Una persona ha un ristorante, decide che un’altra persona con la pelle diversa dalla sua non può più entrare. Una persona bianca ha un ristorante e decide che un’altra persona con la pelle diversa dalla sua non può più entrare. Una persona nera ha un ristorante e decide che le persone con la pelle diversa dalla sua non possono più entrare. Questo è il razzismo come lo descrive Geneviève Makaping. Niente termini pomposi da intellettuali, ma pane al pane: quando questa persona riconoscerà che potrebbe trovarsi lei a subire le discriminazioni di qualcun altro, e ne soffriranno entrambi.
Una persona ha un ristorante in cui entrano persone con la pelle di tutti i colori, tutte le persone scelgono i loro piatti preferiti dal menù cucinati con amore e mangiano tranquille, la persona che ha il ristorante si mantiene con la sua attività. Se le persone con la pelle diversa non potranno più entrare, non potranno più mangiare piatti cucinati con amore. La persona che ha il ristorante avrà quindi solo persone con la pelle del suo stesso colore ai tavoli, ma avrebbe potuto averne di più e vivere meglio, soddisfatta che i suoi piatti vengano apprezzati da tante persone diverse: «è bello essere apprezzati per quello che si fa con amore, fa star bene».
«Chiamiamo le cose per quello che sono» spiega la professoressa Makaping, scrittrice, antropologa e giornalista, autrice del libro «Traiettorie di sguardi. E se gli altri foste voi?», in cui ripercorre il viaggio dalla terra madre Camerun all’Italia, dove è arrivata nel 1982. Un po’ autobiografia, un po’ atto di denuncia del razzismo nell’Italia contemporanea, il libro sottolinea il modo in cui diverse forme di disuguaglianza − razza, colore, genere, classe − si intersechino e si rafforzino a vicenda, oltre a offrire un’analisi evocativa sul legame tra sessismo e razzismo in Italia e ad alzare la voce contro la narrazione mediatica degli immigrati nel paese, che dal 1982 è diventato la sua casa. Non c’è bisogno di usare paroloni o di salire in cattedra, anzi, bisogna semplificare: «il razzismo è così profondamente presente da apparire naturale – scrive – Io lo conosco il razzismo, e comporta molte ingiustizie che nessuno ha il diritto di commettere».
Tradotto anche in inglese, il libro di Geneviève Makaping sarà protagonista di «Integrazione Film Festival» domani alle 18.30 allo Spazio Eventi Agorà di Daste (via Daste e Spalenga, zona Celadina, Bergamo); inaugurata ieri, la rassegna ospiterà anche la proiezione di «Maka», il documentario diretto da Elia Moutamid, scritto con Simone Brioni, che ripercorre il difficile viaggio e la vita in Italia di Geneviève Makaping,
«Siamo tante cose insieme» . Noi che siamo parte di un solo genere umano
Professoressa di lingua e cultura francese alla Fondazione Universitaria di Mantova e di lingua e cultura inglese nelle scuole superiori di Mantova e provincia dal 2013, Makaping ha un dottorato di ricerca in «Tecnologie didattiche multimediali e sistemi di comunicazione» presso l’Università della Calabria, dove ha insegnato antropologia culturale dal 1999 al 2012. È stata la prima direttrice nera del quotidiano «La Provincia cosentina» e della tv locale Metrosat.
«Una donna è tante cose insieme, è una madre, è una lavoratrice, è una compagna, è colei che cura, è l’insegnante, è tante cose e questo pertiene a ciascuno essere umano – spiega – La mia critica all’Occidente è che ha voluto atomizzare l’essere umano pensando che fosse una sola cosa ben definita: per esempio “ah, quello l’è un dutur!”. Sarà pure un dutur e con tutto il rispetto, ma è anche tante cose, un fratello, un padre, un vicino, è tante cose insieme». «Il genere umano è uno solo, noi siamo tante cose insieme. Nessuno mai al mondo ha il monopolio di essere quella cosa da sola, quella sola qualità o quel solo difetto» prosegue la professoressa mantovana. Il genere umano è uno solo fatto di tante persone. Ogni persona è tante cose insieme, contiene un mondo. «Vorrei andare oltre, se noi pensiamo “siamo tante cose insieme”, opposto a “noi siamo una cosa”, vuol dire che stiamo riconoscendo a qualcuno di noi un privilegio nel bene e nel male rispetto al resto dell’umanità».
«Dobbiamo riconoscere a tutti gli esseri umani la capacità di essere tante cose messe insieme, perché ci sono cose che appartengono solo all’essere umano, poi ci sono ambiti in cui ci si può specializzare. La specializzazione non è un fatto di natura, ma di cultura: non nasco così, imparo tante cose e decido che mi voglio specializzare. Ad esempio, un medico italiano – perché noi italiani siamo sempre dappertutto – insieme a una grandissima équipe a livello mondiale in Cina sta pensando di operare due esseri umani, un donatore e un tetraplegico, si utilizzerebbe il cervello del primo per trapiantarlo nel secondo. Quelle sono delle specializzazioni. Un giorno, parlando di un italiano, non posso prendere questo medico a modello per gli italiani, dicendo “ah quella è l’Italia”, no, non è così. Siamo tante cose insieme. L’Italia è anche molto altro, si fanno tante cose insieme».
«Voglio essere io a dire come mi chiamo» . Basta voler apporre dei marchi sugli altri
«Se tu non sai chi tu sei, gli altri si arrogheranno il diritto di dirti chi tu sei. Il che significa che si arrogheranno il diritto di dire e fare di te quello che loro vogliono che tu sia. Non può essere, perché quello si chiama schiavitù. Io ho un nome e voglio essere chiamata con il nome che dico che è mio, mi spiego, non devi essere tu, perfino a dirmi di che colore è la mia pelle». Così Makaping spiega come sia essenziale avere a cuore la propria identità, per definirsi in prima persona.
