Appena arrivata sul luogo di ritrovo, fatico a mimetizzarmi nella folla: i miei jeans e le sneakers cozzano con i vestiti colorati delle donne (i famosi saree) e le ampie tuniche degli uomini (chiamate bana). Mentre osservo la gente intorno a me – che a sua volta mi guarda con fare interrogativo – mi viene incontro Gurpreet, con un turbante blu, la barba lunga e un grosso sorriso. Mi accoglie scalzo e con le mani giunte: «Benvenuta al Gurdwara» mi dice, specificando che si tratta di uno dei tempi Sikh più grandi d’Europa. «Questo è il luogo di culto della nostra comunità: ci troviamo per pregare, ma anche per stare in compagnia o riposare. Se qualcuno ha bisogno, a qualunque ora del giorno, il tempio è aperto. A tutti». Le sue parole mi tranquillizzano: mi sento un po’ meno “intrusa” e gli sguardi intorno mi sembrano d’improvviso più accoglienti e curiosi.
Quasi rispondendo al mio spaesamento iniziale, Gurpreet comincia subito a spiegarmi dove mi trovo, puntando il dito in alto: «Sui Gurdwara di ogni villaggio dell’India, e quindi anche qui, si issa sempre la Nishan Sahib, una bandiera di color arancione e con la spada a doppio taglio, che simboleggia la relazione del potere temporale e di quello spirituale nel modo di vivere Sikh».
La concretezza del Sikhismo – mi informo in seguito – deriva dal messaggio originario di Nanak Dev Ji, il fondatore della religione monoteista indiana e noto come “il primo guru”. Egli, più di 500 anni fa, disse di voler meditare senza però rinunciare alla società per raggiungere Dio e, per questo, prosegue Gurpreet: «i principi fondamentali per i fedeli Sikh sono lavorare e comportarsi onestamente, portare avanti la famiglia e non rubare; pregare Dio e infine condividere la propria paga con i bisognosi». Il messaggio di Nanak all’epoca era così rivoluzionario da essere irrealizzabile in una sola vita e così, dopo di lui, si susseguirono altri 10 guru, finché venne nominato come ultimo successore il Granth Sahib ji, cioè il Libro Sacro. «Corpi diversi, stessa anima» commenta la mia guida, aggiungendo che la Lettura, considerata oggi l’unico ed eterno guru, si trova proprio all’interno del Gurdwara, verso cui ci incamminiamo.
Prima di entrare nel luogo sacro, Gurpreet mi invita a togliere le scarpe e a coprirmi il capo con un velo. All’ingresso c’è un gran fermento: giovani, anziani, uomini, donne si dirigono veloci verso la sala centrale, chiamata darbar, dove si recitano le preghiere. Nella confusione, noto una piccola stanzetta con una finestra, da cui vedo spuntare tante piccole teste: sono quelle dei giovani Sikh di seconda generazione, tutti seduti per terra e divisi in gruppetti attorno ad alcune donne. Scopro da Gurpreet che si tratta di una scuola, gestita su base volontaria da alcune maestre: «ogni domenica, ci sono le classi in cui i Sikh dai 5 ai 14 anni imparano la lingua punjabi e le basi del Sikhismo». La maggior parte dei Sikh infatti proviene dal Punjab, una regione a nord dell’India, dove nacque il primo guru e venne fondata la religione.
Entrando nella piccola aula, mi accorgo che è più affollata di quanto pensassi, con più di 30 alunni per 4 insegnanti. Anche lì, sono tutti molto indaffarati: qualcuno corregge i compiti, qualcun altro legge una storia agli alunni più piccoli, alcuni sono semplicemente in ascolto. «Il grande fermento è dovuto alla preparazione del Gurmat gyan mukable, l’esame previsto a luglio in cui si chiederà agli studenti che cosa hanno imparato durante l’anno» mi suggerisce una maestra.
