Quindici aprile 2023: in Sudan scoppia la guerra civile. L’ennesima guerra civile. Il Sudan è un Paese indipendente dal 1956, e da allora è passato da un conflitto all’altro, da un golpe all’altro, da una dittatura all’altra. Nel 2003 è rimasto invischiato in un conflitto più che decennale, che si è concluso solo nel 2020: nel mezzo ci sono stati il genocidio del Darfur , con un milione di morti e due milioni di sfollati, e l’indipendenza del Sudan del Sud nel 2019, che ha causato uno sconquasso politico a Khartoum. Proprio nel 2019, e poi ancora nel 2021, il Paese ha attraversato due colpi di stato, senza però che l’avvicendamento delle forze al potere causasse violenze diffuse. Le cose sono andate molto diversamente nel 2023, quando un tentato golpe ha innescato una lotta senza quartiere tra l’esercito sudanese e le Forze di Supporto Rapido (RSF), discendenti di quei Janjaweed che vent’anni fa hanno massacrato impunemente gli abitanti del Darfur. A quasi due anni dall’inizio delle ostilità, la crisi in Sudan è una delle più gravi al mondo, come vi abbiamo raccontato nella nostra intervista agli operatori umanitari bergamaschi in Sudan. E proprio al Paese nilotico è dedicato l’incontro «Goodbye Sudan» di stasera, venerdì 17 gennaio alle 20:45, in programma alla Fondazione Serughetti - La Porta, con Francesco Mazzucotelli (docente di Storia e Cultura del Medio Oriente all’Università di Pavia) e Giorgio Musso (che insegna Storia e Istituzioni dell’Africa all’Università di Genova).
Economia, potere, interessi internazionali: alle radici della guerra civile in Sudan
I due protagonisti del conflitto sono Abdel Fattah al-Burhan e Mohammed “Hemedti” Dagalo. Il primo è il Presidente del Consiglio Sovrano di Transizione del Sudan (l’organo militare che governa il Paese dal 2021), mentre il secondo è il comandate delle RSF, nonché delfino di al-Burhan fino a un paio d’anni fa. L’inversione di rotta di Hemedti - da “secondo” del Presidente sudanese a suo più strenuo avversario - è avvenuta quando al-Burhan ha deciso di mantenere il potere a tempo indeterminato, chiudendo a qualsiasi prospettiva di successione del suo braccio destro. Le tensioni sono esplose con il tentativo governativo di integrare le RSF nell’esercito nazionale: di fronte a una proposta del genere, Hemedti si è visto privato della forza militare alle sue dipendenze, ovvero della sua principale leva sul potere politico.
Per di più, le Forze di Supporto Rapido contano 150.000 effettivi, 30.000 in più dell’esercito sudanese: perdendo la sua forza paramilitare, insomma, Hemedti avrebbe fatto un gran regalo ad Al-Burhan e sarebbe scivolato nell’oblio politico. Ma spiegare la guerra civile in Sudan come una contrapposizione tra due uomini forti - per quanto carismatici e potenti - sarebbe riduttivo. Proprio da qui parte la nostra conversazione con Giorgio Musso.
BA: Quali sono gli antefatti della guerra civile del 2023 in Sudan?
GM: Come spesso accade in Africa, quello sudanese è l’ultimo conflitto in una lunga serie di guerre che hanno afflitto il Paese a causa delle disfunzioni dello Stato postcoloniale. Il Sudan ha vissuto un momento rivoluzionario nel 2019, quando la popolazione è scesa in piazza per protestare contro le autorità: si è trattato di uno stravolgimento non dissimile dalle primavere arabe in Egitto, Siria e Libia del 2011: il popolo ha fatto crollare un regime che era al potere dal 1989 e che aveva attraversato guerre, divisioni intestine e persino l’11 settembre. In seguito alle rivoluzioni, avrebbe dovuto aprirsi un processo di riforma che, nelle speranze dei manifestanti, avrebbe portato alla formazione di un governo legittimo e rappresentativo delle istanze popolari. Invece, l’esercito si è rifiutato di cedere il potere ai civili. E in Sudan l’esercito è potentissimo: la sua influenza non è solo politica, ma anche economica, perché è l’apparato militare a gestire le fabbriche che producono le armi - settore sviluppatissimo nel Paese - e l’industria pesante, a possedere i terreni e via dicendo. Ecco, l’esercito, che inizialmente aveva accettato un governo con una componente militare e una civile che eventualmente avrebbe portato a una democrazia piena, si è rimangiato le sue promesse e, nel 2021, ha assunto il potere in maniera totale.
BA: Dopo il 2021, al-Burhan e Hemedti hanno assunto ruoli centrali e contrapposti nella politica sudanese: quali?
