Non sono mai stata a casa di Mariya. Anzi, a dire la verità non l’ho mai nemmeno chiamata Mariya. Per me è Maria, all’italiana, ed è sempre stata a lei a venire a casa mia, dal 2018 fino ad oggi. Per accudire mia nonna, per pulire il nostro appartamento, per acconciarmi i capelli il giorno della laurea («per favore Mari, sei bravissima!»).
50 anni, due figlie cresciute da sola, Mariya Molodyanu è nata a Chernovtsy, in Ucraina, ma da alcuni anni si è trasferita ad Albano S. Alessandro, in provincia di Bergamo, insieme al compagno e alla figlia minore, Taisiya. Il motivo per cui oggi vi racconto la sua storia è molto semplice. A inizio febbraio, Mariya è tornata nel paese d’origine, per trascorrere qualche settimana con la figlia maggiore, Yulia, e la nipotina, una bimba di cinque anni di nome Polina. E si è trovata, la mattina del 25 febbraio, a preparare un borsone in fretta e furia, a prendere con sé la figlia e la nipote, e a cercare di percorrere il più in fretta possibile la distanza che la separava da Chernovtsy al confine rumeno.
Il viaggio di Mariya mi coinvolge per due motivi: ho trascorso la mattina del 26 febbraio a cercare un volo tra la Romania e l’aeroporto di Orio al Serio che non costasse un occhio della testa e che – soprattutto – non fosse sold out. E ho accompagnato “virtualmente” Mariya, Yulia e Polina da Chernovtsy fino a Bergamo, mettendo le tre donne della famiglia Molodyanu in contatto con un’amica romena, cercando (inutilmente) centri che facessero tamponi anti-Covid 19 la domenica mattina e rimanendo in silenzio davanti alle video-testimonianze di quanto sta accadendo oltre confine. «Vorrei che venissi qua a vedere tutto questo casino» recita uno di questi video. «Ne avresti di cose da scrivere».
Mariya, Yulia e Polina sono arrivate ad Albano S. Alessandro lunedì 28 febbraio alle 10.30. Ieri sera sono andata a trovarle. Mi hanno accolto con un abbraccio e una tavola imbandita: tartine con salmone e prosciutto, patatine, olive, bicchieri di vino. Solo Mariya parla italiano, la figlia Yulia capisce solo qualche termine, mentre Polina – occhi azzurri, riccioli biondissimi – scarta l’uovo di Pasqua che le ho portato con lo sguardo pieno di meraviglia e mi invita a giocare con la statuetta di Anna di «Frozen» che ha trovato insieme al cioccolato. Ai bambini non servono parole. Si fanno capire con i gesti.
Chiedo a «momuka», la nonna, se adesso che è in Italia sta seguendo i telegiornali o leggendo le notizie che ogni giorno, ogni ora, arrivano ininterrotte dal suo paese. «Vorrei sapere tutto», mi confida. «Ma allo stesso tempo non ne posso più». Dall’ overload informativo che i media ci sottopongono quotidianamente, anche Maria ne sta uscendo esausta. «Polina è turbata. Guarda sul cellulare della mamma i cartoni su YouTube, però ogni tanto capitano video della guerra, e lei capisce tutto. “Le bombe sulla nostra casa, ci lanciano le bombe!” grida spesso».
La città di Chernovtsy sorge a circa 40 km dal confine rumeno. Siamo lontani da Kiev, da Irpin, dal lato opposto rispetto a Mariupol. Al momento, la zona non è stata colpita dai bombardamenti (le esplosioni più vicine sono state all’aeroporto di Ivano-Frankivs’k, a circa due ore di auto), ma le donne della famiglia Molodyanu hanno sentito il rombo degli aerei da combattimento, e hanno deciso di partire in fretta e furia. «Forse erano i nostri soldati, i nostri aerei, non lo sappiamo. Ci siamo spaventate», racconta Mariya, con la voce che trema. Una ragazza di nome Carmela, nipote di un’amica a cui Mariya aveva fatto da testimone di nozze, sarebbe partita la mattina stessa per la Romania. «Possiamo venire anche noi? Le ho chiesto. E lei ci ha detto di sì».
Per fare le valigie, non c’è stato tempo. È una parte della storia che conosco già, perché quando Mariya mi chiede di prenderle tre biglietti aerei, mette ben in chiaro che ha solo un bagaglio a mano al seguito. Quanto basta per un paio di cappotti e qualche maglione per Polina.
Nonostante la vicinanza tra Chernovtsy e il confine rumeno, per entrare in Romania la famiglia ci mette più di ventiquattr’ore. Alla dogana di Siret è tutto bloccato. Passano solo, mi confida la mia amica, «i ricchi con i loro macchinoni». Anche gli uomini, «quelli che mettono 50 euro o più nel passaporto».
