Hannah Arendt (Hannover, 14 ottobre 1906 – New York, 4 dicembre 1975) ha certamente bisogno di poche presentazioni: è stata una politologa, filosofa e storica tedesca e ebrea, naturalizzata statunitense. L’appuntamento a lei dedicato del 15 febbraio alle 20 sarà vedrà protagonista Alessandra Papa, Professore Ordinario di Filosofia Morale dell’Università Cattolica, dove tiene i corsi di Filosofia della Persona, Filosofia della Prassi Umana e Antropologia filosofica.
Studiosa del pensiero femminile, in particolare di Hannah Arendt, a cui ha dedicato vari testi, l’oggetto degli studi di Papa è il natality, l’agire responsabile, il male e la dimensione politica del pensare. Le sue ultime ricerche hanno come scopo quello di individuare una antropologia natale in grado di rispondere ai diversi interrogativi della condizione umana.
Titolo dell’incontro è “Nati per incominciare”, come l’omonimo saggio dedicato alla vita e alla politica di Arendt in cui Alessandra Papa analizza come la pensatrice si sia distaccata dai moduli di pensiero occidentali e attraverso il concetto di natality abbia ripensato gli assetti antropologici e la politica stessa. Una ricerca sul legame tra agire e iniziare, che proprio nella facoltà di iniziare qualcosa di nuovo fa di noi esseri incondizionati, capaci di interrompere il già dato, di sottrarsi cioè all’implacabile.
CD: Thaúma è un termine greco, etimologicamente riconducibile alla visione e alla contemplazione, ovvero la parificazione dell’atto del conoscere all’atto del vedere, in senso di stupore. Come si inserisce il pensiero arendtiano in ciò?
AP: Ho proposto un intervento su Hannah Arendt per i suoi studi legati alla filosofia generativa e della nascita. Mi muovo in un solco inusuale della filosofia perché Arendt è una pensatrice un po’ fuori sistema, una sorta di “battitrice libera”, che investe nel pensiero della filosofia generativa del venire al mondo con il tema natality, categoria piuttosto inusuale e affatto praticata nella tradizione filosofica. Il mio contributo a Noesis si inserisce pertanto in questo senso: il venire al mondo come primo atto di meraviglia nei confronti della vita. “Ciascuno di noi è a suo modo uno spettacolo”, dice Arendt, appariamo agli altri con il nostro corpo e da lì inizia l’avventura della vita e la nostra esistenza.
CD: In che modo crede che Arendt abbia avuto uno sguardo innovativo e, personalmente, cosa l’ha spinta a seguire il tema del natality e la ricerca su di esso?
AP: Mi sono imbattuta in lei quando avevo appena vent’anni e da quel momento è sempre stata il mio riferimento. Fu una pensatrice estremamente nuova e originale, in filosofia non c’era mai stata un’attenzione tanto alta, pensante e colta, nei confronti del gesto di venire al mondo. Sin dai temi dei greci l’uomo ha valore in funzione del fatto che incontra la morte. È sempre esistito alla base della filosofia questo fraintendimento, questo compito luttuoso, che però ad Arendt stava stretto (peraltro fu testimone in prima persona di enormi lutti). Perciò ha cercato di allontanarsi da quella che viene definita in filosofia meditatio mortis, ovvero l’idea che la morte sia l’unica benefattrice dell’umano e che l’uomo abbia valore in funzione del fatto che incontrerà la morte. Hanna Arendt si porta fuori da questa tradizione, perfettamente incarnata da colui che viene erroneamente considerato il suo maestro, Martin Heidegger.
CD: Quello della nascita è un tema che Hannah Arendt pone come novità assoluta rispetto alla dimensione filosofica, questo fu uno dei temi che la resero una voce fuori dal coro.
AP: Sin dai suoi primi lavori, da “Il concetto d’amore in Agostino” a “Rahel Varnhagen. Storia di un’ebrea”, in un mutuo dialogo con Heidegger, è evidente il suo tentativo di portarsi lontano dallo Sein-zum-Tode, ovvero il concetto di “essere per la morte”. Questo l’ha spinta a seguire piste investigative nuove e diverse, pur essendo lei grande amante dei classici e dei greci, è da subito evidente il suo gusto per la filosofia della vita, venire al mondo è per lei la prima azione di cui siamo capaci. Arendt è una teorica dell’agire comunicativo, della politica, mai si definì una filosofa, perché aveva visto fallire la filosofia del Novecento. Il compito della filosofia sarebbe quello di insegnaci a pensare criticamente, ad emettere istanze, in un certo senso a salvaguardare l’essere umano, invece grandi filosofi come appunto Martin Heidegger avevano inseguito le sirene dell’hitlerismo, cadendo vittime dell’ideologia.
