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L’abbandono scolastico non è solo una questione economica

Intervista. Nel 2020 in Italia il 13,1% dei giovani frequentanti una scuola superiore ha lasciato prematuramente gli studi. Un dato da cui partire per riflettere sulla questione – molto più articolato di quanto si pensi – con l’Assegnista di Ricerca in Sociologia dell’Università Cattolica di Milano Francesca Mungiardi

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(foto tommaso79)

Il Progetto Risorse di Rete – ERRE 2 (che Eppen sta seguendo da qualche mese) ha commissionato a Mungiardi, del centro di ricerca WWELL, lo studio «Far dialogare le risorse del territorio verso un obiettivo comune: la figura dell’Agente di Rete» Un’indagine pratico-teorica ricca di spunti, che allarga l’obiettivo del problema dispersione scolastica a quello della povertà educativa minorile: «L’abbandono scolastico è una conseguenza della povertà educativa minorile. Non tenerne conto significherebbe ridurre un problema che invece è più complesso».

LB: Complesso nel senso che non è solo una questione economica.

FM: La povertà educativa minorile è composta da tante dimensioni interdipendenti tra loro. Potremmo definirla come l’impossibilità per i minori di apprendere e sperimentare e in qualche modo di poter esprimere i propri talenti, di essere messi nelle condizioni di fare ciò che si vuole fare. Naturalmente non in una logica di anarchia, ma di capacità.

LB: Lei nella sua ricerca si riferisce al concetto di “capability approach”, che si ispira al pensiero di Amartya Sen e Martha Nussbaum…

FM: In base al “capability approach” non basta desiderare di voler fare qualcosa, non basta intraprendere una determinata carriera, ma è necessario che il territorio in cui ci si trova permetta a me persona di mettere a punto i miei talenti. Faccio un esempio banale: se uno dei miei desideri è di andare a teatro ma sul territorio non ci sono teatri, la mia aspirazione viene resa impossibile dalle mancanze del territorio a livello culturale. Quindi la povertà educativa minorile non è solo una questione economica, ma anche culturale, relazionale, sociale e affettiva. In questo concetto rientrano ovviamente anche le scuole.

LB: Le scuole. Quelle senza mense, ad esempio.

FM: Non se ne parla mai, ma nel nostro Paese quasi la metà degli istituti non ha la mensa. I dati MIUR sulla percentuale di alunni che frequentano la mensa anche quest’anno confermano una situazione più che preoccupante, in cui, in nove regioni italiane, più del 50% degli alunni non ha la possibilità di usufruire del servizio mensa e le differenze percentuali di alunni senza mensa variano dal 30% all’80%. La situazione si fa allarmante al Sud, dove gli alunni che usufruiscono del servizio sono una rarità: in Sicilia non accede alla mensa l’81,05% degli alunni, a seguire il Molise (80,29%), la Puglia (74,11%), la Campania (66,64%) e la Calabria (63,78%). La variabilità dell’offerta registrata nel ranking nazionale è confermata anche dai dati forniti dai comuni oggetto del monitoraggio: solo 13 comuni offrono il servizio a più del 95% degli alunni, mentre 15 comuni garantiscono l’accesso alla mensa a meno del 40% degli alunni frequentanti le scuole primarie (fonte Save the Children).

LB: Dati inquietanti. Le conseguenze di ciò?

FM: Non avere la mensa preclude la possibilità di fare il tempo prolungato, i ragazzi in questo modo sono “abbandonati”, non hanno la possibilità di fare laboratori oltre il normale programma deciso dall’autonomia scolastica. È importante tenere presente che la povertà educativa riguarda molte più persone di quanto si pensi. Non esiste una sola causa, i fattori di rischio sono tanti e determinano la vulnerabilità del singolo e del territorio. Più sono i fattori che si presentano di volta in volta e più è possibile che si generi la spirale della povertà educativa minorile.

LB: Che con la pandemia è aumentata.

FM: Sì, assolutamente. La povertà educativa minorile c’era già prima, era un fenomeno che riguardava soprattutto le classi sociali meno abbienti. Ora è più trasversale, le fasce sociali a rischio sono aumentate. Se prima ragazze e ragazzi con determinate caratteristiche socio-economiche e socio-culturali erano i soggetti principali dell’abbandono scolastico, con la pandemia è aumentato il disagio, si è esteso ad altre fasce di popolazione. Non abbiamo ancora i dati a riguardo, ma lo possiamo dire in base a ciò che ci hanno comunicato le sentinelle sul territorio, dai consultori agli sportelli psicologici.

LB: Quindi l’abbandono scolastico riguarda anche il benessere psicologico dei ragazzi, che hanno “subito” la pandemia. È una questione sociale e relazionale.

FM: La dimensione economica è importante, ma non è l’unica. Diciamo che è il punto di partenza di una spirale che più va verso il basso e più coinvolge diversi fattori, precludendo tutta una serie di esperienze e possibilità che poi rendono più difficile trovare lavoro e avere uno stile di vita psicologicamente sano.

LB: La precarietà economica rimane comunque un punto imprescindibile, nella sua ricerca lei dice in un doppio senso. Ce lo può spiegare?

FM: In primo luogo la precarietà economica rende troppo oneroso da parte dei genitori l’investimento sulla scuola, mentre vedono una possibilità di guadagno maggiore e più veloce nel mercato del lavoro. In aggiunta a questo, spesso in ambiti caratterizzati da condizioni socio-economiche difficili le aspettative che i genitori hanno verso i figli si abbassano, pregiudicandone l’autostima.

