Miriam Camerini è la prima donna italiana ebrea ortodossa che aspira a diventare rabbina. La sua scuola, una delle poche al mondo in cui sono ammesse le donne, si chiama Har’El e si trova a Gerusalemme. Il rabbino – newyorkese trasferito in Israele – che l’ha fondata e la conduce, Rav Herzl Hefter, è un rappresentante dell’ortodossia moderna e anche uno studioso di filosofia che sta approfondendo il legame tra Nietzsche e un maestro chassidico dell’800 (il chassidismo è una corrente ebraica mistico-pietistica nata in est Europa alla fine del ‘700 e oggi particolarmente rappresentata in Nord America e in Israele).
Quello che mi colpisce della mia chiacchierata con Miriam è la calma assoluta con la quale risponde alle mie domande. Perché l’assoluto lascia spazio al tempo, alla dedizione, allo studio, all’attenzione, ai significati, alle parole. Prendendo quindi spunto dal titolo della sezione «Le parole dell’ebraismo», se dovessi scegliere dopo questo incontro tre parole per descrivere l’ebraismo, sarebbero sicuramente: tempo, cittadinanza e linguaggio.
CP: Come si intrecciano la passione per l’arte teatrale e la fede ebraica nei suoi spettacoli?
MC: Da sempre ho coniugato le due cose mettendo in scena prevalentemente spettacoli che trattano temi ebraici. Per me è molto importante l’aspetto spirituale, per esempio: uno dei più recenti lavori - che, assieme a tre ottimi musicisti collaboratori, sto proponendo in Italia, Europa e Israele - si intitola «Messia e Rivoluzione» e racconta la storia del Bund, parola yiddish e tedesca che in italiano significa «lega», ovvero il primo partito socialista dell’impero zarista, fondato in quella che oggi è Lituania, nel 1897. Il Bund era un modo di dare una patria, una forza, un’unione alle masse proletarie ebree sparse nell’impero zarista. Ovviamente si trattava di un movimento non religioso. Noi abbiamo voluto però intitolare il nostro spettacolo «Messia e Rivoluzione», dando quindi una forte connotazione di fede e di spiritualità, per dimostrare che queste due parole, apparentemente antinomiche, vanno invece insieme. Sul palco raccontiamo la vicinanza - che c’è - tra l’aspetto rivoluzionario, l’attiva speranza in un futuro migliore e la dimensione spirituale.
CP: Quali sfide sta incontrando nel voler diventare la prima rabbina ortodossa italiana?
MC: La sfida principale che ho incontrato riguarda proprio gli stessi studi, in quanto si tratta di avere a che fare con una materia che è estremamente tecnica, complessa e dettagliata. La decisione di diventare rabbina è un gesto fortemente politico che ho intrapreso per una volontà disperatamente femminista di dire: «Voglio che esistano donne rabbine anche nell’ebraismo ortodosso. Il mio augurio è che, facendomi avanti io, si apra la strada anche per le altre che vorranno seguirmi in questa scelta».
Lo studio è molto legato all’interpretazione e applicazione dei precetti e delle norme. C’è molto poco di ideale e narrativo, in confronto a quanto avviene nell’arte, negli spettacoli e nella letteratura, che sono il mio pane quotidiano. Inoltre, visto che la possibilità data alle donne del mondo ortodosso di studiare per il rabbinato è molto rara, le uniche due opzioni che avevo erano New York o Gerusalemme.
CP: Non ci sono scuole ortodosse (aperte alle donne) altrove?
MC: Non ci sono ancora... Ma ci arriveremo. Per ora, mi sarebbe stato più facile studiare in un’accademia non ortodossa: ce ne sono varie in Europa, di tradizione ottocentesca, soprattutto fra Germania, Inghilterra e Francia, dove la Riforma è più diffusa che in Italia (un po’ come nel mondo cristiano, tra l’altro). Invece volevo che fosse il mondo dove sono cresciuta, quello dell’ortodossia, a farmi da cornice. Ho scelto Gerusalemme rispetto a New York per una vicinanza sia geografica che affettiva.Sicuramente le persone che non sono ancora disposte ad accettare questo “passaggio” ci sono, ma sono relativamente poche. È un passaggio necessario per la storia. Le donne non sono più legate ai ruoli tradizionali: una donna diventa professore ordinario in università piuttosto che primario in ospedale e non esiste un divieto dentro alla normativa ebraica che le impedisca di diventare anche rabbina. Semplicemente, non è stato fatto per duemila anni, salvo poche e rarefatte eccezioni, per ragioni culturali, non religiose, e quindi deve ancora diventare prassi nella mentalità comune: ci vorrà qualche decennio, ma succederà. Ricordiamo, inoltre, che nell’ebraismo ogni ebreo/a si rapporta direttamente con il divino: prega, studia autonomamente e il rabbino/a è “semplicemente” un maestro, un insegnante, una guida spirituale, non un sacerdote.
CP: Il titolo dell’edizione di quest’anno di «Molte Fedi sotto lo stesso cielo» è «Appassionati al presente». Qual è la lettura dell’oggi che ci consegna l’ebraismo?
