Quando è stato che la nostra vita ha preso quella piega? E se, quella volta, quel giorno o in quel momento, avessimo agito diversamente? Quante volte ci siamo posti questi interrogativi? Domande come queste non sono solo nostre, ma ritornano anche nelle biografie delle persone che hanno commesso un reato. «“Loro” non sono diversi da “noi”» spiega il professor Ivo Lizzola, ordinario di Pedagogia sociale e di Pedagogia della marginalità e del conflitto e della mediazione all’Università degli Studi di Bergamo.
«Siamo simili nelle storie nostre, nelle fatiche delle relazioni, nei disagi personali, nelle nostre interiorità, nelle reattività. Siamo davvero molto simili. Le storie che si sentono raccontare in carcere sono vicinissime a noi, sono come le nostre. Chi è recluso non è una persona particolare perché vive in carcere, lì c’è solo una concentrazione di problematicità che fuori sono più disperse e rischiano di essere abbandonate e lasciate in solitudine». Contro questo isolamento, progetti riabilitativi, creatività, espressione e cultura possono tanto, sia per chi è “dentro”, sia per chi non lo è, aiutando anche noi a comprendere un mondo che ha tanto da dirci. « Unlock – Evasioni artistiche » è un’occasione per scoprirlo più da vicino, una rassegna socio-culturale dedicata al tema della reclusione e alla condizione di chi la vive, che verrà esplorata attraverso proiezioni, spettacoli, performance e dialoghi. La rassegna si terrà all’ex centrale Daste dal 9 all’11 giugno, a ingresso libero su prenotazione.
Dai racconti di reclusione alle nostre vite possibili
Alla riflessione proposta dagli spettacoli, si affianca quella del professor Lizzola, da anni impegnato sui temi come vulnerabilità sociale, disagio esistenziale, carcere e giustizia riparativa, che con il suo contributo apre una prospettiva profondamente umana su chi si è recluso: «La percezione più pericolosa di tutte è che chi ha compiuto un reato sia quel reato. Se fosse così, tutti noi saremmo condannati a essere solo il momento in cui abbiamo espresso il peggio di noi». Una riflessione che risuona nelle parole dei detenuti stessi in «Racconti di reclusione», primo appuntamento di «Unlock», una mattina di proiezioni e dialoghi sull’esperienza di 15 anni di teatro sociale nel carcere di Bergamo. Protagonisti il 9 giugno alle 11 i video girati dai reclusi durante il laboratorio teatrale condotto da Teatro Piroscafo (prenotazione facoltativa).
«Nelle carceri si incontra un’umanità molto fragile, molto dolente, che spesso ha accumulato gravi problematicità e tanti svantaggi – spiega il professore – Quelli che portano al reato sono meccanismi che appartengono a persone normali, ma che hanno dei contatti con la realtà molto limitati, miti sbagliati, ricerca di denaro facile, consumismo sfrenato o vivono delle situazioni di forte disagio o dipendenza. Tutto questo è ben presente all’esterno, dove a volte ha anche manifestazioni più eclatanti».
Come molti potranno obiettare, anche Lizzola specifica che «ce n’è anche fuori di questa umanità, che non per questo ha compiuto reati. Però è anche vero che, pur essendoci persone che lo compiono e lo vogliono il reato, persone che hanno una sorta di mentalità criminale, ce ne sono anche moltissime per cui il reato è stato uno scivolamento, frutto di una serie di debolezze e di casualità. Casualità vissute anche da noi “fuori”, che però non raggiungiamo il momento finale del reato. Molti dei detenuti si trovano nel reato e rischiano da lì di costruirsi una sorta di destino, a volte una “carriera criminale”, come diceva un grande studioso come Gateano De Leo», professore ordinario di psicologia giuridica e sociale dell’Università degli Studi di Bergamo, fondatore della cattedra di psicologia giuridica dell’Università La Sapienza di Roma.
E quindi torna ancora quel bivio, quel «Come sarebbe stato se avessi fatto diversamente?». Sono queste le domande chiave di «Se…», lo spettacolo teatrale che il 9 giugno andrà in scena a Daste alle 14, risultato del laboratorio di teatro sociale «Fragili legami», condotto nella casa di reclusione di Brescia Verziano, prodotto dall’Associazione Briganti in collaborazione con la direzione e l’equipe educativa del carcere (prenotazione obbligatoria). Punto di partenza è la storia di Giulietta e Romeo: come si sarebbero evolute le cose se lui avesse ricevuto la lettera in cui si diceva che la morte dell’amata era solo una finzione? Da questi spunti si aprirà poi uno spazio di riflessione condiviso con il pubblico. Lo spettacolo sarà in replica anche la mattina del 10 giugno presso la Casa circondariale Brescia “Nerio Fischione”, un’occasione per entrare in spazi normalmente inaccessibili al pubblico (prenotazione obbligatoria).
