I capelli corvini le incorniciano il viso, truccato con cura e illuminato sugli zigomi. Roxana sorride quando le scatto una foto di fronte all’insegna di quella che, fino a quel momento, credevo fosse un’agenzia viaggi. «Danubiana» è invece il nome di un negozio di alimentari dell’est Europa e si trova alle porte di Bergamo, in via Bonomelli. Appena varchiamo la soglia del minimarket, la giovane osserva i numerosi prodotti disposti sugli scaffali e si ferma di fronte a delle foglie di verza, indicandomele: «Mia mamma le compra qui per cucinare il “sarmale”, degli involtini di riso e carne. Mi ricordano casa. Di solito – aggiunge mostrandomi una foto del piatto – li accompagniamo con la polenta, un po’ come a Bergamo!».
Roxana è nata a Ploiești, città a sud della Romania, a un’oretta da Bucarest, la capitale. È a Bergamo da 15 anni, come dimostra l’accento della Val Brembana, ormai diventata casa sua. Mi conduce nel Danubiana market tra i barattoli di « Patè de Pui », sottaceti e spezie, con la sicurezza di chi sa bene dove si trova. «Questo è proprio del mio Paese» commenta di tanto in tanto, prendendo ora un sacchetto di semi di girasole (da mangiare come snack), ora una tavoletta di cioccolata chiamata «ROM Cel Dublu», incartata in una confezione rossa, gialla e blu, i colori della bandiera rumena.
Roxana è abituata a muoversi nel piccolo alimentari, dato che lo ha scelto come tappa del suo itinerario «La diversità a pochi passi» ideato per Migrantour Bergamo . Si tratta del progetto di turismo responsabile della Cooperativa Ruah che promuove la scoperta e la valorizzazione delle diverse culture esistenti in città, attraverso alcune “passeggiate interculturali”, condotte da guide con background migratorio. Migrantour, però, è solo un pezzetto del lavoro di Roxana a Bergamo. Per sensibilizzare, dialogare e includere è infatti necessario capirsi.
Quando aveva 18 anni, la giovane raggiunse la mamma a Bergamo e da allora non abbandonò più la città dei Mille. Si iscrisse all’università per studiare cinese, ma il suo ostacolo maggiore fu imparare l’italiano e integrarsi nella nuova realtà, dove non conosceva nessuno a parte la madre. «La barriera linguistica fu molto difficile da superare per me e mi fece soffrire molto» mi confida mentre usciamo dal negozio e ci infiliamo in un bar, vicino alla stazione. «Mi sentivo come in una bolla. Ero molto sola. È stato tutto in salita» continua ripercorrendo gli anni di studio superati con fatica.
«Allora ero anche più timida ed introversa. Mi ricordo che, quando ero ancora in Romania e stavo ritirando i documenti per venire qui, una funzionaria mi disse: “Se in Italia vuoi sopravvivere, devi cambiare carattere! Ti mangeranno viva così timida!”». Ridacchia mentre ricorda quell’episodio, che all’epoca però l’aveva messa fortemente in guardia rispetto alla cultura italiana. Il suo atteggiamento introverso e la scarsa conoscenza dell’italiano, in effetti, le generarono all’inizio disagio e frustrazione. «Affrontare tutto da sola sarebbe stato molto difficile – racconta – Per fortuna, i miei amici dell’università mi diedero una mano».
Da quegli anni problematici e dal sollievo provato grazie a qualche supporto, nacque in Roxana il desiderio di aiutare chi si sarebbe trovato nella sua stessa situazione: «Ho deciso di formarmi per diventare mediatrice interculturale». Un ruolo delicato e necessario, un ponte fra i nuovi arrivati e chi è nato qui. «Ho vissuto sulla mia pelle la mancanza e la necessità di avere qualcuno che capisse davvero come mi sentivo. Per questo oggi faccio questo lavoro, che è molto diverso da quello di “traduttrice”» spiega la giovane, invitandomi a confrontarmi anche con Nada Charara, la coordinatrice del servizio di mediazione interculturale della Cooperativa Ruah, con cui aveva frequentato il corso di formazione.
