Faccio parte di quella categoria di persone che usano l’aggettivo “mitico” con una certa facilità. Forse è un rimasuglio dell’infanzia, o l’eco del “mitico” di Homer Simpson, oppure ancora lo sdoganamento della parola mito portato da una canzone generazionale (almeno per chi è nato negli anni ’80) come “Sei un mito” degli 883 – a cui mi piace pensare che De Gregori abbia risposto qualche anno dopo con un brano intenso e visionario come “L’aggettivo mitico”.
Sia quel che sia, la parola mito oggi subisce uno dei tanti svuotamenti di significato portati dall’eccesso di comunicazione del contemporaneo. “Mito”, “mitico”, “mitologia” sono termini volgarizzati, che dicono molto meno di quello che potrebbero e sono entrati nel linguaggio comune, indeboliti e stanchi come tutte le parole che costituiscono una frase fatta (“Sfatare un mito”) o ingenerano una retorica.
La volgarizzazione della parola “mito” è un sintomo del nostro tempo, dove sembra che i miti siano spariti e se ci sono rispondono ai nomi di calciatori, cantanti, star del cinema, rivoluzionari e innovatori (Che Guevara negli anni Sessanta, Steve Jobs oggi). Ma i miti, quelli che superano lo spazio e il tempo, tradizionali e futuribili insieme, esistono ancora. Magari vengono adombrati da alcune mitologie del presente (il denaro, il successo, la tecnologia quando diventano unici generatori di valori), eppure pulsano ininterrotti i loro significati e irrorano il mondo di senso, basta saperli cogliere. Così almeno la pensa Marcello Veneziani, giornalista e intellettuale che venerdì 8 novembre sarà a Seriate per il festival Presente Prossimo, portando proprio la parola “mito” nella sezione Alfabeto del presente (Teatro Aurora, ore 20.30, ingresso libero).
Veneziani, classe ’55, pugliese è uno dei pochi pensatori di destra del nostro Paese: per anni in quota AN, è stato anche nel cda della Rai durante uno dei governi Berlusconi. L’etichetta di “intellettuale di destra” non gli ha portato fortuna, sia perché la destra italiana ha un problema culturale fortissimo che relega in disparte i suoi (pochi) intellettuali a favore di Capitani e tycoon, sia perché in Italia essere un intellettuale senza patente a sinistra significa essere spesso fuori dai giri giusti.
Eppure Veneziani è un pensatore coraggioso, che si muove agilmente tra figure più o meno vicine a lui (da Evola a Gramsci) e in un suo libro intitolato “Alla luce del mito” (Marsilio) affronta la questione mitologica con piglio aforismatico e un ricorrente afflato poetico. Chi lo approccia con il filtro dell’ideologia si perde qualcosa di importante che merita una riflessione, anche se non tutto quello che dice è condivisibile.
Al di là però di patenti ed etichette il punto è un altro: come mai abbiamo bisogno di miti? Per capirne di più, anche a fronte della lettura del volume, ho chiamato Veneziani e gli ho fatto qualche domanda, partendo proprio dal perché. “Il mito fa parte di noi, è una dimensione costitutiva della nostra anima. Senza il mito non ci sarebbero l’arte, la religione, la cultura, anche la politica. Il mito ci accompagna dall’infanzia, un’età mitica che con gli anni diventa nostalgia, e segna i passaggi più importanti delle nostre vite. La nascita e la morte prima di tutto”.
L’inizio, la fine e tutto quanto sta nel mezzo e attraversa quella che Max Weber chiamò Entzauberung der Welt, l’epoca del disincanto, cioè il nostro tempo. In cui, scriveva l’economista tedesco, l’uomo ha la possibilità di “dominare tutte le cose mediante il calcolo”, in modo che l’individuo “non deve più, come il selvaggio ricorrere a mezzi magici per dominare o per ingraziarsi gli spiriti. Ma può sfruttare il calcolo e le risorse tecniche”.
Insomma un mondo profondamente scientifico, matematizzato e tecnico, dove il mito viene demitizzato, ma non del tutto secondo Veneziani: “La scienza chiarisce l’oscurità dei misteri del mondo, sposta i confini dell’ignoto più in là. Ma non risolve il mistero: la scienza nasce dal mito e al mito torna, fra questi due punti c’è un qualcosa di inconoscibile che solo il mito può illuminare”.
La luce del mito illumina il mistero, tuttavia sa anche abbagliare. Accade “quando il mito viene separato da un’analisi critica di se stesso. Allora nasce un accecamento della realtà che è il fanatismo religioso, politico o individuale, la mitomania”.
Mentre illumina, inoltre, il mito lotta con i mitoidi, surrogati del mito “che sono miti contraffatti, falsi miti di cui siamo ostaggi. Prima di tutto la tecnica, rappresentata dal mito di Prometeo”. E poi “Hermes, il messaggero degli dei, padre mitologico del web, e Dioniso, dio del viagra e del prozac”. Come scrisse Bataille “Non voglio che ubriacarmi, vivere […]. Non voglio più avere altra passione che la mia vita libera, la mia danza aspra, spasmodica, indifferente ad ogni ‘lavoro’”. Ed è questa l’impronta del presente, spiega Veneziani, “pieno di narcisi che si vivono addosso, senza impegni di durata, di pensiero, di prospettiva”. L’unica prospettiva è la trasformazione, per cui nella visione del giornalista è il mito di Proteo, cioè di colui che si trasforma incessantemente, la raffigurazione del nostro tempo: “Siamo nell’epoca della trasformazione genetica e del corpo, è bello tutto ciò che si trasforma, la nostra è un’epoca proteiforme. La scienza e la tecnica ci stanno portando dal prometeismo al proteismo. Ciascuno di noi rifiuta la natura, la propria identità e assume la forma che desidera”.
Eppure “prospettiva”, intesa come possibilità di trascendere il presente e percepire un qualcosa che sia oltre il quotidiano, è forse la parola chiave dell’analisi di Veneziani. “I mitoidi non hanno una dimensione sovratemporale, guardano sempre a un eterno presente. Il mito invece travalica il qui e ora, ma soprattutto non è mai individuale. Ogni mito autentico ci fa uscire dalla nostra dimensione solipsistica e ci riporta alla collettività”. Laddove ci sono il bene comune, la solidarietà, le radici e la possibilità di futuro.
Per questo il mito se da un lato alimenta la religione e la politica – iniettando nella cultura e nell’arte la propria orma – dall’altro è un elemento costitutivo della civiltà. “Senza mito una civiltà non regge, è il mito che le dà spessore. Per sopravvivere e prospettare un futuro abbiamo bisogno di credere in un altrove”. Quindi abbiamo bisogno di generare dei miti: “No, i miti ci sono da sempre e sempre ci saranno. Si rigenerano e assumono nuovi significati. Quello che manca oggi è la consapevolezza: dobbiamo tornare a riscoprire i miti per riconquistare quella dimensione dello spirito che stiamo perdendo sempre di più. Siamo persi, spaesati, liquidi come diceva Bauman, addirittura aeriformi se non riconquistiamo le cose fondamentali”.
Eccola qui la condizione umana, che Veneziani racconta indicando con il dito quegli interstizi della realtà che bisbigliano del nostro essere al mondo mitologicamente. Così alla fine mi tornano in mente i “tappetini nuovi” e l’“Arbre Magique” di Pezzali, l’ottusa espressione di stupore di Homer e più di tutti quell’aggettivo mitico cantato da De Gregori. L’immagine di “Uomini nella polvere di una cometa, / uomini nella rete senza una meta” decisamente bisognosi di mito.