Decido allora di fare qualche domanda ai giovani studenti e ricevo solo risposte entusiaste. «Ci piace venire qui a studiare la nostra lingua, è un modo per non perdere le nostre origini» mi spiega un bambino di sei anni con un grosso turbante sul capo che gli dà un’aria già da adulto. «Non tutti gli indiani che conosciamo vengono a scuola qui nel Gurdwara. Noi li chiamiamo “indiani fake”, perché non sanno la loro stessa lingua!» sghignazza un’altra bimba dallo sguardo vispo e divertito. «Dopo le 16, qui ci sono le lezioni di musica, perché le preghiere Sikh vengono recitate anche con il canto, il Kirtan» aggiunge un altro bimbetto dagli occhi scuri.
Vedendomi interessata, un alunno mi porge con fierezza un libretto su cui stava studiando la «storia, verità e mistero del turbante» e mi legge qualche riga. Un suo amico invece mi confida che a scuola, quella italiana, lo scelgono sempre per ultimo ad educazione fisica «solo perché sono un po’ scarso». I bambini attorno a me aumentano, ma per me è giunto il momento di proseguire quel giro di scoperta. Così, lascio alle spalle la classe colorata e torno da Gurpreet che, paziente, mi stava aspettando.
Uscita dall’aula osservo la parete di fronte a me, colma di fotografie. «Sono i nostri martiri» commenta la mia guida, raccontandomi i contrasti fra il movimento separatista dei Sikh e il governo di New Delhi, aggravati soprattutto dopo i primi anni 80. «Nel 1984 ci fu la famosa operazione militare “Stella blu”, in cui persero la vita migliaia di Sikh. Alcuni hanno definito quell’episodio un vero e proprio “genocidio” da parte del governo indiano». Da allora, seguirono numerosi altri soprusi che costrinsero gran parte degli abitanti del Punjab a migrare in Europa continentale e poi in Italia. «Oggi i Sikh in India sono solo il 2% della popolazione» conclude il mio interlocutore, con tono mesto.
Dopo la parentesi storica, ci avviciniamo all’entrata della sala principale, dove il Granthi, cioè il curatore del Libro Sacro, che può essere sia un uomo che una donna, stava compiendo il servizio divino quotidiano. All’interno del darbar, ci imbattiamo subito nella libreria del centro dove si possono acquistare non solo volumi, ma anche dei grossi bracciali di ferro. «Si tratta del karha, uno dei cinque simboli che ogni Sikh deve indossare – mi spiega Gurpreet – Ci è stato comandato di tenerlo sulla destra per ricordarci di non fare mai niente di male con queste mani».
Incuriosita, chiedo quali siano gli altri simboli, conosciuti come le “cinque k” (kakar). Mi risponde che per prima cosa c’è kesh , ovvero i capelli: «sono un dono della natura e parte del corpo. Tagliarli sarebbe contro la volontà di Dio. Per questo poi è importante proteggerli con un turbante». Una volta, solo i sovrani musulmani potevano indossarlo sul capo, finché il Guru Hargobind Sahib ji sfidò l’imperatore Zhahanghir, mettendosi addirittura un doppio turbante e testimoniando così il messaggio centrale del Sikhismo: l’uguaglianza tra i fratelli. «Il turbante è come una corona, un modo per dire che ognuno è re di stesso e che siamo tutti uguali» conclude il mio cicerone. Apprendo poi che, sempre in quest’ottica, nel XVII secolo, quando il decimo guru inaugurò la comunità Sikh (il Khālsā), ordinò che tutti i fedeli dovessero avere lo stesso cognome: Singh (“leone”) per gli uomini e Kaur (“principessa”) per le donne. In un’India rigidamente suddivisa in caste, avere lo stesso cognome significava essere tutti uguali e fratelli, a prescindere dal censo e dal sesso.
Il mio interlocutore prosegue con la spiegazione dei rimanenti simboli: kanga , ovvero il pettine di legno –simbolo di potenza – da utilizzare due volte al giorno per la pulizia dei capelli; kashera, cioè una sottoveste intima che simboleggia la fedeltà dell’uomo e della donna; e infine kirpan, il pugnale o la spada, portato solo dai battezzati. «Un Sikh è un santo ma è anche un soldato – precisa Gurpreet su quest’ultimo punto –Se davanti a noi succede un’ingiustizia, non la possiamo trascurare, ma dobbiamo agire per difendere i deboli».
