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La regola del gioco: pensare l’impensabile. Alessandro Baricco, “The Game” e il mondo (o quasi)

Articolo. Lo scrittore torinese, autore del saggio “The Game” sulla rivoluzione digitale, sarà in diretta streaming per Molte Fedi: “Ora pensate l’impensabile” il titolo dell’intervento. Mercoledì 14 ottobre dalle 18.30

Lettura 5 min.
Alessandro Baricco

Con un piccolo ma affiatato numero di amici, ormai da qualche anno, abbiamo costituito un gruppo che periodicamente (anche se mai abbastanza) si ritrova per giocare a Risiko – probabilmente il gioco che più di ogni altro meriterebbe di essere definito the game, un po’ come Sinatra era the voice. Sono momenti in cui ci si concede di non far contare il tempo e si accetta l’eventualità di restare seduti al tavolo da gioco anche per 6 ore filate, o più, se la partita è particolarmente equilibrata.

Il mondo del Risiko è, come direbbe Alessandro Baricco, tipicamente “novecentesco”: richiede tempo (parecchio), è un gioco da tavolo, analogico quindi materiale (tabellone, dadi, carrarmatini, carte), il suo sistema è realizzato, chiuso, immutabile, il movimento al suo interno lento, meditato, faticoso, condizionato da regole granitiche e dinamiche il cui apprendimento è graduale. Prevede poi un numero finito di obiettivi, 14 nella versione a cui giochiamo noi, ma in ogni caso te ne spetta uno solo a partita. Insomma, è tutto ciò che non è il mondo del Game descritto da Baricco: senza confini, leggero, veloce, immateriale, liquido, in costante movimento/mutamento, senza mediazioni, con il cuore dell’esperienza facilmente raggiungibile in superficie.

Digressione.
Con il termine Game Baricco indica il mondo che viviamo e costruiamo quotidianamente, derivato dalla “insurrezione digitale”, il nostro stare a cavallo tra una realtà materica e una digitale, smaterializzata, attraverso quella che chiama “postura uomo-tastiera-schermo” e che arriva dagli albori del digitale, ovvero dai videogame – in principio fu Space Invaders, e prima ancora Pong.

Quindi, perché “The Game”? Perché sostiene vi sia stata una “elevazione del gioco a schema fondativo di un’intera civiltà”: il videogioco arcade come cellula embrionale, materia prima, seme da cui è germogliato il nostro presente onlife. Le esperienze che facciamo seguirebbero i principi della gamification, diventando post-esperienze – “l’esperienza figlia della superficialità”, “il durante di un movimento”, “esplorazione, perdita di controllo, dispersione” – quando fatte attraverso i device, che non sarebbero semplici strumenti di mediazione ma estensioni del sé, protesi attraverso cui esperiamo i mondi di cui facciamo parte, le realtà che contribuiamo a costruire. Ed è qualcosa che Baricco riconduce dritto al clima libertario degli anni Sessanta e Settanta:

C’era tutto un mondo in cui programmare software era un modo di andare contro il sistema, e in questo senso non era molto differente da provare LSD o praticare il libero amore su un pulmino Volkswagen”. (...) In California in quegli anni stava nascendo un habitat nuovo, e in quell’habitat gli ingegneri si chiamavano hacker e spesso avevano i capelli lunghi, si drogavano e odiavano il sistema”.

Il movente, dice, risiederebbe nella volontà dei pionieri – hacker, capelloni, nerd, sballoni, i primi a pensare l’impensabile – di “evitare il disastro del Novecento”, abbattendone i paradigmi in uno slancio liberatorio.

Boicottare i confini, tirare giù tutti i muri, allestire un unico spazio aperto in cui ogni cosa era chiamata a circolare. Demonizzare l’immobilità. Assumere il movimento come valore primo, necessario, totemico, indiscutibile. L’intuizione era piuttosto geniale: il ‘900 aveva insegnato che sistemi fissi, lasciati troppo a lungo nell’immobilità, tendevano a degenerare in monoliti famelici e rovinosi”.

Il mondo digitale (che B. chiama oltremondo) come antidoto alle storture del XX secolo. Un territorio franco senza confini geografici, limiti culturali, gerarchie, élite, mediazioni, dove informazioni e opportunità sono alla portata di tutti. Un mondo il cui avvento – secondo l’autore – ha favorito “la distribuzione del potere e delle possibilità. Un processo, questo, che Chris Anderson, in “The Long Tail, aveva descritto più precisamente come “democratizzazione dei mezzi di produzione”.

Eppure, è un mondo che in realtà pare piuttosto lontano da quello immaginato da tanta parte dei sentimenti politici attuali. Quelli del nazionalismo, del sovranismo, dei confini chiusi sorvegliati e invalicabili, delle oligarchie e dei monopoli (guarda caso soprattutto digitali) del prima noi e poi voi, della “omologazione mondialista”. Ma non era mica morto il Novecento? Il Game non l’aveva ucciso?

