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Lucia Vantini: «la verità accade quando una differenza è riconosciuta e salvata»

Intervista. Filosofa e teologa, sarà martedì 22 novembre, alle 20, a Bergamo, presso l’Auditorium del Liceo L. Mascheroni (via Alberico da Rosciate, 21/A), approfondendo per «Noesis» il tema «Verità ai margini: vulnerabilità, fragilità e pensieri differenti». L’abbiamo intervistata: «I momenti di verità accadono quando il mondo si rivela e si scopre che c’è altro, quando si danno risonanze tra gli esseri viventi»

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(foto Divine Effiong on Unsplash)

L’edizione 2022-2023 di «Noesis», il corso di filosofia che da ormai trent’anni sonda – ospitando filosofi e studiosi di grande rilievo – le più differenti questioni della filosofia, quest’anno si concentra sul tema della «verità», con il titolo «I sentieri della verità. Logos, scienza, fede, mithos».

Un tema complesso e sfaccettato, che viene affrontato da diversi punti di vista, in un percorso che è iniziato mercoledì 9 novembre con la conferenza di Massimo Cacciari e si concluderà martedì 18 aprile con l’intervento di Carlo Sini e Florinda Cambria (a questo link trovate tutto il programma; è possibile partecipare a tutte le serate diventando soci o ad una singola serata compilando una scheda di partecipazione con i propri dati – nome, cognome, indirizzo di abitazione e mail – all’indirizzo [email protected]).

Lucia Vantini approfondirà il tema «Verità ai margini: vulnerabilità, fragilità e pensieri differenti». Vantini è Docente di Teologia e Antropologia all’ISSR San Pietro Martire e di Antropologia Filosofica e Antropologia Teologica alla Studio Teologico di San Zeno. È inoltre docente di Storia della filosofia contemporanea all’Università di Verona e Presidente del coordinamento delle teologhe italiane.

AR: Vorrei iniziare questa intervista con una domanda che è paradossalmente banale, ma allo stesso tempo è un inizio col botto: che cosa è per lei la verità? Esiste solo una verità, quella di Dio, o ognuno di noi scrive la sua verità? E come mai è «ai margini»?

LV: Forse la verità non dovrebbe essere detta con un nome – e meno che mai al singolare – perché è più una questione di verbi. La verità, semplicemente, accade e si fa, perché è un tessuto di trasformazioni interpretate affettivamente, praticamente e logicamente. I momenti di verità accadono quando il mondo si rivela e si scopre che c’è altro, quando si danno risonanze tra gli esseri viventi, quando una differenza è riconosciuta e salvata, quando una ferita viene riparata o un’ingiustizia tolta, quando la realtà ci risponde e si lascia incontrare come intera proprio nei suoi frammenti. Questi eventi epifanici e trasformativi del vero non chiedono né suppongono una contrapposizione tra l’umano e il divino, tra il sacro e il profano, tra il soggetto e l’oggetto: quando c’è di mezzo la vita, quando sono in gioco le relazioni, tutto si tiene insieme. Lo spiegava anche la teologa Mary Daly: anche Dio andrebbe spiegato, vissuto, sentito come un verbo, un dinamismo, un divenire delle cose verso la loro fioritura.

AR: Questo però è la verità per lei.

LV: Esatto, questo è ciò che è verità per me. Il fatto che sia per me è certamente un limite, ma è anche la condizione necessaria perché ci sia verità. Non esiste infatti una verità astrattamente universale, valida sempre, per tutte e per tutti, in ogni luogo, in qualunque condizione. Questo non vuol dire che essa sia ostaggio di chiunque, ma che nessuna verità possa darsi come disincarnata. Una verità è sempre corporea, parziale, finita, a volte anche marginale. In questo senso, «ai margini» delle società, delle culture, delle tradizioni, delle vite si possono sentire voci vere, spesso inascoltate.

AR: Nel titolo del suo incontro: «Verità ai margini: vulnerabilità, fragilità e pensieri differenti» compaiono parole forti che vorrei provasse a definire partendo dal concetto o meglio filosofia di vita del «pensare differente»? Esiste una differenza fra fragilità e vulnerabilità?

LV: Parto dalla fine della domanda: sì, esiste una differenza tra fragilità e vulnerabilità. Fragilità è una parola che indica una qualità dell’essere: cose, persone, vite sono fragili perché si possono rompere, spezzare, infrangere. Vulnerabilità è invece una parola che si allarga al piano delle relazioni ed è in sé ambivalente: significa da un lato che siamo feribili dagli altri (vulnus è appunto «ferita»), ma significa anche che siamo inevitabilmente insieme, dipendenti, interconnessi. Questa complessità vive di differenze. Alcune sono il segno della nostra unicità e irripetibilità, altre sono il frutto di squilibri sociali, culturali, educativi, economici. Occorre dunque fare attenzione alla qualità delle differenze e alle nostre modalità di significazione: spesso ragioniamo in modo riduttivo e finiamo per gerarchizzarle. Ci sono differenze tra noi che andrebbero semplicemente riconosciute come indice di ricchezza del reale, per esempio il fatto che siamo donne e uomini, di diversa etnia, orientamento sessuale, storia e cultura. Non voglio sminuire il pathos del loro riconoscimento, ma occorre ricordare che dovremmo pensarle e trattarle come attriti di pace, come resistenza all’omogeneità imposta, come memoria di un futuro più giusto. Queste differenze parlano, si esprimono, producono versioni altre del mondo. Ci ricordano che siamo vulnerabili nel doppio senso del termine: abbiamo bisogno/desiderio degli altri esseri viventi e proprio per questo siamo in una condizione di grande esposizione e feribilità.

