Le fette di anguria colorano la tavola apparecchiata con cura. Alessandra è la prima ad accogliermi sulla terrazza di casa sua, seguita dal figlio diciannovenne, Pietro. Appoggiato alla ringhiera, c’è Sawanneh, che allarga un sorriso e china un po’ il capo, porgendomi la mano per salutarmi. Con loro, è presente Massimo, referente territoriale e coordinatore dell’associazione Refugees Welcome Bergamo , parte del network internazionale di Refugees Welcome Italia . L’organizzazione, attiva in 30 città italiane, si propone di mettere in contatto persone desiderose di accogliere con persone rifugiate o titolari di protezione internazionale che vogliono abitare in famiglia mentre costruiscono il loro percorso di autonomia. A Bergamo, tutto l’iter è gestito da una rete di volontari.
Per delineare la cornice dell’incontro tra Alessandra e Sawanneh, avvenuto un anno fa, prende parola Massimo di Refugees: «A marzo 2023, siamo stati contattati dallo sportello di prossimità di Bergamo che, insieme a un operatore del dormitorio di via Castagneta in Città alta, ci ha segnalato Sawanneh come un caso meritevole di attenzione, educato e proattivo». Già prima di allora, prosegue, Alessandra aveva espresso il desiderio e la disponibilità ad accogliere qualcuno che ne avesse avuto bisogno. E così, dopo un orientamento telefonico e un primo incontro conoscitivo di persona – per accertarsi che i desideri dell’uno e dell’altra combaciassero al meglio – la strada dell’insegnante bergamasca e quella del giovane titolare di protezione internazionale, in fuga dalla Sierra Leone, si sono incrociate.
Tra i due si instaura un legame profondo, ricordato subito dallo sguardo e dalle parole di Alessandra: «Sawanneh è magico: mi aiuterebbe in qualunque modo. Quando torna a casa dal lavoro, la sua prima preoccupazione è accertarsi che stiamo tutti bene – racconta, guardandolo di fronte a sé – Una volta, a Natale, io ero a casa malata e lui è rimasto con me per non lasciarmi sola, nonostante avesse preso un impegno con degli amici. Se ho bisogno di qualunque cosa, lui c’è. È un aiuto molto affidabile». «They are my family (Sono la mia famiglia)» commenta il giovane sierraleonese, confermando il senso di protezione che sente verso Alessandra e Pietro.
Stretto è anche il rapporto instauratosi tra Sawanneh e il diciannovenne, che racconta, riferendosi al nuovo membro della famiglia: «Ho scoperto che siamo della stessa scuola di pensiero, cioè “parla quando serve” – sorride Pietro – e poi ci siamo trovati bene. È un po’ come un fratello! Festeggiamo anche il compleanno insieme, siamo nati lo stesso giorno». È stato poi nella quotidianità che il loro legame fraterno è cresciuto: un po’ a casa, un po’ sul pullman, di ritorno da scuola o dal lavoro: «Abbiamo fatto delle chiacchierate su quello che era importante per lui: i suoi valori e, soprattutto, la religione – continua Pietro – A volte al mattino mi manda qualche preghierina».
Annuisce Sawanneh che, cresciuto in una famiglia musulmana, nel 2010 decide di battezzarsi, pur mantenendo i valori della sua cultura. «No drinking, no smoking: I live my life simple (non bevo, non fumo: vivo una vita in semplicità)» spiega, tenendo lo sguardo un po’ basso. A lui interessa vivere sereno: «No fighting» ripete più volte. Il volontariato in oratorio, la squadra di calcetto: Sawanneh è riuscito a costruirsi attorno a sé una rete di amicizie e solidarietà. Ora, racconta, è davvero felice: «They make me feel at home (Mi fanno sentire a casa)» dice, indicando Alessandra e Pietro.
La sua, di casa, quella in Sierra Leone, oggi è troppo pericolosa per lui, così come per gli oltre 2 milioni di persone scappate dal Paese. A distruggere la sua terra la guerra civile, durata dieci anni e conclusasi nel 2011, che ha provocato oltre 50.000 morti, distrutto l’economia e le infrastrutture dell’intero Paese e forzato migliaia di bambini sierraleonesi a diventare soldati e prostitute, costretti dai ribelli che spesso mutilavano i civili inermi.