Da riflessione e dialogo si passa poi all’atto creativo, protagonista di «Istantanea #03», performance che andrà in scena il 9 giugno alle 16, interpretata da un gruppo di detenute e detenuti insieme ai performer di Compagnia Lyria, che hanno partecipato al laboratorio di danza contemporanea, scrittura creativa e Metodo Feldenkrais® presso la Casa di Reclusione Verziano Brescia nell’ambito del Progetto Verziano.
«Istantanea #03» è uno spettacolo che lavora sulla «capacità di essere in contatto con se stessi e, contemporaneamente, di sintonizzarsi con gli altri, coglierne gli stimoli per creare un dialogo imprevedibile attraverso il movimento». Ed è questa capacità di “sentire” non solo chi abbiamo davanti, ma di «fare i conti con il dolore arrecato all’altro e sentirlo» ad essere, come spiega il professor Lizzola, «una delle vie di contatto con il proprio gesto e le sue conseguenze più forti. Se noi facciamo avvenire ciò, questo scioglie la capacità del reato di cristallizzare quasi una predestinazione a una carriera criminale, una marginalità, una pericolosità o un destino già segnato».
Ed è sempre il sentire al centro dello spettacolo «Alda. Parole al vento», in programma il 9 giugno alle 17 a Daste, un momento di musica e poesia, tra leggerezza, amicizia e sorellanza, che prende spunto da testi scritti dalla poetessa Alda Merini o a lei dedicati, su cui hanno lavorato le donne recluse di San Vittore (prenotazione obbligatoria).
Come mai il carcere e chi ci sta dentro fa così paura?
«Da dove arriva il senso di rifiuto e timore davanti a chi sta in carcere? Da noi. Quello che troviamo “dentro” siamo ancora noi – spiega Lizzola – Chi è “dentro” ci spaventa perché ci spaventa incontrare noi stessi o le potenzialità che ci abitano. Invece incontrare questo “altro che è in noi” primo, ci farebbe benissimo, perché ne diventeremmo consapevoli e potremmo lavorarci su, secondo, impareremmo a non demonizzare chi ha compiuto gesti offensivi, che hanno fatto male o hanno distrutto e rotto le fedeltà a quel legame sociale su cui noi riposiamo, nella fiducia degli uni o degli altri. Chi ha compiuto un reato, non ha solo compiuto un reato, ma ha reso più incerta tutta la comunità nel vivere le relazioni con gli altri e questa è una cosa da ricucire. Quante relazioni ferite sono presenti fuori pur non avendo la forma del reato?».
Quando invece questo è presente, c’è anche la punizione, di cui professor Lizzola non nega l’importanza, ma che sottolinea vada inserita in un contesto riparativo, capace di offrire davvero una possibilità di riabilitazione della persona: «Una società ha il diritto di punire, ma nel modo in cui costruisce la pena deve segnare una distanza netta dal male commesso. Se è stata fatta una violenza e la pena la costruisci violenta ed espiativa o ricattatrice – per cui solo il furbo riesce a convivere bene in carcere e non quello che riesce ad esercitare responsabilità – allora in fondo rinforzi la stessa logica».
«L’esecuzione penale deve invece riportare le persone dentro i luoghi della convivenza, in cui il rispetto del legame con l’altro e il sentire la responsabilità gli uni per gli altri abbiano un’evidenza fortissima e permettano di ripensarsi e di tornare a scegliere – aggiunge Lizzola – Non basta dire “diamogli una seconda occasione”, bisogna far conoscere alle persone il mondo nelle sue contraddizioni e anche nella bellezza di una vita degna, vissuta per altri e con altri, di vita rispettata . Molte delle biografie in carcere queste realtà le hanno incontrate pochissimo e farle riincontrare è una forza grande».
La forza delle relazioni per riabilitare la persona reclusa
La famiglia e gli affetti possono essere la leva più potente che porta le persone a ripensarsi, a studiare, fare cose utili, informarsi e impegnarsi e a lavorare su di sé, anche nei percorsi con gli psicologi. Spiega il professore: «la famiglia può essere il punto di dolore più forte ed è importante attivarsi anche fuori, sostenendo chi ha qualcuno dentro e creare la possibilità di mantenere o ricucire relazioni, oltre a smontare gli stereotipi».
