«Gino sapeva che non bastavano gli ospedali, che bisognava riservare una quota di quelle cure, che lui voleva fossero accessibili a tutti gli esseri umani, anche all’idea della Pace: banalizzata, sbeffeggiata, persino additata come forma pericolosa di intelligenza col nemico». Non può che aprirsi con una dedica a Gino Strada il nuovo libro di Nico Piro, che porta il titolo – provocatorio – di «Maledetti pacifisti».
Giornalista, scrittore, attualmente inviato della redazione esteri del TG3, produttore di documentari e vincitore di numerosi premi (tra gli ultimi, il « Premio Colombe d’Oro per la Pace 2022 »), Piro ha voluto ricordare Gino Strada proprio come il fondatore di Emergency avrebbe voluto: continuando il suo lavoro. Raccontando la guerra per quello che è: «merda, sangue, morte e dolore». Perché – questo lo scrittore lo mette in chiaro fin da subito – la guerra piace a chi non la conosce, a chi la guarda da lontano. Di certo non a chi imbraccia un fucile per la prima volta e viene mandato a morire al fronte.
«Ci manca la voce di Strada, ma in generale, da quando la Russia ha invaso l’Ucraina, mancano nello spettro mediatico le voci di chi chiede pace» spiega il giornalista. «Io dico che è come se ci fosse una no fly zone, che è stata imposta sui media e sulla conversazione pubblica, per cui chi parla di pace non può, se non occasionalmente, farsi sentire, e quando si fa sentire viene automaticamente bollato come filoputiniano. Si è imposto quello che io chiamo “PUB”, il “Pensiero Unico Bellicista”, che non solo mira a convincerci che l’unica soluzione moralmente accettabile sia alimentare la guerra, ma che proietta uno stigma su chiunque parli di pace o sollevi dei dubbi sui meccanismi bellici e sul marketing della guerra».
Ad un anno e un mese dallo scoppio del conflitto russo-ucraino, Piro definisce la guerra «un prodotto» e la pace «un sottoprodotto della guerra». Come se non esistesse l’una senza l’altra. Come se dai vent’anni in Afghanistan non avessimo imparato nulla.
MM: Nico, al conflitto in Ucraina hai guardato da vicino, ma non dal campo: sei stato in Russia, a Rostov sul Don.
NP: Non posso più entrare in Ucraina dal 2019, perché sono stato nei territori secessionisti del Donbass sul versante russo, quindi a me si applica il bando che si applica a chiunque compie questo tipo di violazione. Personalmente, la trovo una decisione incomprensibile, perché i giornalisti vanno nei posti per raccontare e quindi non si schierano. Detto questo, penso che il compito del giornalista sia quello di «dare voce a chi non ha voce», dovunque si trovi. Raccontare la guerra dal punto di vista delle vittime, non dal punto di vista dei potenti, perché i potenti se la cavano sempre. Sono i civili, le vittime, quelli che pagano un prezzo più alto, che perdono la casa, i figli, le madri, che sono costretti a fuggire.
MM: Una delle “voci” meno citate in quest’anno di guerra è stata quella di Anna Politkovskaja, giornalista assassinata nel 2006 per aver denunciato il massacro in Cecenia e il sistema putiniano meglio di tutti. Allora, scrivi nel tuo libro, il mondo «si è girato dall’altra parte pur di non guardare Putin in faccia».
NP: Noi facciamo finta di aver scoperto Vladimir Putin il 24 febbraio 2022. Abbiamo scoperto Putin – un autocrate, un dittatore – il giorno dell’omicidio di Politkovskaya, quel 7 ottobre del 2006. Però, dopo quella data, Putin ha continuato ad essere invitato in Italia, le nostre imprese sono andate in Russia a firmare contratti milionari. Quando si trattava di affari, con Putin ci si poteva parlare; ora che è necessario, per fermare la guerra, dialogare con la Russia, è impossibile.
MM: «Non c’è guerra senza nemico» scrivi citando James Hillman. Il fatto che Vladimir Putin venga ritenuto oggi il «nemico numero uno» ci porta a ritenere che qualsiasi trattativa sia impossibile, perché evidentemente col male non si tratta.
NP: Fermo restando la mia totale condanna per l’invasione russa all’Ucraina e il ricorso allo strumento guerra, trovo poco utile alla comprensione delle dinamiche il fatto che le notizie critiche sull’Ucraina abbiano un’attenzione minima, se non nulla, e che si tenda sempre più ad aggravare la posizione del nemico e degli alleati del nemico. È un sottile meccanismo del marketing della guerra che secondo me va smontato, se vogliamo arrivare all’unica soluzione possibile in questa guerra: un accordo fra le parti. Anche perché credo che nessuno in quest’anno si sia mai effettivamente posto in primo piano il problema di come facciamo in modo che i civili ucraini smettano di morire sotto le bombe e come facciamo in modo che sia i giovani ucraini sia i giovani russi non vengano più mandati al macello con una divisa addosso.
MM: Tu dici che non c’è una soluzione militare a questo conflitto. Quello che sentiamo raccontare, però, è che Putin non tratterebbe mai, Zelensky non tratterebbe mai. Che l’unica soluzione possibile è la guerra.