MC: Qualcosa a cui ho pensato recentemente: pochi giorni fa si è celebrato infatti il Capodanno ebraico. Per noi è iniziato l’anno 5784 e l’unico precetto di Capodanno è quello di far “tuonare” lo «Shofar», cioè un corno di ariete scavato che emette dei suoni molto particolari. Ero in Sinagoga e ho ascoltato chi lo suonava, emettendo quello che sembra a tutti gli effetti un verso animale. Pensavo al rapporto così complesso che nell’ebraismo c’è tra le pulsioni e gli istinti positivi e negativi di vita e di morte e la loro espressione. C’è anche un verso tratto dal libro dei Proverbi (16:1), che abbiamo in comune con i fratelli cristiani, perché parte della Bibbia: «Sono proprie dell’uomo le disposizioni dell’animo, ma l’espressione adeguata dipende da Dio». Questo verso - che è parte della liturgia del Capodanno, insieme allo strepito dello «Shofar» - mi ha fatto pensare alla grandezza dell’ebraismo, che risiede proprio nella sua intrinseca capacità di dare cittadinanza agli istinti, a quella componente animale che tutti abbiamo dentro (siamo tutti un po’ l’ariete ucciso da Abramo al posto del figlio Isacco). Dalla divinità ci viene la capacità di prendere questi suoni strazianti e dare loro una durata, una regola. Si tratta di non reprimere questo aspetto barbaro, infantile, ma di contenerlo ed elevarlo come si fa con lo «Shofar» che va verso l’alto, producendo un suono che da verso di dolore diventa preghiera, dal momento che entra nella liturgia. Questo mi riporta inevitabilmente al mio lavoro artistico. Posso avere le emozioni e passioni più grandi, ma se voglio essere un’attrice, una regista o una cantante devo anche fare il lavoro razionale, “tecnico” di imparare le battute del mio testo, leggere il copione o imparare i versi di una canzone.
CP: Qual è il rapporto tra l’ebraismo e le altre religioni?
MC: Sicuramente viviamo in un’epoca di forte rinnovamento. Ci sono volute tragedie come la Seconda guerra mondiale, la Shoah e duemila anni di genocidi, persecuzioni e discriminazioni di ogni genere perché si trovassero punti di dialogo. Ci troviamo in un’epoca più positiva in cui coltivare rapporti interreligiosi. Purtroppo, a me capita anche in maniera inconsapevole di imbattermi in elementi antisemiti. Inconsapevoli da parte di chi li esprime. Ma ciò che mi colpisce è l’indifferenza generale, ovvero che le persone si chiudono invece di prendere posizione. E questo mi fa ritornare ai racconti delle mie nonne che sempre mi dicevano: «La cosa che più ci ferì nel 1938 non fu l’essere esclusi da scuola, ma il fatto che quelli che prima erano amici, compagni di scuola, spasimanti, smettessero di chiedersi come stessimo e si comportassero come se fossimo già morti».
CP: In che modo le aspirazioni ebraiche come il «Tiqqun ‘olam» (riparare il mondo) influenzano il suo approccio o quello della comunità alle tensioni globali?
MC: Si potrebbe dire che tutto l’insieme dei 613 precetti dell’ebraismo va nella direzione di dare un senso concreto, fattivo, redentivo e produttivo al nostro stare al mondo. Siamo umani, siamo il punto di contatto tra la terra da cui traiamo la nostra sostanza e in cui affondano le nostre radici e il cielo. Non a caso il primo essere umano creato si chiama Adam, perché viene dall’«adāmā», la terra. Però ha anche questa cosa che la divinità gli soffia nelle narici, che è lo spirito vitale, l’anima, la capacità di parlare. Il linguaggio verbale è proprio ciò che distingue l’uomo dagli animali. La nostra responsabilità è qui, nell’essere in mezzo tra questi due elementi.
Da un lato siamo legati ai nostri bisogni primari: vediamo tutti cosa succede quando vengono soddisfatti a discapito di altre persone, rubando terreni o beni. I precetti ci servono proprio a ordinare questo carattere bestiale dell’umano elevandolo alla dimensione divina, a mostrare continuamente all’umano che può essere meglio di così, che è proprio ciò a cui tendere in eterno. Questo principio si può applicare nella vita di tutti i giorni, nel senso che risanare il mondo vuol dire cercare ogni sorta di piccola infelicità e fare qualcosa per redimerla. Ciò può voler dire semplicemente aiutare chi ha bisogno, ascoltare l’altro, tenere gli occhi aperti sulle necessità che non sempre sono visibili. La parola «Tikkun» significa non solo riparare, ma anche perfezionare. Il mondo è già buono, è già un universo di bellezza: lo ha creato Dio ed è come se mancasse sempre poco per perfezionarlo. E quel poco siamo noi che possiamo renderlo perfetto, in senso non assoluto ma relativo. Ovvero un po’ meglio di come lo abbiamo trovato.
CP: Qual è il messaggio che vuole trasmettere infine con il suo lavoro artistico e spirituale?
MC: In poche parole, vorrei trasmettere l’idea che l’ebraismo è qualcosa di vivo che non è relegato al passato, non si tratta solo ed esclusivamente di una storia legata alle discriminazioni e alle persecuzioni. La memoria della Shoah è importante, ma non deve essere l’unico messaggio dell’ebraismo. Noi artisti ebrei cerchiamo di comunicare una visione dell’ebraismo vivo, non museale e catacombale. Il rapporto con il Sionismo è molto forte ma io sono una forte sostenitrice dell’ebraismo diasporico, lontano dalla Terra d’Israele, che trova molto spazio nei miei lavori. Per me è importante sottolineare che gli ebrei sono anche nel qui e ora, non solo nel passato. Da un lato c’è questa dimensione estremamente particolare dell’identità ebraica, che è necessario studiare e conservare, dall’altro c’è una dimensione universale che può essere detta, condivisa e partecipata. Nel crinale del rapporto tra ciò che è solo nostro e ciò che può anche essere messo in comune, per diventare alla portata di tutti, sta molto del mio lavoro di ricerca, sia in teatro che nelle conferenze e nei simposi interreligiosi a cui partecipo.