Herman Hesse diceva che ogni umorismo superiore comincia dal prendere in giro la propria persona. Questo aforisma è perfetto per sintetizzare lo spirito di Max Angioni, classe 1990. Per lui quello del comico non è solo un lavoro, ma uno strumento che gli consente – fin da quando era un ragazzino – di trovare le risposte, alleggerendo la vita di quel peso che si portano dentro quelli che proprio non riescono a smettere di farsi domande. Ma solo per un minuto, giusto il tempo di una risata.
Immaginate di tornare a casa stanchi la sera, dopo una lunga giornata di lavoro. Vi sdraiate sul letto nella vostra stanza che odora di caldo e stanchezza. Accendete la tv e trovate una trasmissione televisiva in cui si esibisce un ragazzo che indossa una felpa e ha una pettinatura buffa. È un comico che si prende gioco dei talent, del successo che dura il tempo di un secondo, dei meccanismi che trasformano i giovani in carneficina per questi schemi guidati dalla logica del trash che fa audience.
Però ti fa ridere. Ti fa ridere il suo volto pulito, la sua faccia buona, ti fa ridere la sua goffaggine ricercata, voluta ed enfatizzata. Per un attimo ti dimentichi della tua giornata, della stanchezza e ridi insieme ad un ragazzo che ha avuto l’ingegno di mettere sul piatto le sue insicurezze, le preoccupazioni della nostra generazione. E di rendere accessibili e comprensibili anche quelle storie che sembrano lontane anni luce, ma che in realtà sanno essere più affascinanti di quanto sembra. Basta solo sapergli dare la giusta interpretazione…
Angioni sarà il 18 luglio a «Lazzaretto Estate 2022», qui i biglietti.
CP: Nella prima puntata di Italia’s Got Talent hai portato un monologo in cui parli di Gesù e delle Sacre Scritture. Come ti è venuta l’idea di trasformare la Bibbia in una puntata di Dragon Ball e che rapporto hai con la religione?
MA: Io ho fatto il catechismo, andavo all’oratorio e sono cresciuto a Sagnino, un quartiere di Como, nel quale, per darti un’idea, la chiesa è grande quasi quanto il paese. La religione era molto centrale nella mia vita quando ero piccolo. E diciamo che l’idea di inserire Dragon Ball ma anche gli Avangers nel Vangelo mi è venuta durante la pandemia, in un periodo nel quale avevo molto tempo libero per pensare. Quello che si è verificato non è altro che un esempio di scrittura creativa, nella quale mi sono posto una domanda: «cosa avrebbe dovuto fare Gesù per colpire un ragazzo della mia età?».
CP: E come ti sei risposto?
MA: Calcola che quando leggevo le Sacre Scritture che parlavano di resurrezione e quant’altro, io pensavo nella mia testa a robe potenti. L’acqua in vino mi sembrava relativamente poco per uno che poi sull’acqua ci cammina. Quindi se avessi dovuto immaginare una roba ai giorni nostri avrei pensato sicuramente ad un Gesù che si trasforma in Super Sayan. Poi man mano l’ho modificato perché sembrava una roba un po’ di nicchia e ci ho inserito anche Iron Man e tutti i riferimenti ai film americani. Ho attualizzato la Bibbia proprio per un bisogno mio di cercare di capire come poteva adattarsi al nostro tempo.
CP: Tra le varie esperienze televisive che hai fatto qual è quella che ti ha fatto crescere di più?
MA: Ognuna mi ha dato qualcosa di diverso. Le Iene, per esempio, mi ha consentito o meglio mi ha costretto a scrivere ogni settimana cose nuove e sull’attualità, che era una cosa un po’ fuori dalle mie corde. Quindi è stata un’esperienza che mi è servita come palestra per uscire dalla mia comfort zone. LOL mi è servito per capire quanto fossi ancora indietro rispetto a mostri sacri come Virginia Raffaele, Corrado Guzzanti, Il Mago Forest, che mi ha attribuito il ruolo del bullizzato, molto sapientemente.
CP: Una bella palestra…
MA: Ho percepito lo stacco con questi professionisti che hanno ore di repertorio sempre pronto. Virginia Raffaele può interpretare quattro personaggi cambiando solo l’impostazione del corpo. Zelig è stato formativo perché lì sono nati praticamente i pezzi che porto in tour. Poi essere lì in prima serata su canale 5 davanti a 2500 persone presentato da Bisio e Vanessa Incontrata con Raoul Cremona che si esibisce prima di te e Teo Teocoli che ti succede, a livello di stress è una bella botta ed è un bel gradino da superare.
CP: Qual è stata la tua reazione quando ti hanno chiamato per fare LOL?
MA: Guarda, io onestamente non me lo aspettavo proprio. Ho fatto un colloquio e mi hanno detto che avrebbero chiuso i casting il 30 giugno. Quindi ho aspettato fino al 29, è arrivato il 30. Il 1° luglio mi sono detto: «mi metto l’anima in pace». Finché il 6 luglio non ho ricevuto la chiamata di Daniela, la mia agente di allora che mi fa: siediti, ti hanno preso a LOL. Da quel momento ho avuto dieci minuti di euforia pura, lanciavo oggetti in casa, saltavo, mi sembrava al di là di quello che potesse capitarmi. Poi ho passato i successivi quattro mesi, prima della puntata, non in panico ma con una sensazione molto vicina al panico. Comunque si tratta del programma comico più atteso dell’anno, quindi c’era tanta pressione. Dopodiché ho fatto il programma quasi senza neanche rendermene conto. Fino alla messa in onda ho passato altri mesi di ansia perché sono uscito per secondo.
CP: Poi nel montaggio di Prime sei uscito alla penultima puntata, non è andata poi così male. Senti, l’autoironia è una componente fondamentale della tua comicità. Che tipo di persona sei quando scendi dal palco?