GM: Nel contesto post-rivoluzionario, è entrato in gioco Abdel Fattah al-Burhan, allora capo dell’esercito, che è asceso alla posizione di Presidente del Consiglio Sovrano del Sudan alla fine del 2021. Nessuno aveva però previsto l’apertura di una spaccatura all’interno delle forze armate, che si è verificata nel 2022 tra Al-Burhan e le Forze di Supporto Rapido di Mohammed “Hemedti” Dagalo. Le RSF sono una milizia nata nel 2003 per reprimere le rivolte in Darfur, che poi è diventata la “guardia pretoriana” del dittatore al-Bashir, rovesciato nel 2019. Le forze speciali di Hemedti hanno anche combattuto i ribelli Houthi in Yemen per conto dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, ottenendo in cambio lauti pagamenti e il sostegno politico dei Paesi arabi. Inoltre, le RSF sono legate ai mercenari russi Wagner, che oggi hanno un ruolo importantissimo nella politica della Repubblica Centrafricana, al confine con il Darfur. Quando, nel 2023, l’esercito regolare di al-Burhan ha tentato di integrare le RSF, esse si sono rifiutate di scendere a patti e hanno fatto leva sui loro contatti politici e sulle loro risorse economiche - derivate anche dallo sfruttamento privatistico delle miniere d’oro sudanesi - per dare inizio a una guerra civile.
BA: Nel 2003, le RSF si sono macchiate del genocidio della popolazione africana in Darfur. Com’è la situazione in Darfur oggi, dopo la ripresa della guerra civile?
GM: Le RSF sono gli eredi dei Janjaweed, le milizie arabe che hanno eseguito materialmente il genocidio in Darfur. Con il tempo, le violenze nella regione si sono ridotte, pur senza spegnersi del tutto. Khartoum non è mai riuscita a sedare completamente le tensioni interetniche, che sono nuovamente esplose con la ripresa del conflitto nel 2023. Oggi, la situazione è tutt’altro che sotto controllo. Recentemente, il Segretario di Stato americano uscente Anthony Blinken ha affermato che in Darfur si è consumato un secondo genocidio per mano delle RSF: per questo, gli Stati Uniti hanno sottoposto la milizia e alcune sue compagnie collegate (con sede negli Emirati Arabi Uniti) a dure sanzioni economiche. L’effettiva efficacia di questa mossa è tutta da vedere: io la considero come un tentativo di salvaguardare la “legacy” della Presidenza Biden, cioè di lasciare la Casa Bianca dalla “parte giusta della storia”, dopo aver ritardato a lungo qualsiasi intervento in Sudan.
BA: Quali sono le caratteristiche particolari di questa guerra civile? Cosa la rende diversa dal conflitto sudanese del 2003-2020 e dalle altre guerre africane?
GM: Un fatto inedito è che la guerra coinvolge la capitale. I conflitti che il Sudan ha vissuto dopo l’indipendenza hanno sempre risparmiato Khartoum, che invece ora è sotto assedio. Questa evoluzione indica che la guerra civile è diventata un’esperienza totalizzante per il Paese. Nonostante ciò, si tratta di un evento che spesso viene tralasciato dai media internazionali: le crisi in Ucraina e a Gaza hanno goduto di maggior risalto nelle cronache, forse perché sono contesti più vicini ai nostri interessi, alla nostra storia e alla nostra geopolitica. Inoltre, tra le opinioni pubbliche occidentali c’è una diffusa abitudine ai conflitti africani. C’è l’idea che sia normale che l’Africa venga martoriata dalle guerre, ma in realtà quella africana non è un’eccezione rispetto al resto del pianeta: nel nostro mondo, quello che Papa Francesco ha descritto al meglio parlando di “terza guerra mondiale a pezzi”, le guerre e le violenze sono ovunque, i conflitti ci sono dappertutto - non solo in Africa. Come nel resto del mondo, le guerre in Africa hanno ragioni politiche. Non sono dovute al tribalismo o al fatto che le società africane siano più inclini delle altre alla violenza. Tutte le guerre sono violente, terribili, cruente e disumane, e quelle africane non sono più disumane delle altre. Basta vedere la violenza di Gaza e dell’Ucraina, oppure quella dei Balcani a fine Novecento, per capirlo.
BA: Ci sono delle prospettive per una risoluzione del conflitto nel breve-medio periodo?
GM: Il primo dato da sottolineare è che i due contendenti non voglio dialogare. Questo punto fermo è stato ribadito di fronte all’inviato speciale dell’amministrazione Biden. Me l’hanno confermato anche degli amici diplomatici italiani che si sono recati in Sudan qualche mese fa: il governo è cordiale, ma non è affatto interessato ad alcun colloquio con le RSF. Forse perché al-Burhan spera di vincere: a ottobre, il Governo ha avviato una vasta operazione militare di riconquista delle aree occupate dalle Forze di Supporto Rapido, con il sostegno militare di Turchia ed Egitto. Pochi giorni fa, l’esercito regolare ha ripreso il controllo di Wad Madani, la seconda città più importante del Paese dopo Khartoum e che in precedenza era stata occupata dalle forze di Hemedti. Però, le RSF occupano ancora completamente il Darfur, che d’altro canto resta la regione dove il gruppo ha le sue origini e le sue radici».
BA: E sul lungo periodo?
GM: Alla fine, credo che il Sudan farà la stessa fine della Libia: uno Stato formalmente unito e monolitico, ma in realtà diviso in due aree di influenza e di potere, con governi autonomi l’uno dall’altro, che godono di un riconoscimento internazionale variabile (a seconda della convenienza politica) e che convivono a forza all’interno dello stesso Paese. Spesso parliamo di queste situazioni come di “conflitti a bassa intensità”. In realtà si tratta di una vera e propria dissoluzione dello Stato, dove a farlo da padrone sono la disgregazione dell’economia, il mercato nero, il contrabbando e la violenza.