NP: In realtà, la pace ha già dimostrato di aver ottenuto uno straordinario successo: oggi dall’Ucraina possono partire i cargo carichi di grano, attraversare il Mar Nero tra campi minati e la marina russa e arrivare in Turchia, da dove poi vanno nel resto del mondo. Ovviamente questo è un accordo limitato in un settore specifico, che però sta facendo bene all’Ucraina e sta facendo bene ai paesi poveri del mondo e sta calmierando i prezzi sui mercati mondiali. Quando il capo di stato maggiore delle forze armate americane, il generale Mark Milley, dice che l’unica soluzione è un accordo di pace… beh, se non ci si fida del capo di stato maggiore delle forze americane, non so di chi ci dobbiamo fidare.
MM: Conosco una donna ucraina, le ho chiesto cosa volesse il suo popolo, aspettandomi di sentir dire «la pace». Mi ha risposto che la guerra che loro combattono è una guerra per la sopravvivenza, che quello che stanno vivendo è preferibile allo scenario di un’Ucraina in mano russa.
NP: Io credo che sia una posizione, rispettabilissima, ma non credo che possa essere equiparata alla posizione di tutti. Il popolo ucraino nel suo toponimo ha la complessità: «Ucraina» significa «terra di confine». È un luogo dove si intrecciano eredità polacca, russa, influenze turco-greche. Io amo sempre ricordare che «O’ sole mio», la più famosa canzone napoletana, è stata probabilmente scritta ad Odessa. Se non ci fosse questa complessità, allora non si capirebbe, per esempio, perché è sempre più difficile per i reclutatori ucraini trovare soldati da mandare al fronte, tanto è vero che le lettere di coscrizione le stanno distribuendo anche ai funerali… Mi sembra che quest’idea del «combatteremo fino alla fine» non sia di tutto il popolo. C’è una sofferenza da parte dei civili che mi sembra venga banalizzata quando si dice che la guerra è l’unica soluzione. Tra l’altro, è una guerra che mette in dubbio gli equilibri di tutto il mondo, quindi è un tema che va trattato sicuramente dal popolo russo, dal popolo ucraino, ma anche dalla comunità internazionale.
MM: Papa Francesco l’ha già definita la «Terza Guerra Mondiale».
NP: Il Papa è l’ultimo leader mondiale che ha conservato lucidità in questa fase, perché è uscito dalla logica buoni-cattivi per pensare a come mettere il mondo in sicurezza, a come salvare vite umane. Però purtroppo anche il Papa – fin dalla Via Crucis del 2022, quando ebbe l’ardire di far camminare nel corteo una donna russa accanto a una donna ucraina – è stato fortemente criticato. Credo che questo sia la misura del degrado del dibattito in cui ci troviamo, di quanto il pensiero critico faccia paura di questi tempi.
MM: Nel tuo libro, ti soffermi sul fatto che l’Italia sia l’unico paese, tra i grandi paesi del mondo, a non dichiarare quali armi sta inviando in Ucraina.
NP: Il governo italiano, quello di prima e quello di adesso, sta privando i nostri connazionali, gli italiani, di un dato fondamentale per capire a che tipo di impegno bellico stiamo andando incontro. Soprattutto, per capire a cosa dovremmo rinunciare in termini di scuole, ospedali, ambulatori, servizi sociali, per pagare non solo armi per l’Ucraina e per questa guerra, ma anche per riempire di nuovo gli arsenali. Votando a scatola chiusa l’invio di armi in Ucraina, il Parlamento di fatto si impegna a votare nuove commesse per le armi e non fa chiarezza su quanto questo peserà sulla popolazione italiana, sui cittadini nei prossimi anni. Il Milex, l’Osservatorio sulle Spese Militari Italiane, stima che l’Italia finora ha impegnato una cifra che oscilla fra gli 800 milioni di euro e il miliardo di euro in Ucraina. È un dato molto poco raccontato.
MM: Il ventennio in Afghanistan, scrivi, ricordando ancora una volta Gino Strada, non ci ha insegnato nulla. In che modo questa guerra si sta “afghanizzando”?
NP: Le guerre al terrore hanno causato oltre un milione di morti. Io credo che quella sia una lezione che ci insegna come la guerra non risolva i problemi, ma il complichi. Dovremmo imparare da quella lezione perché questo conflitto è un altro conflitto che si sta cronicizzando, comincia a scomparire piano piano dai giornali: appena c’è un’altra crisi – l’abbiamo visto recentemente con il terremoto in Turchia – l’attenzione va altrove. Sono dinamiche dell’informazione abbastanza fisiologiche, io però continuo a pensare ai civili ucraini e ai soldati mandati a morire al fronte.
MM: Concludo allacciandomi alla recentissima condanna di Putin per crimini di guerra da parte del tribunale dell’Aia. Cos’è crimine di guerra e cosa non lo è?
NP: Io credo che i crimini di guerra vadano perseguiti tutti e possibilmente da una giustizia indipendente e internazionale. Però, dobbiamo stare anche attenti, perché il marketing della guerra ci vuole far credere che tutto sommato questo conflitto sia una specie di autostrada dove se vai nei limiti di velocità sei in regola, se superi il limite di velocità sei un criminale. Non è così: la guerra è tutta un crimine, perché ci sono tanti episodi e tanti esempi in cui vengono massacrati civili, eppure non costituiscono crimini di guerra. La guerra è un crimine collettivo che partorisce, troppo spesso, crimini individuali.
Nico Piro presenterà «Maledetti pacifisti» martedì 28 marzo alle 20.30 in Sala Galmozzi (Via Tasso 4, Bergamo). L’ingresso è libero e gratuito.