MA: Non sono molto diverso, perché la ricerca dell’ironia è stata all’inizio uno strumento di difesa. Diciamo che alle elementari e anche alle medie ero un ragazzino basso, non ero propriamente un figo. E quindi gli altri bambini mi prendevano un po’ in giro. Per dire, l’unico mezzo di difesa per ribaltare questa situazione era l’ironia: «le cose che tu sottolinei io le ho già viste e le trasformo così». È come se fossi affezionato a questa coperta che è diventata un muro di gomma che para tutto, tanto da far sì che niente ti possa colpire.
CP: Che rapporto hai con i social? Ti è mai capitato di leggere dei commenti o delle critiche che ti hanno infastidito?
MA: Nello spettacolo leggo dei commenti che ricevo sui social e anche lì torna in campo l’ironia. Perché parto dal presupposto per cui quando fai questo mestiere e fai intrattenimento ti esponi inevitabilmente ad un pubblico che può e deve esprimere un’opinione. Questo può essere negativo o positivo. Ognuno è libero di dire quello che vuole. Bisogna poi identificare l’origine della critica: un conto è quando proviene da un tuo collega, un conto è se la fa un assicuratore. Le persone ci mettono due secondi a buttarti giù e non aspettano altro. Quindi tutto sta nel saper mantenere la giusta distanza.
CP: Qual è il complimento più bello che ti hanno fatto, rispetto al tuo lavoro?
MA: Mi rende felice quando le persone mi dicono che vivono periodi difficili ma mi ringraziano perché riescono a tirarsi su. Penso che sia un po’ questo il senso del lavoro per chi fa il comico. Ridere è una necessità, come mangiare. La gente ha bisogno di trovare dei modi per allentare la tensione e sapere di riuscire a restituire questo mi dà soddisfazione.
CP: Cosa ti fa ridere e cosa ti fa piangere?
MA: Considera che le risate migliori me le sono fatto quando andavo al liceo. Quando c’erano dei tempi morti o quando la situazione imponeva serietà, io ridevo fino alle lacrime, trascinando nel baratro anche i miei compagni. Mi fanno ridere le situazioni, le sciocchezze, la complicità tra due amici che si conoscono da sempre e riescono a ridere con la complicità di uno sguardo. Poi ci sono due cose che mi commuovono: i cani e il rapporto padre figlio.
CP: Ti va di parlarne?
MA: Beh, io sono figlio unico quindi tutte le vicissitudini familiari le ho vissute da solo, da piccolo è stato difficile. La relazione genitoriale è un nervo scoperto per me, io ho un bel rapporto con entrambi ma ne abbiamo passate un po’ ed è difficile ancora adesso metabolizzare certe situazioni.
CP: A chi ti ispiri e chi stimi nel panorama odierno?
MA: Il mio modello è Ricky Gervais per quanto riesce a fare nei suoi spettacoli, per come riesce a farlo, con la sua unicità. Certo ci sono altri giganti, come Kevin Hart: cito loro perché a livello di industria sono quelli che ne sanno più di tutti. In Italia c‘è Lundini che mi fa impazzire o anche Fabio De Luigi, Albanese ma se devo pensare a uno che sicuramente ha tratto il massimo da questa cosa, sicuramente ti dico Gervais, su tutti.
CP: Visto che c’è tanta concorrenza in giro, qual è la strategia secondo te, per mantenere il successo nel tempo?
MA: Secondo me il successo non dipende solo da te. Quando ho partecipato a LOL sono stato scelto, non ho sconfitto nessuno. Far bene il tuo lavoro dipende unicamente da te che scrivi. La base di tutto è te che ti metti nel buio della tua cameretta e scrivi i tuoi pezzi. E poi il lavoro premia. Perché fai uno spettacolo, la gente viene al tuo spettacolo e ce ne sarà un secondo e poi un terzo.
CP: Qual è la parte più difficile del tuo lavoro e cosa avresti fatto se non avessi fatto il comico?
MA: Io voglio fare questo mestiere da sempre. Prima facevo l’attore e spettacoli per bambini. Erano lavori occasionali, quindi non so se avrei avuto la stessa costanza con un’altra professione. Invece, una delle cose più complicate da gestire nel mio lavoro sono sicuramente le serate. Scrivere e provare in ambienti protetti dove la gente paga per vederti è divertente. La vera prova sono le convention o gli spettacoli in piazza dove la gente non ti conosce e devi ripartire da zero, costruirti la loro fiducia, attirare la loro attenzione e non è sempre una passeggiata.
CP: Il personaggio di Kevin Scannamanna è uno dei più divertenti. Qual è la critica che si nasconde dietro?
MA: La facciata che passa in televisione è quella di un ragazzo in tuta, ansioso, che vomita. In realtà nella mia vita ho visto tantissimi talent e io stesso provengo da un talent. Ma questi format hanno creato l’illusione ai ragazzi che basta partecipare per dimostrare di avere un talento. Il punto è che ci sono persone che coltivano una passione e che anche se non passano nel talent faranno quello nella vita. Ce ne sono poi altre che magari hanno cantato tre volte e pretendono di mangiarsi il palco, ma non è così che funziona. Questo ragazzo che porto sul palco ha un talento che non sa neanche bene quale sia. Ma forse la questione è che il talento non esiste se non ci lavori. E Kevin è così agitato che dice anche frasi sconclusionate: sono cittadino del mondo ma ancorato alle mie radici, nel senso che vivo ancora coi miei. Lui crede molto in sé stesso? Il fatto che sia una domanda crea una contraddizione. Quindi la mia vuole essere una critica all’illusione del successo istantaneo conclamato da tutti i talent.