Un libro che è il frutto di un lavoro durato tre anni e che parte dalle “15 proposte per la giustizia sociale” elaborate all’interno del Forum Disuguaglianze e Diversità.
“È l’espressione di idee strategiche e proposte concrete di oltre cento persone, della missione del Forum: contrastare le disuguaglianze e accrescere la giustizia sociale e ambientale nello spirito dell’articolo 3 della nostra Costituzione”.
MR: A chi parlano queste quindici proposte per la giustizia sociale?
FB: A tutti coloro che credono a questo obiettivo e a coloro che svolgono funzioni dirigenti e quindi hanno la possibilità di attuare quelle proposte. Parlano anche al senso comune. Siamo bloccati non solo perché abbiamo fatto politiche sbagliate ma anche perché è maturato un senso comune di rinuncia che non crede più esista un’alternativa, un modo di star meglio. Se c’è la rinuncia, non c’è nulla. Il libro si pone anche l’obiettivo di modificare il senso comune.
MR: Giustizia sociale, diritti, lotta alle disuguaglianze: temi lontani dalle agende politiche e dalla percezione dell’opinione pubblica. Il rischio è che diventino ritornelli di una nicchia progressista che parla a sé stessa…
FB: “Il rischio che divenga un ritornello” mi sembra l’espressione più importante perché è graffiante. Non lo è per il 70% della popolazione che sta molto male o che sa potrebbe stare meglio. La disuguaglianza è una questione economica, di accesso ai servizi, alla qualità della scuola, alla salute. E anche una questione di riconoscimento: quanti di noi avvertono che il proprio ruolo nella società, il proprio lavoro, non è riconosciuto? La battaglia alle disuguaglianze è un ritornello? Sì, lo è, ma le nostre proposte non lo sono perché si animano di un’operatività di fronte alla quale devi essere o contrario o favorevole. Bisogna uccidere il ritornello. La nostra proposta è operativa, istruita, attuabile. Chiarito questo, sulla classe dirigente il punto diventa interessantissimo.
MR: Cioè?
FB: Se uno legge il discorso straordinario della presidente della Commissione Europea, una donna non necessariamente vicina ai progressisti, trova un’altra roba rispetto al linguaggio stantio e tecnicistico degli ultimi vent’anni. Legge emozioni e cose concrete, una fortissima consapevolezza della necessità di svolta radicale. Questa emozione e convincimento non si trova nelle classi dirigenti italiane. È così, ed è il tema di questa fase. La presidente della commissione europea ha capito una cosa che la nostra classe dirigente non ha capito: per aumentare la produttività di un paese che ce l’ha bloccata da vent’anni, devi aumentare la giustizia sociale e ambientale. Questi due aspetti sono operativamente il volano di sviluppo e produttività che andiamo cercando.
MR: Nel libro si parla proprio di giustizia sociale e ambientale come di due vasi comunicanti. Che rapporto specifico avete individuato?
FB: I primi beneficiari degli interventi a tutela del sistema ecologico devono essere quelli che stanno peggio: molto semplice. Troppo a lungo, in alcune proposte, è sembrato che i beneficiari dovessero essere i più abbienti, quelli che si possono permettere di occuparsi dell’ambiente. Nelle nostre proposte gli interventi sono nelle periferie urbane e verso coloro che stanno peggio. Questa riunificazione è fondamentale. Studi accademici raffinatissimi usciti novanta giorni fa ci dicono che l’Italia è posizionata tra i top tre del mondo nelle produzioni verdi, per la tipologia delle produzioni e le caratteristiche naturali del Paese. Può l’Italia puntare su questo? Sì.
MR: E in che modo?
FB: Un esempio classico. Vogliamo puntare tutto sulle auto elettriche o sui servizi pubblici elettrici? È una differenza come tra il sole e la luna. Se punto sulla mobilità elettrica sto facendo un intervento sull’elettricità verde prodotta in modo appropriato, è un’operazione ambientale e ridà accesso alla mobilità di qualità ai cittadini delle aree rurali e delle periferie che oggi hanno una pessima mobilità. Il circolo è possibile: giustizia sociale, giustizia ambientale, aumento della produttività e del lavoro. Non c’è contrapposizione tra occupazione e attenzione ambientale. Se si fa strategia, l’attenzione ambientale è amica dell’occupazione.