«Si tratta di un lavoro che va oltre la mediazione linguistica - mi conferma la sua referente, di origine libanese e mediatrice dal 2000 – In tutti gli ambiti di intervento il mediatore non è solo colui che traduce, ma è soprattutto colui che aiuta a comprendere un sistema. Il problema è che molti invece vedono il mediatore solo come interprete e quindi chiedono unicamente “interventi a chiamata”. In realtà, la mediazione è un percorso: il risultato può essere efficace solo quando c’è una continuità di lavoro strutturale in equipe».
È dello stesso parere anche Eleonora Beschi, Vicepresidente di Progettazione impresa sociale , altra Onlus con cui collabora Roxana. «Il lavoro del mediatore spesso si presta a una logica erogativa, cioè risponde a un bisogno specifico: per esempio, una mamma di origine straniera che vuole fare un colloquio con l’insegnante. In questo modo, però, oltre a essere molto dispersivo per gli operatori (insegnanti, assistenti sociali…) non permette ai cittadini stessi di attivarsi e di diventare risorsa per il territorio». Per questo, Progettazione impresa sociale cerca di proporre un modello di “mediazione di comunità”: «Il mediatore può aiutare a risolvere gli “incidenti interculturali” e dare una possibilità di lettura in più a certi fenomeni, che altrimenti verrebbero recepiti solo in base ai propri riferimenti culturali. Dietro la cultura c’è sempre la persona».
Il ruolo del mediatore interculturale è quindi ancora poco riconosciuto e compreso dai non addetti ai lavori: in Italia manca un quadro normativo unificato per definire il suo profilo professionale, le qualifiche, le mansioni e l’inquadramento contrattuale. I riferimenti a questa figura si ritrovano sparsi nella normativa in materia di immigrazione e in alcune norme di settore, ma la situazione varia da regione a regione, certe volte anche da comune a comune. Queste criticità rischiano allora di inficiare il lavoro di chi, come Roxana, potrebbe fare la differenza in diversi ambiti, grazie alla sua professionalità e alla sua esperienza personale. Le aree di intervento principali sono infatti luoghi di “cura”: scuole, ospedali, consultori, C.p.s (Centro Psico Sociale) e all’interno dei progetti SAI (Sistema Accoglienza Integrazione).
Parte del lavoro di Roxana è proprio negli istituti comprensivi, a supporto degli studenti “NAI”, ovvero gli alunni stranieri inseriti per la prima volta nel sistema scolastico italiano. «I bambini appena arrivati non sanno come approcciarsi alla situazione nuova in cui si ritrovano e quindi spesso si sentono stupidi, isolati. In Romania, per esempio, la scuola inizia a 7 anni ed è molto diversa da quella italiana» racconta la giovane che, anche se a un’età diversa, ha vissuto un disagio simile. La mediazione di figure professionali come lei diventa quindi fondamentale per far comprendere ai docenti le difficoltà vissute dai minori, costretti a subire le scelte dei genitori e a trasferirsi in un nuovo Paese.
Dopo un primo passaggio di programmazione con gli insegnanti – apprendo da Roxana – il mediatore accoglie l’alunno neoarrivato in lingua madre, ricostruendo il suo pregresso scolastico e di vita nel paese d’origine, oltre ad approfondire il progetto migratorio familiare con i genitori. Il mediatore propone all’alunno, sempre in lingua madre, alcuni test di ingresso preparati dai docenti per valutare le competenze scolastiche maturate nel paese d’origine, al fine di predisporre un piano didattico personalizzato che tenga in considerazione ciò che l’alunno già sa. «Il lavoro del mediatore nelle scuole è anche quello di valorizzare la lingua madre e la cultura d’origine di ciascuno» conferma Valeria Buelli, assistente sociale di formazione, da cinque anni referente del servizio Intercultura nell’ambito della Val Seriana.
«Fare mediazione significa dare un’opportunità di incontro e di conoscenza reciproca in cui non ci si deve negare. Talvolta, purtroppo, alcuni bimbi stranieri di seconda generazione tendono a voler nascondere le proprie radici». È fondamentale allora fare una “formazione all’approccio”, conclude Buelli, per «riconoscere quello che ci sciocca all’interno di un’altra cultura e dargli un significato».
Forse questo è proprio ciò che ha dovuto fare Roxana quando dovette «crearsi casa» dove non c’era nulla. Forse, la mediazione può essere per tutti un esercizio di sguardo sull’altro.
(Tutte le foto sono di Federica Pirola)