Mentre mi venivano mostrati gli oggetti elencati, la gente intorno a noi cominciava a lasciare la sala: era l’ora del pranzo. Infatti: «Hai fame? Ti porto nella nostra mensa» propone subito Gurpreet, conducendomi verso il langar, la cucina della comunità Sikh. «È un servizio gratuito gestito da volontari per tutti i fedeli e gli ospiti del Gurdwara. Il pasto comunitario è una parte fondamentale della cerimonia religiosa» mi anticipa. Anche quell’usanza, istituita dal guru, fu rivoluzionaria rispetto all’assetto sociale, culturale e religioso dell’epoca. Il Sikhismo rinnegava le caste anche a tavola, come mi conferma Gurpreet: «tutti i fedeli, che siano contadini o re, dovevano, come oggi, mangiare seduti per terra, allo stesso livello, lo stesso cibo».
Entriamo allora nella mensa, cercando di farci strada fra chi è già seduto in attesa di essere servito, chi sta andando a lavare i piatti e chi a portare l’acqua ai commensali. «Quando arriva il chapati, il nostro “pane”, noi la prendiamo con entrambe le mani. È un modo per ringraziare» mi istruisce la mia guida, prima di andarsene per sbrigare alcune faccende nel suo ufficio. Rimango allora in compagnia di alcune donne, con cui commento la bontà del pranzo, a base di zuppa di lenticchie (chiamata dahl), tofu al curry e una specie di polenta dolce.
Non tutte le mie interlocutrici sanno l’italiano. Se ne accorge una ragazza seduta di fronte a me che, con un’inflessione bergamasca, prova a fare conversazione, nonostante il continuo via vai di persone in mezzo a noi. «A casa di solito cucinate cibo indiano o italiano?» cerco di chiederle e la sua risposta arriva forte e chiara: «indiano! Siamo abituati così, anche perché noi non mangiamo né carne, né pesce né uova, quindi a volte è più semplice utilizzare i nostri alimenti». In quel momento una donna vestita in giallo si siede a fianco a me e, dopo qualche timido sorriso, scopro con stupore che si tratta di una mia compaesana, arrivata in Italia tanti anni fa, ora madre di due bimbi. Il pranzo prosegue allora con bis di chapati e di acqua, per stemperare il piccante dei legumi, e qualche chiacchiera fatta per lo più con gli sguardi.
A fine pasto, mi dirigo come tutti verso la zona della sala adibita al lavaggio. Lì mi accolgono due uomini, i primi della perfetta catena di montaggio organizzata per pulire al meglio le stoviglie. «Ti è piaciuto il cibo indiano?» mi chiede uno dei due mentre continua a lavorare veloce; «torna quando vuoi!» gli fa eco un altro, dalla barba più grigia, «noi siamo qui tutte le domeniche!». Nel frattempo, alcune ragazze impiegate nel risciacquo notano la mia presenza e una di loro si avvicina per rispondere alle mie curiosità. Proprio lei, nata in Italia da genitori indiani e ora studentessa universitaria a Bergamo, mi confida timidamente: «io non so se sentirmi indiana o italiana. È difficile “definirsi”, per noi stranieri di seconda generazione. I miei genitori invece si sentono 100% indiani, anche se vivono da tanto tempo qui in Italia». Il suo è un sentimento che anche altre sue coetanee mi confermano, mostrandomi un aspetto comune tra i giovani stranieri, a prescindere dalla comunità di appartenenza.
Concludo il mio giro, uscendo dal langar e torno al punto di partenza, all’ingresso del Gurdwara. Lì incontro per caso Satwinder Singh, il vice presidente della comunità, vestito con il chola , l’abito azzurro tradizionale utilizzato anche dai soldati Sikh. Con lui, ripercorro alcune tappe della storia della sua comunità: dal dominio dei Moghul a quello degli inglesi, dai sacrifici dei loro antenati, uccisi perché richiedevano dei diritti, agli stereotipi di oggi, che talvolta colpiscono ancora gli indiani Sikh. «Un messaggio che vorrebbe lasciare ai bergamaschi?» chiedo prima di salutarlo e ringraziarlo per l’accoglienza. «Che ci sia sempre un clima di accoglienza e di incontro, anche con le scuole. Solo con la conoscenza si superano i pregiudizi».
(Tutte le foto sono di Federica Pirola)