MR: L’elaborazione di “Un futuro più giusto” precede la pandemia. Come si rinnova alla luce della situazione attuale?
FB: Abbiamo capito che, purtroppo, le nostre proposte erano terribilmente adatte al post-Covid. Il Covid ha semplicemente aperto le faglie che già c’erano, ma ha anche attivato dei cambiamenti nelle preferenze delle persone: il cibo, il modo in cui spendere il tempo libero, l’approvvigionamento energetico, il “dove lavoro”. Ha attivato un cambiamento di preferenze – per dirla alla Kelvin Lancaster – che è domanda sul mercato: servizi di cura, turismo di prossimità, cibo a km zero, energia prodotta in piccole misure, housing sociale: cinque cose concretissime. Per questo i governi (nazionali, regionali, comunali) dovrebbero ascoltare: le politiche servono ad assecondare i processi positivi di un paese, non a inventarsene di nuovi. Non ho citato la nostra attenzione alla cura delle persone: salute e sociale devono stare insieme. C’è stata una disgiunzione tra questi due aspetti che in Lombardia, ad esempio, è apparsa eclatante. È in corso un cambio di consapevolezza del presente straordinario, è un’occasione per il Paese.
MR: Naomi Klein ha parlato di “Shock economy” e di “capitalismo dei disastri”. In un articolo sul The Guardian ha usato il termine “Screen New Deal” per riferirsi al vasto campo di “conquista” apertosi, con la pandemia, di fronte alle grandi compagnie tecnologiche. Come affrontate le grandi questioni del cambiamento tecnologico?
FB: La nostra parola fondamentale è biforcazioni. Ogni trasformazione tecnologica della storia, ogni shock, apre sempre biforcazioni. Trent’anni di neoliberismo ci hanno raccontato che era tutto scritto. Nulla è scritto. Abbiamo rinunciato a vedere le biforcazioni, abbandonando le piattaforme digitali nelle mani delle corporation. Era scritto? No. In questo momento le grandi corporation stanno incassando profitti straordinari. È inevitabile? No. C’è un’alternativa? Sì.
MR: Quale?
FB: La Presidente della Commissione Europea individua un triplete, chiamiamolo così, per un futuro più giusto sul tema della trasformazione digitale. Primo, imporre delle modalità di cloud europee. Secondo, chiusura del gap digitale nella copertura e nell’istruzione. Terzo, importantissimo, introdurre in Europa legislazioni che impediscano di subire senza reazione le decisioni degli algoritmi. Questa è lei che parla. Noi, come Forum, ne proponiamo una quarta: un’impresa pubblica digitale europea che competa con i grandi Moloch privati e le corporation, come facemmo con l’Eni nel Dopoguerra quando si trattava di rompere il monopolio delle Sette Sorelle. L’Italia non sarebbe dov’è se non l’avessimo fatto. Se sei consapevole che ci sono biforcazioni, ci lavori. Chi dice che non ci sono sbaglia enormemente ed è amico dei monopoli.
MR: Lei parla spesso di un “ripensamento” del capitalismo. Cosa intende esattamente?
FB: Mi piace associare due economisti, Paolo Sylos Labini e un altro moderno, Branco Milanovich. Messi insieme ci dicono che il capitalismo, essendo fondato non solo sul mercato ma sulla concentrazione del controllo, lasciato da solo degenera. Quando si incontra con la democrazia il capitalismo è flessibile e si adatta alla democrazia. Più spingi, più fai pesare la voce del lavoro e dai potere ai cittadini, più il capitalismo si adatta, si ritira, rinuncia a profitti di monopolio, fa profitti giusti. Se il capitalismo del Dopoguerra poteva permettersi un divario tra il top manager e il lavoratore che secondo Olivetti era di venti a uno, oggi stiamo a mille a uno. E se oggi sta a mille la colpa è della debolezza della democrazia. Un altro capitalismo è sfruttare tutti gli spazi che è costretto a darti.