Sawanneh porta su di sé tutto il dolore della sua storia e lo racconta senza dire una parola. Sono infatti alcune sue caratteristiche e modi di fare a parlare per lui: «Sawanneh sente qualsiasi rumore, è sempre molto in allerta, percepisce tutto», racconta Alessandra. «Dormo poche ore», conferma lui. Le lunghe notti trascorse in stazione e nei dormitori spiegano il suo essere così vigile. «Quando sei per strada, non puoi dormire, devi stare attento: la gente litiga, ti deruba… c’è sempre caos» racconta, sempre in inglese.
C’è però anche dell’altro: «Sawanneh non si lamenta mai – continua la donna, impressionata – abbiamo scoperto dopo un anno che aveva il menisco rotto: non aveva detto niente fino ad allora, nonostante dovesse sollevare pesi per lavoro e giocasse a calcio. La dottoressa, quando ha visto le lastre del ginocchio, ci ha detto che sembrava quello di un cinquantenne ». Ad alzare la sua soglia del dolore, gli oltre 5000 km di viaggio che lo hanno condotto in Italia, chissà in quali condizioni, ma soprattutto i campi di prigionia in Libia, luoghi di sevizie e torture che lasciano il segno, anche sulla pelle. È un passato di profondo dolore e solitudine quello del ragazzo, ormai trentenne, che infatti preferisce non condividere molto di quel trauma. Piuttosto, lascia spazio alla gioia che prova ora ad aver trovato una famiglia che lo accompagna nel suo percorso verso l’autonomia.
Oggi il giovane ha ottenuto la residenza proprio lì, nella casa di Alessandra, e ha un lavoro tramite Triciclo Bergamo , il progetto nato nel 1997 e cresciuto negli anni proprio per offrire spazi lavorativi per coloro che non sono ancora inseriti nel circuito produttivo bergamasco. Le sue attività quotidiane al Triciclo sono diverse: dal ritiro di mobili, abiti e oggetti usati allo sgombero di appartamenti; dallo svuotamento dei cassonetti per la raccolta degli abiti, al ritiro presso scuole, comuni, aziende di cartucce esauste per stampanti e di telefonini usati. Per andare a lavorare, Sawanneh prende un pullman tutte le mattine alle 6.40 che lo porta a Bergamo. « Da casa nostra alla fermata però sono trenta minuti a piedi – aggiunge Alessandra – Li ha sempre fatti senza dire niente, anche quando aveva il menisco rotto».
Proprio la scomodità degli spostamenti però può essere un problema per il futuro di Sawanneh: l’assenza di mezzi e la lontananza da casa non gli permettono infatti di seguire le lezioni serali di italiano della Scuola Ataya . Per questo, continua la donna, «il progetto futuro è aiutarlo a trovare un alloggio a Bergamo, in modo che possa fare tutto in autonomia. Il problema è che agli stranieri non affittano case. Ora stiamo capendo cosa possiamo fare: io sono disposta a fargli da garante!».
Il pensiero rivolto al “dopo” è un passaggio fondamentale per chi aderisce ai progetti di accoglienza di Refugees Welcome Italia e quindi anche a Bergamo: «l’associazione – precisa Massimo – ha l’obiettivo di evitare l’assistenzialismo, un atteggiamento, secondo noi, non funzionale né educativo. Refugees mira piuttosto a rendere chi viene accolto, proattivo: un vero protagonista dell’esperienza». Per questi motivi, il percorso con l’organizzazione prevede un monitoraggio rispetto a degli obiettivi prefissati. «Nel caso di Sawanneh, già inserito in una realtà lavorativa, c’è da sviluppare l’abilità linguistica» precisa l’operatore, addetto a seguire ogni passaggio.
La chiacchierata con la famiglia allargata di Alessandra, Pietro e Sawanneh continua, tra aneddoti di vita insieme e riflessioni sul futuro del giovane, quando sarà completamente autonomo. Prima di salutarci, chiedo di poter scattare a loro qualche fotografia. A quel punto, Sawanneh abbraccia Pietro, lo indica e, prima del click, esclama: «lui è mio fratello!».
(Tutte le foto sono di Federica Pirola)