Non dorme da due giorni, ma l’accoglienza che attende Mariya, una volta oltrepassata la frontiera, la scuote e la commuove. Al di là della dogana inizia un lungo cordone di tendoni, bancarelle di diverso scopo e provenienza: ci sono beni di prima necessità, volontari e personale dei vigili del fuoco, assistenza medica. «Siamo stati accolti così bene… Non ho mai pensato che potesse esistere gente così solidale, pronta ad aiutarci in momenti difficili. C’era gente con le borse, con di tutto, da mangiare, da bere… ti prendono a casa gratis! Mi hanno chiesto se ho bisogno di soldi, di stare a casa loro, quanto tempo non importa!». A chiamare Mariya, appena varcato il confine, è anche Olimpia, mia carissima amica romena. Vive nei dintorni di Bachau, a 200 km da Siret, ma si dichiara disposta a venire a prendere e ospitare le tre donne ucraine se dovessero avere bisogno di aiuto.
L’aiuto, in realtà, sopraggiunge da più lontano ancora. Un amico di Yulia, residente a Dublino, riesce a metterla in contatto con alcuni familiari e parenti che vivono a Dorohoi, in Romania. Una famiglia di otto figli «dal cuore tanto grande».
Ora, il viaggio della mia amica non si conclude qua. Perché da Dorohoi a Iasi, la città da cui partono i voli che ho prenotato, ci sono ancora 150 km. Tre ore di macchina, che il capofamiglia percorre alle due notte, per accompagnare Mariya, Yulia e Polina in aeroporto. Per entrare in Italia, serve un tampone. Io non sono riuscita a prenotarlo, perché la domenica le farmacie sono chiuse, e il volo da Iasi parte alle 6 del mattino. «La polizia, in aeroporto, ha chiamato dei medici, che sono venuti all’alba per fare il tampone a tutti, gratuitamente».
Mariya sente ancora le lacrime agli occhi mentre mischia, nei suoi racconti, il dolore di chi ha lasciato la propria terra con un borsone accomodato alla bell’e meglio, la gioia nel constatare che nel mondo c’è ancora chi sa spendersi per gli altri, e la confusione di chi quella guerra non l’ha mai davvero capita. «Ma guerra tra chi? Nella via dove abitavamo, persone di origine diversa hanno sempre vissuto in pace. Di ucraini ce ne sono pochi. Ci sono dei russi, tanti romeni. Che poi Chernovtsy, fino alla fine della Prima Guerra Mondiale, non era nemmeno ucraina. Apparteneva all’impero austro-ungarico».
Oggi, Mariya si sente in bilico tra due terre e tra due case. Una lasciata là, a Chernovtsy, con un freezer pieno di cibo, una sorella, un fratello, nipoti andati a combattere. E una ad Albano S. Alessandro, in una palazzina che sfoggia all’ingresso una bandiera gialla e blu. Non l’hanno appesa lei, ma una famiglia di italiani che vive al piano terra. «Loro ci tengono molto a noi», mi confida la mia amica. Mi dice che in patria servono donne che sappiano cucire le divise ai soldati. Lei la guerra la conosce dai racconti dei genitori e da quelli dei nonni, deportati in Siberia. Vorrebbe partire di nuovo, ma le donne che più ama sono qua. Yulia, Taisiya, Polina.
Vorrei concludere questo mio racconto con una riflessione, che poi è il motivo per cui ho scritto questo pezzo. In una puntata di «Morning», il podcast che mi fa compagnia ogni mattina sul treno nel mio viaggio da casa al lavoro, il vicedirettore de «Il Post» Francesco Costa si pone (e ci pone) una domanda. «Quello che sta succedendo in Ucraina ci colpisce in modo particolare. Perché non ci scandalizziamo allo stesso modo quando le vittime sono siriane, eritree, yemenite o congolesi?».
La risposta che si dà chiama in causa un meccanismo insito nell’essere umano, un meccanismo che va al di là di ogni etica, di ogni giusto/sbagliato. «Se domani un uomo venisse ucciso sul pianerottolo davanti alla porta di casa nostra, sarebbe per noi un evento sconvolgente. Se invece vi dicessi che ieri è stato ucciso un uomo sul pianerottolo di un palazzo in Guatemala, probabilmente dimenticherete questa informazione nel giro di qualche minuto. È nella nostra natura essere colpiti diversamente da fatti tutto sommato simili tra loro. La morte di una persona amica ci distrugge, ci sconvolge in un modo che non è paragonabile alla morte di una persona che non conosciamo e che non conoscevamo: ed è fondamentale che sia così, perché se ogni morte nel mondo ci colpisse come quella di una persona amica avremmo smesso di vivere, non saremmo più in grado di funzionare, come esseri umani e come società».
Se non avessi conosciuto Mariya, forse non avrei scritto questo mio racconto. Ma la conosco, ed è per me un miracolo vederla a casa, sana e salva. Regalare le sue parole a chi mi leggerà è il mio piccolo – forse inutile – atto d’amore.