AR: Nella vulgata comune la donna, all’interno della Chiesa cattolica, ha un ruolo di «subordinazione» e «inferiorità». Da donna e teologa, cosa ne pensa?

LV: Anche questa è un’espressione da restituire alla pluralità: non esiste «la donna», esistono le donne singolari. Le donne non dovrebbero mai essere accorpate in un modello unico, nemmeno se questo fosse radicalmente positivo come per esempio quello del cosiddetto genio femminile. All’interno della Chiesa cattolica le donne hanno in comune un’esclusione sul piano del ministero ordinato, eppure questa – che resta una ferita non solo per loro ma per la comunità intera – non è l’unica prospettiva dalla quale osservare la loro variabile e significativa presenza. A me interessa in particolare ricordare che esistono le loro teologie femministe, le loro testimonianze di vita, le loro creatività sul piano dell’immaginazione. Tutto questo impedisce di riassumere la vita ecclesiale delle donne e delle teologhe in una morsa di subordinazione e di inferiorità. Nella ricerca teologica e nelle prassi delle donne cristiane c’è un buon fermento di cui occorre tenere conto. Per la mia esperienza, il Coordinamento Teologhe Italiane ne è un laboratorio vivente.

AR: In un mondo di supereroi con pagine LinkedIn da onnipotenti e profili Instagram in cui tutti sono statue di Canova, come possiamo trovare la forza di spogliarci e scavare dentro di noi arrivando alla nostra verità e affrontando la nostra intrinseca fragilità?

LV: Non so se si tratta di trovare la forza di spogliarci, perché noi – in verità – siamo già tutte e tutti in una condizione di nudità vulnerabile, solo che fingiamo di essere forti, almeno finché possiamo. Si tratta allora di riconoscere un tratto originario e inaggirabile del nostro stare al mondo. Gli esseri sono tutti vulnerabili, ma la fragilità non è distribuita in modo uniforme. In questo senso, giustizia e cura sono un’unica risposta alla verità delle cose. Etty Hillesum, nel suo famoso «Diario», riesce a riscoprire la verità di sé e addirittura la bellezza della vita proprio nel momento più duro per lei, ebrea olandese, destinata a morire in un campo di concentramento. In quella vulnerabilità lei trova la forza per restare un essere di benedizione e addirittura per aiutare un Dio rivelatosi impotente: le sue pagine andrebbero riprese in continuazione. L’etica della cura, di cui oggi abbiamo un estremo bisogno, non è il dono che i soggetti forti fanno a quelli deboli, ma – al contrario – si nutre della responsabilità di quelle persone che si sono scoperte vulnerabili e che proprio per questo si sentono chiamate a rispondere della vulnerabilità altrui.

AR: La spiritualità è il pennello per imparare l’arte di essere fragili o un’ancora a cui aggrapparci?

LV: La spiritualità è per me la possibilità più alta e intensa della vita corporea, perché riguarda molto concretamente l’esperienza del sacro nella storia e la percezione della sua forza performativa nei soggetti e nei contesti feriti. È l’incontro con quel mistero che sta dietro ogni nascita e ogni rinascita, in una condizione esistenziale di vulnerabilità. In un linguaggio teologico cristiano diremmo che si tratta di mistero pasquale, mentre in termini filosofici potremmo parlare di tutti quei processi in cui si passa dal dolore al sollievo, dalla rassegnazione alla speranza, dall’emarginazione ingiusta al riconoscimento, dall’isolamento alla buona compagnia, dal rifiuto all’accoglienza, dalla complicità con il male alla responsabilità per il bene... La spiritualità è dunque una sapienza della nostra fragilità e vulnerabilità, che si caratterizza per il fatto di non essere mera accettazione degli eventi, ma ostinata fiducia e implicazione nel bene possibile.

AR: Non le sembra che oggi viviamo in un mondo molto conformista a livello di pensiero e che molti «pensieri» differenti siano ostacolati o stigmatizzati all’interno di un processo più ampio di «maldigestione» della diversità in quanto tale?

LV: Sì, è proprio così. Le differenze spaventano: si teme che possano disintegrare l’ordine delle cose. In realtà, con certe differenze ingiustamente demonizzate, misconosciute o strumentalizzate è a rischio solo quell’ordine eretto per il desiderio arrogante di qualcuno e spacciato per il bene di tutte e di tutti. Quest’ordine non può sopportare una voce altra perché quest’ultima sa perfettamente come smascherare una falsa pretesa universale.

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