Questo è ciò che fa «Ninna nanna prigioniera», il documentario in programma il 10 giugno alle 20.30 al cinema “Lo schermo bianco” di Daste, insieme all’incontro con la regista Rossella Schillaci (prenotazione obbligatoria). Il film racconta il quotidiano di una piccola famiglia reclusa: Yasmina di 24 anni e i suoi figli più piccoli vengono raccontati tra il bagnetto, il pranzo, le passeggiate lungo i corridoi del carcere e rivelano il dramma con cui ogni madre si troverebbe a confrontarsi in una situazione simile. In questa delicata pellicola, la regista riporta allo spettatore un ritratto intimo e partecipe su maternità, responsabilità e scelte, e sull’energia vitale dell’infanzia, capace di trasformare anche il mondo carcerario.
In programma anche un secondo lavoro di Rossella Schillaci, «Affiorare», una proiezione in realtà virtuale, proposta a Daste per tutta la durata di «Unlock»; un documentario sperimentale in cui le animazioni si fondono con riprese all’altezza degli occhi bambini, raccontando la vita quotidiana di madri e figli che vivono in carceri o istituti di custodia per detenuti. In programma anche un incontro con l’autrice l’11 giugno alle 14 sempre all’ex centrale.
Uno sguardo insolito “da dentro” sarà offerto anche da «VR Free (We Are Free)», la proiezione proposta dal 9 all’11 giugno, un secondo documentario in realtà virtuale che racconta la vita all’interno della Casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. In scena le reazioni dei detenuti che ritrovano la vita fuori dal carcere attraverso video a 360° e audio, da una partita di calcio, a un’immersione, all’incontro con i propri cari “fuori”.
La dignità del lavoro in carcere ha il profumo del pane
Il terzo giorno di «Unlock» invece è all’insegna di acqua, farina e lievito: l’11 giugno alle 16 il pubblico sarà invitato a partecipare a «Dolci sogni liberi», un laboratorio di panificazione aperto a tutti, per raccontare il progetto di inserimento lavorativo ideato e realizzato dalla Cooperativa Sociale Calimero presso la Casa Circondariale di Bergamo. Le persone detenute protagoniste di questo progetto «sono brave, sono lavoratori competenti, che garantiscono qualità – spiega il professor Lizzola – L’associazione di panificatori bergamaschi ne è orgogliosa. Le aziende che hanno lavorazioni svolte in carcere stanno poi attentissime a non perdere chi hanno formato all’interno».
Oltre all’aspetto economico, l’importanza del lavoro è custodita in un messaggio importante: «grazie a ciò che fai la società ti considera una risorsa, ti rispetta in quanto “capace di” e questo rinforza il tuo valore di persona – aggiunge il docente – Io ti punisco per quello che hai fatto, ma ti aspetto e mi aspetto che tu faccia altro. Ecco, il lavoro è quel “fare altro”, è una barriera alla recidiva, al tornare a commettere reati. Funziona per davvero. Purtroppo, però, negli istituti di pena italiani non si riesce a offrire l’occasione di lavorare, se non per un numero ridotto di detenuti, dipende molto dalla risposta del territorio».
In Lombardia, ad esempio, il numero di persone coinvolte tra lavoro, scuola e attività culturali o espressive, secondo i dati regionali riportati dal docente, non supera in media il 38% del totale dei detenuti nelle carceri: «tutti gli altri “stanno sulla branda” per usare il gergo interno e spesso sono i più fragili dei fragili, considerando che quando si parla di detenuti, si parla di persone. Importante anche considerare che la maggior parte di loro si trova in carcere per aver compiuto reati non gravi. Molto probabilmente la gran parte delle persone recluse dovrebbe vivere l’esecuzione penale diversamente, in luoghi diversi, in modo impegnativo e costruttivo, per rendersi conto di essere capace di essere altro e per ritrovare un posto in una società a cui dare il proprio contributo. Questi impegni, insieme ad un lavoro serio ed esigente, condotto nel tempo, per riparare i legami spezzati e i danni arrecati, e per vivere difficili incontri con le vittime, rappresentano una frontiera decisiva».
Tutti gli eventi di «Unlock – Evasioni artistiche» sono a ingresso libero, alcuni su prenotazione. Informazioni e prenotazioni a questo link.