CD: Si concentrò sul legame tra agire e iniziare, attraverso la conoscenza delle condizioni che rendono possibile l’azione e il comportamento politico, discostandosi dal pensiero classico radicato sull’aristotelico divenire (ogni cosa nasce e muore).
AP: Da teorica politica comincia da subito a battere la pista del natality come categoria di pensiero. Fu una pensatrice coraggiosa perché fece di colpo deflagrare l’orto categoriale tradizionale, quello aristotelico, kafkiano, quell’impianto che aveva sostenuto la riflessione filosofica per millenni. La sua proposta è invece di pensare l’essere umano e comprenderlo, solo ed esclusivamente, a partire dallo straordinario fatto della nascita, momento in cui siamo capaci di inserirci tra altri esseri umani, nell’infra, con la nostra unicità e diversità.
CD: Come diceva, si rifiutò di appartenere al “circolo dei filosofi”, sentendosi piuttosto di individuare il proprio Beruf, il lavoro, nella teoria politica.
AP: Non ha mai amato i professionismi in filosofia, per questo è stata estremamente libera, discostandosi da coloro che chiamava denker von gewerbe (pensatori di mestiere, ndr). Ha rivendicato per sé di non avere pesi alle caviglie e si è fatta testimone degli avvenimenti del Novecento. Parlava di se stessa come di una teorica politica, non certo per disaffezione, semmai per umiltà e necessità di rompere con una “certa” filosofia accademica dei circoli elitari. Per Arendt, era fondamentale che il pensiero potesse arrivare a tutti. La scelta di pubblicare i suoi articoli, raccolti in seguito in “La banalità del male”, su una rivista patinata come “The New Yorker”, risultò un gesto estremamente scandaloso in quegli anni. Il suo progetto di filosofia era certamente molto moderno e in questo senso è stata uno spartiacque, anche per il suo stile di scrittura che la porterà lontano dall’accademia. Chiaramente tutto ciò la espose a dei fraintendimenti, tant’è che è stata scoperta molto tardi.
CD: Arendt non fu una filosofa femminista, rifiutò di aderire al filone di pensiero del movimento, soffermandosi su una visione politica che riguarda l’essere umano nella sua totalità, nella sua pluralità e nella capacità di innovazione.
AP: Lei è donna e il suo modo di fare filosofia è differente proprio perché la sua prospettiva è femminile, contribuendo con nuova linfa a quel mondo. Sebbene lei fosse decisamente conservatrice, arriva a ricoprire un ruolo che fino a prima di lei apparteneva esclusivamente agli uomini. Non era femminista e non ha mai scritto nulla a proposito, ma è stata una figura determinante che ha tracciato la strada con il suo esempio a molte altre donne della sua generazione.
CD: Preso atto del “fallimento” della filosofia del Novecento, che non ha saputo preservare la condizione umana, da docente, quale crede sia il ruolo della filosofia nella società contemporanea?
AP: Questo malessere è qualcosa di antico, anche filosofi come Kant in qualche modo hanno cominciato a ripensare alla filosofia, ne è seguita la stagione straordinaria dei primi del Novecento con la messa in discussione da parte degli antropologi della filosofia finalizzata a quel pensiero che, come direbbe Marx, “dovrebbe risolvere i problemi dell’uomo”. La filosofia nel tempo è stata saccheggiata, dalle sue costole più scientifiche sono nate la sociologia e la pedagogia. Da docente, mi rendo conto che del filosofo ne è stato fatto un personaggio un po’ “salottiero”, più che di lettore dei tempi e della società. Ecco, questa svolta personalmente non mi piace affatto, l’obiettivo della filosofia credo sia quello di formare degli osservatori critici, abituati al pensiero divergente. Certamente un compito difficile, ma di strumenti ce ne sono stati forniti abbondantemente e come diceva Arendt “i giovani devono ripensare il mondo”.