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«Martin Luther King non è una mummia». Ce lo racconta (in musica) Paolo Naso

Intervista. Ascoltare le parole del reverendo King per apprezzarne tutta la straordinaria forza, con la colonna sonora di quegli anni, da «We Shall Overcome» a «The Times they are a-changin». È l’opportunità offerta dall’incontro «Martin Luther King: una storia americana», all’interno della rassegna «Molte fedi»

Lettura 3 min.
Martin Luther King in un’immagine d’archivio della Marcia su Washington (ANSA)

Una lezione-spettacolo che esce dagli schemi accademici per provare a tracciare un ritratto vivo e autentico di Martin Luther King. L’appuntamento è per domenica 16 ottobre alle 20.45 presso la Chiesa di San Andrea in Città Alta (via Porta Dipinta 39), nell’ambito della rassegna «Molte fedi sotto lo stesso cielo», in collaborazione con la Federazione Universitaria Cattolica Italiana (ingresso gratuito, con prenotazione a questo link).

Protagonisti dell’incontro Paolo Naso, che insegna Scienza Politica presso l’Università La Sapienza di Roma, coadiuvato da Alberto Annarilli, maestro di coro ed etnomusicologo, e dalla cantante Elisa Biason, che ricostruiranno la straordinaria “colonna sonora” di quel periodo.

Paolo Naso è l’autore di «Martin Luther King. Una storia americana» edito da Laterza, che ricostruisce l’azione di King all’interno della storia americana e del movimento dei diritti civili. Un libro che è una sorta di capitolo finale di uno studio ventennale sul tema e che è il fondamento da cui verrà tratto l’incontro di venerdì.

MM: Come nasce questo spettacolo musicale dedicato al reverendo King?

PN: Volevo uscire dallo schema tradizionale di presentazione, quindi ho scritto il testo di questo racconto attoriale, che ha come punto di forza l’eccezionale colonna sonora: dai “negro spiritual” ai canti di protesta degli Anni ‘60 – Joan Baez e Bob Dylan per citare i più famosi – ai canti religiosi, alle ballate che hanno reso universale questa storia di liberazione. La lezione è intervallata dai canti suonati da Annarilli e Biason. Io interpreto alcuni brani tratti dai discorsi di King, cercando di restituire il loro tono caloroso ed empatico, e li spiego.

MM: Il pensiero va subito al celeberrimo «I have a dream». È quello l’apice di King?

PN: Diciamo che è l’apice del suo consenso. La storia che non tutti conoscono è che la formula di «I have a dream» era già stata usata, si tratta di formule retoriche che – da esperto oratore quale era – sapeva tirare fuori all’evenienza. Riguardando i filmati, si nota come King leggesse, ma poi su suggerimento di Mahalia Jackson («Martin, parlagli di quel sogno!») abbia cominciato ad andare a braccio. Un discorso molto simile lo aveva già pronunciato a Detroit, due mesi prima della marcia su Washington, il 28 agosto 1963.

MM: Nel racconto della lotta per i diritti civili, vengono sempre contrapposte le figure di Martin Luther King – buono, ecumenico, ragionevole – e quella di Malcolm X – cattivo, settario, islamico. Cosa c’è di vero?

PN: Sono due grandissimi leader con storie personali molto diverse. King è figlio del Sud agricolo, nasce in una famiglia della buona borghesia nera, in una famiglia di predicatori battisti. Malcolm Little – che poi cambierà nome in X in omaggio agli schiavi anonimi deportati dall’Africa – è un «gatto di strada», come si definisce lui stesso, e vive la segregazione delle grandi metropoli del Nord, dove inizia una piccola carriera criminale che lo condurrà in carcere, dove conosce la Nation of Islam e cambia vita. Hanno strategie diverse e biografie diverse, ma la loro radicale contrapposizione non trova riscontro nella storiografia moderna. Malcolm X, dopo il pellegrinaggio alla Mecca, dove entra in contatto con un Islam multirazziale, diventa molto meno settario e si apre alla collaborazione con i bianchi. King, in particolare dopo il ‘65, prende coscienza dell’ingiustizia strutturale della società americana, arriva l’opposizione netta alla guerra in Vietnam e la rottura frontale con il presidente Johnson, che pure aveva supportato il diritto di voto garantito per i neri.

MM: Martin Luther King è entrato nel Pantheon della storia americano, con tanto di giorno di festa nel «Martin Luther King Day», il 16 gennaio. Non c’è il rischio di farne un santino?

PN: Lo hanno trasformato in una mummia. Il «Martin Luther King Day» ritengo sia un pessimo servizio che gli è stato reso dal presidente Reagan. Un conservatore che non ha adottato nessuna politica a favore degli afroamericani, tagliando anzi il welfare, ma che si è fatto un’immagine benevola a costo zero con questo “gettone”, il classico gesto simbolico che non costa nulla. Altro pessimo servizio reso a King è il suo monumento a Washington: primo perché molto brutto, secondo perché lo mostra da solo. Questo è storiograficamente, politicamente ed eticamente sbagliato. Come disse Ella Baker: «Penso che il movimento abbia creato Martin, piuttosto che Martin abbia creato il movimento, e non è un discredito per lui».

MM: Insomma, Martin Luther King non è una figura così “istituzionale”.

PN: King va considerato nella completezza del suo ministero, dalla Montgomery degli anni ‘50 alla lotta contro la guerra del Vietnam. King è spesso associato alla desegregazione e per questo vince il Nobel, ma c’è un Martin ancora oggi scomodo, che parla di «incubo americano» e vede che le promesse sancite dalla Costituzione non sono mantenute, e denuncia non solo la patologia del razzismo ma la sua genesi. Il tema della pelle è un tema che incide sul piano economico e sociale, in un intreccio di militarismo, razzismo e povertà.

MM: È difficile, per noi europei, capire fino in fondo la portata della questione razziale negli Stati Uniti?

PN: Per noi, «razza» è una parola impronunciabile, perché è la categoria non scientifica su cui si è costruito il mostro del XX secolo. L’America ha vissuto un altro tipo di razzismo: la segregazione, e questa parola descrive chiaramente l’esperienza di milioni di persone. Il fatto che uno dei principali movimenti attivi oggi si chiami «Black Lives Matter» mostra come per il soggetto pubblico la questione della razza resti al centro della vita pubblica.

MM: Da dove nasce il suo interesse per King?

PN: Ero un ragazzino di 11 anni quando appresi la notizia dell’assassinio di Martin Luther King. In casa mia, fu come una bomba. Mio padre, pastore della chiesa valdese, disse: «è tutto finito». Negli anni, ho cercato di dare un’interpretazione storiografica: è davvero tutto finito? È una passione che si mescola con la mia coscienza civile. Alcuni temi sono quelli dell’America di oggi, che si interroga sulle relazioni internazionali, sulla giustizia sociale, e ancora e sempre sul tema della razza.

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