«È una ragazza di colore, di quale colore? Tu non ne hai? È una ragazza nera. Va beh, vogliamo definirci per il colore della nostra pelle? Allora non offenderti se passi davanti a casa mia e io ti dico “oh guarda c’è una bianca che sta passando”, cioè ti giri, mi guardi e ti girano anche. Ma che modi sono? Perché gli altri devono sottostare a questo? Chiamateli col loro nome. Se non conoscete il loro nome chiedeteglielo, se non lo volete chiedere, chi se ne frega, questo è».
«Quando dissi “Voglio essere io a dire come mi chiamo”, cercavo di parafrasare un discorso molto articolato di Malcom X. A un certo punto dicevo “Chiamatemi negra”, in senso un po’ provocatorio: negra non è che l’ho inventato io, lo dicevano i latini e lo dicono tuttora gli spagnoli e i portoghesi per dire “nero” – spiega la scrittrice – Quindi se tu hai la coscienza tranquillissima, io ti dico sono negra, perché la cosa brucia a te? Non ho capito: la pelle è mia! Questa cosa del voler apporre il marchio sugli altri… ma basta! Oggi i giovani che acculturiamo, i miei studenti, parlo specialmente di quelli dell’università, sono così cresciuti e ci scrivono “Ma prof, ci hai aperto gli occhi, ma cosa è sta roba, ma quanto stavamo nel buio” quando pensavamo che solo noi potessimo nominare, dare un nome agli altri».
«Tutte le disuguaglianze sono uguali» . Nella sofferenza ritroviamo la nostra umanità
«Le ingiustizie sono ingiustizie per tutti, le disuguaglianze sono uguali perché se io subisco e sono vittima di disuguaglianza, anche chi sta al Polo o al Centro America sta subendo la stessa sorte, mentre i privilegi no, non sono uguali – chiarisce la professoressa di origine camerunese – I privilegi appartengono ai privilegiati e sono molto pochi e notiamo in quale parte del mondo vivono. Nel mondo dei privilegiati ci sono vittime anche di disuguaglianze, che guarda caso somigliano molto più a me che vivo o arrivo dall’altra parte del mondo».
«Ecco perché nelle disuguaglianze noi siamo uguali, come dire: nelle sofferenze soffriamo nello stesso modo. Tra le vittime delle disuguaglianze è facile che lì trovi l’umanità. L’umanità sofferente è quella alla quale dovremmo appartenere tutti, non per soffrire, ma per dire tutti insieme che questa cosa è una ingiustizia – ma lo diciamo tutti insieme».
«Sospendere il giudizio» . Come stare davanti all’altro per essere autenticamente umani
«C’è una sola cosa alla quale credo, che è l’istinto di sopravvivenza, quando stiamo per annegare, per istinto di sopravvivenza cerchiamo di uscire e di salvarci. Io sono una culturalista convinta e cioè che noi facciamo delle cose perché da qualche parte le abbiamo apprese, o volontariamente o involontariamente, a casa, all’università, con i compagni. Una cosa che nel frattempo sembra esserci sfuggita è quella che Ugo Fabietti (antropologo che insegnava all’Università Statale di Milano, ndr) chiamava la “sospensione del giudizio”: quel lasso di tempo che non sapremmo mai quantificare, che può essere un attimo o lunghissimo, è quello che ci rende differenti dagli animali. Se uno mi dà uno schiaffo e io ridò lo stesso schiaffo è un atto animalesco, ma se mi dà uno schiaffo e io mi tengo la mano e dico “Perché mi hai schiaffeggiato?”. Quello è un atto di cultura».
«Quello che ci fa passare dallo scatto normale al selvaggio, non parliamo dei nostri antenati, è quando pensiamo che all’altro puoi fare quello che vuoi, che è il peggio. Quello è uno stato di animalità, chiedendo scusa agli animali, che non sono così. Il mio animale totem, il ghepardo che tutti temono, non sbrana nessuno, se non quando deve cacciare per dare da mangiare ai suoi bambini. È istinto. Noi non siamo autorizzati a farlo dal momento in cui abbiamo la capacità di discernimento. Uno che commette un atto di razzismo o inferiorizzazione rispetto a sé stesso è un atto di bestialità nella peggiore accezione, perché lo scarto che noi abbiamo è quello di poter utilizzare le nostre facoltà intellettuali per saper distinguere tra il bene e il male».
« Senza giustizia non può esserci amore ». Abbracciare le diversità in noi e tra noi
Dalla sofferenza e dalla divisione e dalla brutalità che genera il razzismo o in generale la negazione dell’altro, Makaping arriva a uno sguardo che invece sa abbracciare quello che ci è comune in nome del sentimento più alto: «La giustizia è l’espressione stessa dell’amore: la radice è “giusta” e l’amore cosa è? Una cosa giusta – spiega la professoressa – E senza giustizia sociale quelli che sono relegati al margine come possono alzarsi e dire “Io vi amo tutti”? Non può essere. Non si può amare a prescindere, si ama quando c’è amore, quando ci sono le cose giuste; perciò si vedono persone arrabbiatissime di tutte le classi sociali che hanno ragione di esserlo, perché coloro che detengono il potere si sono rimpinzati di privilegi e fanno in modo che i non privilegiati si accapiglino tra di loro. Una banda di giovani che picchiano gli altri sono della stessa classe sociale, andate a vedere chi sono queste persone: sono dello stesso quartiere, a volte anche di classi sociali inferiori rispetto a quelle dei migranti che vorrebbero cacciare». Come si può fare quindi, quale è la via? «Educare gli educatori a educare i nostri figli».