Il Novecento è redivivo, o almeno certe sue scorie. Eppure l’entusiasmo con cui Baricco parla dell’insurrezione digitale nasconde il fantasma dell’utopia diventata ucronia, e che viaggia spedito verso una distopia dai contorni gattopardiani: monopoli “famelici e rovinosi”, individualismo di massa, disinformazione, realtà iper-soggettive ed esperienze iper-profilate, il grande equivoco tra “semplificazione” e “miglioramento”, la datafied society, l’intelligenza artificiale al servizio del sistema che Soshanna Zuboff, in “Capitalismo della sorveglianza, chiama “mercato dei comportamenti futuri”:

Non siamo i ‘clienti’ del capitalismo della sorveglianza. Un vecchio detto sostiene che ‘se è gratis, il prodotto sei tu’, ma anche questa visione è sbagliata. Noi siamo le fonti del fondamentale surplus del capitalismo della sorveglianza: l’oggetto di un’operazione di estrazione della materia prima tecnologicamente avanzata e sempre più inesorabile. I veri clienti del capitalismo della sorveglianza sono le aziende che operano nel mercato dei comportamenti futuri”.

Un tema recentemente affrontato anche nel documentario “The Social Dilemma” prodotto da Netflix, che drammatizza, seppur talvolta caricaturizzando, il nostro essere variabili di produzione dati continuamente influenzabili nei confini di un territorio che, di fatto, è dominato da un regime feudale. Altro che Novecento. Il Game è anche questo: un Jumanji sotto mentite spoglie che ti catapulta dove ti accorgi che non vuoi stare, ma da cui non è così semplice uscire.

Si può dire che il saggio di Baricco non brilli tanto per originalità e grado di approfondimento dei contenuti, quanto per come questi sono raccontati, per la lateralità del punto di vista. Su Minima&Moralia, Marco Montanaro scriveva di “una sorta di drammatizzazione, di messinscena divulgativa in cui temi e concetti erano agiti come veri e propri personaggi, quando non addirittura come vere e proprie strutture narrative”. E in effetti manca un approccio comparativo, mancano le fonti, e balugina solo in lontananza, appena sfumata, un’analisi delle implicazioni filosofiche, economiche, sociali, comportamentali e interazionali al tempo del Game: qualcosa che dia al lettore nuovi strumenti di interpretazione di sé e dei mondi in cui si muove, o anche solo una nuova traiettoria verso cui lanciare lo sguardo all’infuori dello storytelling – acuto e godibilissimo, beninteso – costruito dall’autore (cosa a cui, invece, hanno pensato gli autori di “The Game Unplugged).

Baricco racconta una storia, la storia della rivoluzione digitale: gli albori, gli highlights degli ultimi cinquant’anni. Dà una sua interpretazione, commenta, prova a dare un nome alle cose, a tracciare una mappa. L’impostazione – e il risultato, sommario ma non per questo indignitoso – è quella del biopic hollywoodiano, in un fiorire di metafore e similitudini laddove approfondire avrebbe significato cedere al tecnicismo e allo specialismo. È una scelta legittima, discutibile ma meno squalificante di quanto sembri: semplificare e restare in superficie per garantire alla divulgazione la gradevolezza dell’intrattenimento e, di conseguenza, la più ampia e immediata accessibilità possibile. “Il gioco” scrive Baricco “è basato sulla capacità di dare il giusto ‘design’ alle informazioni, nascondere la complessità in profondità e rendere la superficie delle cose facile da attraversare”. Da questo punto di vista, “The Game” risponde puntualmente alle logiche del Game. È “aerodinamico”, direbbe lui.

Il Risiko, si diceva.
Baricco afferma: la rivoluzione digitale è la conseguenza di una rivoluzione mentale. E non il contrario. Può sembrare una tesi banale. Non credo lo sia – apre uno spazio enorme di riflessione – e in ogni caso non ci avevo mai pensato. Non avevo mai pensato che ciò che più accende le discussioni attorno al tabellone del Risiko – il tentativo di emendare il regolamento del gioco per rinverdirne le dinamiche e aprire scenari inediti – potesse derivare dal cuore costitutivo del Game: insomma, si discute se fare del Risiko un sistema open source, aggiornabile, liquido, che si adatti al contenitore dalla forma mutabile della nostra esperienza di gioco.

Forse la staticità del regolamento classico di un gioco da tavola è diventata troppo novecentesca per noi. Forse è anche questa una piccola e banale applicazione del “pensiero digitale” che ha mandato in soffitta il Novecento, la rivoluzione mentale che innesca la rivoluzione tecnologica. O forse è solo un modo più semplice, “aerodinamico”, divulgativo, baricchiano, per interpretare quello di cui parlava Max Weber con “orientamento economico” delle tecnologie: che queste sono sempre espressioni di obiettivi economici, e offrono i mezzi appropriati per raggiungerli. Ora pensate l’impensabile: come, alla fine, si possa non trattare sempre e solo di profitto.

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