LB: Il suo studio fortunatamente va contro una certa retorica del nostro presente, secondo cui «se sei povero, sei out». C’è invece un’idea forte di welfare, che lei chiama “welfare comunitario”.

FM: Chi è out, come dice lei, diventa al contrario il protagonista del processo di crescita. C’è un cambio di paradigma, dall’assistenzialismo al protagonismo, dove sono i ragazzi ad essere resi responsabili del loro benessere e della loro crescita. È un processo che non vale solo per i ragazzi, ma anche per gli adulti, la persona povera, o immigrata; qualsiasi persona che appartiene a una fascia di vulnerabilità. E non la fa sentire come colei che chiede aiuto, ma come protagonista attiva di quel processo di capacitazione di cui parlavamo all’inizio: tu, persona, raccontami ciò di cui hai bisogno e troviamo insieme una soluzione. Sii coautrice della risposta a una tua necessità, essendo però affiancata da chi dall’alto ti fornisce strumenti e possibilità. È la logica a cambiare: non più dall’alto verso il basso, ma dal basso verso l’alto. E il basso è il territorio: l’amministrazione pubblica, il privato, il terzo settore. A tutti viene richiesto di collaborare. In questo senso possiamo parlare di “welfare comunitario” che si mobilita in rete.

LB: Ma le reti da chi sono composte?

FM: Da tutti quei soggetti che decidono di collaborare insieme. Soprattutto il nord è un territorio che brulica di progetti ed esperienze che riguardano la povertà educativa minorile, forse sono anche troppe. Il problema è che magari realtà che stanno a cinque metri una dall’altra e fanno la stessa cosa non si conoscono e questo provoca una dispersione enorme delle risorse. Stare in rete significa proprio questo: imparare a sapere cosa c’è sul territorio. Un altro problema della povertà educativa minorile per i giovani è l’impossibilità di sapere che quasi sicuramente, se sei al nord, c’è la risposta ad un tuo bisogno. Anche in questo senso funziona la rete: mettere in contatto realtà diverse per essere più forti nel dare una risposta ai bisogni.

LB: Insomma, al di là della scuola, realtà come gli oratori, i centri culturali…

FM: Sì, e anche le aziende, il terzo settore. La rete può essere anche l’edicola davanti alla scuola che fa da sentinella di ciò che avviene sul territorio. Il compito di educare spetta a tutti, in senso ampio, per questo si parla di “comunità educante”. Non si può pensare che l’educazione tocchi solo alla scuola, che rimane, certo, il fulcro principale, ma come centro della rete educativa di un territorio.

LB: Rimane però una questione aperta, ovvero ciò che “sfugge” alla comunità educante. Per esempio i social network, anch’essi sono una realtà di (dis)educazione dei ragazzi. Come possono rientrare nella comunità educante e nella fattispecie nella scuola?

FM: Attraverso la collaborazione con le reti. La questione dei social network è molto interessante, perché è uno di quei “luoghi” in cui la comunità educante deve esserci. Le faccio un altro esempio, che parte dall’origine della mia ricerca, che è prima di tutto pratica. Non ho lavorato su dati, ma su casi di studio e in uno di questi è stato chiesto ai ragazzi di mappare il territorio e di indicare quelli che per loro sono ambiti educanti. Sono emersi luoghi come il centro commerciale e la fermata del bus, che noi adulti non sospettavamo assolutamente. E allora da questa cosa sono nate delle domande: perché i ragazzi passano il loro tempo al centro commerciale? E come possiamo fare entrare la comunità educante in un centro commerciale? Non inserire nella rete educante quei luoghi vuol dire disperdere un potenziale grandissimo. Se i ragazzi passano i loro sabati pomeriggio al centro commerciale, quella è l’occasione per creare all’interno di essi delle situazioni adibite all’educazione.

LB: I ragazzi e il “capability approach”, la comunità educante, gli attori sul territorio. Tutto questo viene coordinato da quella che è poi la figura centrale della sua ricerca, cioè il Community manager o Agente di rete. Di cosa si tratta?

FM: Cominciamo col dire che «Community manager» è uno dei tanti nomi che vengono dati a una figura che deve fare da raccordo fra tutte le realtà di cui abbiamo parlato fino ad ora. Non esiste una figura di Community manager ideale, dipende dalle peculiarità del territorio e dai bisogni che esso ha. Tuttavia possiamo individuare alcune caratteristiche che un Community manager dovrebbe avere: il collegamento diretto con il territorio dove lavora, la capacità di capire i bisogni del territorio e insieme ad esso trovare delle soluzioni, quella di coordinare e fare dialogare fra loro le varie realtà della rete educante, saper integrare le varie risposte che arrivano dal territorio e avere una buona predisposizione all’ascolto dei singoli e del territorio. È una figura molto poliedrica, a cui caso per caso è sempre e comunque molto utile una formazione educativa.

LB: Prima parlava dei casi che ha studiato in varie parti d’Italia, da nord a sud. Com’è la situazione generale in Italia per quando riguarda la povertà educativa?

FM: Se già prima della pandemia la povertà educativa era forte al sud, con la pandemia è decisamente aumentata anche al nord, dove dobbiamo considerare che il problema esiste e non possiamo fare finta di nulla. Il divario fra nord e sud è molto marcato ma la povertà educativa è in crescita ovunque. Potremmo dire che è un problema che riguarda “tutti”, cioè una fascia trasversale della popolazione che raccoglie diverse condizioni sociali, culturali ed economiche. È un fenomeno che ci deve preoccupare e su cui dobbiamo assolutamente agire.

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