: Il futuro ci appare come un mare aperto, un canovaccio di possibilità, scoperte, incontri, diversità. E lei che si definisce non etichettabile e non classificabile, al confine tra due mondi apparentemente diversi ma che sente profondamente suoi, sembra essere già proiettata verso un domani fatto di occasioni. Alla luce di queste considerazioni, pensa che abbia ancora senso parlare di integrazione?
SAQ: Il concetto di integrazione è stato spesso abusato e utilizzato male, tanto che il suo significato è andato a perdersi e a non avere quasi più una prospettiva o una specifica chiarezza. Soprattutto alla luce dei cambiamenti sociali. Oggi siamo la quarta generazione, quindi viene spontaneo chiedersi di cosa stiamo parlando e soprattutto chi vogliamo integrare? Si finisce per confondere i piani: tra il rifugiato e l’immigrato che è in Italia da cinque anni, l’immigrato che sta qui da venti e che si considera ancora “immigrato”, i figli dei figli degli immigrati e così via. Si utilizzano ancora le vecchie terminologie o comunque un’unica categoria per inglobare una pluralità di persone. Non ha senso parlare di integrazione nel caso di un figlio di immigrati che è nato, cresciuto e ha sempre vissuto in Italia.
CP: Nel suo ultimo romanzo “Quello che abbiamo in testa” c’è una frase cardine che sintetizza l’essenza del libro: “Portare il velo è il più grande segno di emancipazione di una donna. Oggi come oggi, un atto ribelle e femminista”. Quanto è difficile spiegare a chi non la sperimenta il senso di libertà e di orgoglio che si esprime indossando quella che è a tutti gli effetti la testimonianza di un rapporto di devozione nei confronti di Dio ma anche e soprattutto verso sé stessi?
SAQ: È una frase che ho scelto di far dire alla protagonista e che ha suscitato molte polemiche, tra femministe e non (ride, ndr). È una citazione che da un lato vuole essere una provocazione, dall’altra neanche più di tanto. Perché si sta parlando dell’autodeterminazione spirituale di una donna che sceglie di privarsi di qualcosa, esibire il proprio corpo, appunto e intraprendere un percorso di adorazione e devozione nei confronti di Dio. Quando questa è una libera scelta, deve essere rispettata e compresa. Ma è estremamente difficile spiegarlo perché oltre alla libertà bisogna anche riconoscere un’altra dimensione, quella nella quale il velo è subito, imposto. Queste due realtà convivono, purtroppo in un caso, per fortuna nell’altro. Il problema è che i media, nei fatti di cronaca, l’immagine della donna che viene presa a sassate perché si è tolta il velo, prevale.
CP: Ha curato la sceneggiatura dell’ultima stagione di una serie che ha avuto un grande successo a livello internazionale: “Skam” in cui la protagonista è una giovane musulmana che deve gestire la pressione tra la sua fede religiosa e i turbamenti, le trasgressioni che accompagnano l’adolescenza, attraverso la prospettiva della focalizzazione. Cosa significa scrivere con un linguaggio che si rivolge ai giovani?
SAQ: Quello dei giovani è un mondo che conosco bene, avendo dei figli adolescenti e lavorando a contatto con i ragazzi. La sfida che abbiamo affrontato è stata quella di cercare di uscire dai soliti pregiudizi, cliché e luoghi comuni. La protagonista, infatti, non incarna la ragazza musulmana perfetta ma è una adolescente con i suoi dubbi e le sue fragilità. Le abbiamo concesso di sbagliare, di avere un caratteraccio. Vedere Sana (la protagonista della serie, ndr) con le sue debolezze, le sue paure, ha aiutato molti ragazzi non musulmani che mi hanno scritto per ringraziarmi perché attraverso la serie sono riusciti a capire cosa c’è dietro alle vite dei loro compagni e avere maggiore accortezza e sensibilità rispetto alla loro essenza e a sfumature della loro intimità che non riescono facilmente a condividere coi loro coetanei.