«Che caratteristiche deve avere un bravo giornalista?»: è una domanda semplice, che apre però infinite, potenziali risposte. Eppure, della mia conversazione con Francesca Mannocchi mi resta una risposta chiara quanto la domanda. Reporter di guerra, giornalista e scrittrice, dopo aver coperto situazioni di conflitto in Iraq, Libia, Afghanistan, Yemen, Siria, Libano per testate italiane e internazionali, Mannocchi è oggi inviata per La7 in Ucraina.
L’impressione è di una straordinaria lucidità, che scolpisce la limpidezza della sue risposte e che permea la voce con cui racconta non solo con reportage giornalistici, ma anche con libri, storie a fumetti, documentari e interventi nelle scuole. Nell’attesa di ascoltarla a «Molte Fedi sotto lo stesso cielo» (lunedì 12 settembre alle 17.15 all’ex Chiesa di Sant’Agostino; i posti sono esauriti ma è possibile iscriversi alla lista d’attesa), Mannocchi ci parla del ruolo di chi fa giornalismo, di guerre alla porte di casa, di ingiustizie passate e presenti.
LD: Al «Festival della mente» di Sarzana, la settimana scorsa, hai costruito il tuo intervento partendo dalle fotografie, spiegando come orientano lo sguardo o arrivano a diventare strumento di propaganda. Il ruolo di un reporter è contribuire a una narrazione simile, a volte d’impatto – penso alla famosa foto del corpo di Alan Kurdi, il bambino con la maglietta rossa, sulle spiagge turche – o piuttosto di contrastarla, modulandola?
FM: Io sono per il raccontare sempre il più possibile. Il punto, però, non è cosa far vedere o quanto, ma come lo mostriamo e lo spieghiamo. Quando il nostro scopo è emozionare, ovvero indignare la platea che ci ascolta o ci guarda, non costruiamo una consapevolezza di medio o lungo termine. L’unico risultato è suscitare un’emozione: compassione, vicinanza, solidarietà umana oppure rabbia, sconforto, finanche il desiderio di vendetta, indignazione. Io credo che il nostro ruolo non sia questo, ma piuttosto trovare all’interno delle storie con la s minuscola il senso della Storia, quella grande. Siamo chiamati non tanto a consegnare allo spettatore o al lettore il corpo della vittima, quanto a spiegare perché quel bambino è diventato vittima. Perché un bambino muore nel tentativo di arrivare in Europa? La risposta è, banalmente, perché non esistono vie legali che lo portino a raggiungere la salvezza. Evidentemente noi giornalisti o narratori siamo un po’ distratti dal contesto.
LD: Lavorando sul campo, sei costantemente a contatto con persone immerse in situazioni reali di conflitto, di guerra. Cosa ti colpisce di più di questi incontri che fai e cosa è diverso dall’immagine che possiamo avere noi da lontano?
FM: È una cosa su cui sto riflettendo proprio in questi giorni, perché ho scritto un libro per ragazzi sulla guerra, che sarà pubblicato tra poche settimane. Quando mi chiedevo perché l’avessi fatto, lì per lì non avevo nessuna risposta convincente. Poi ho capito che anch’io sono stata per anni inghiottita dall’idea che raccontare la guerra fosse sostanzialmente il resoconto di un catalogo dei morti. E invece no: c’è chi lotta per sopravvivere e sopravvive. Quindi in realtà il racconto della guerra è un grande racconto della vita che resiste, o perlomeno ci prova.
LD: Quindi cosa cerchi nelle storie delle persone?
FM: Nelle storie delle persone cerco quello che ci rende tutti simili, cioè l’istinto di sopravvivenza. Ognuno ce l’ha modulato nella realtà in cui vive. Ogni scenario mi ha insegnato molto, anche quelli non di conflitto; penso ad esempio al racconto delle zone dimenticate della nostra società, negli anni di pandemia. Chi, come me, si è erroneamente sentito meno esposto al rischio di catalogazione del mondo in realtà ne è influenzato. Le persone, quando le ascolti, ti insegnano sempre che la realtà è tanto diversa da come la si schematizza. E questo vale a Corsico, in periferia di Milano, come a Baghdad.
LD: Il servizio di copertina del numero del Time del 22-29 agosto 2022 presenta interviste a donne afghane rifugiate in varie parti del mondo. Sottolinea i diritti garantiti alle donne sotto l’occupazione USA e l’oscurità in cui è caduto il Paese a distanza di un anno dalla presa del potere dei Talebani. A noi questa narrazione fa comodo, ma in qualche modo è limitata. Cosa non racconta sull’Afghanistan di oggi?
FM: Cosa non racconta sull’Afghanistan di ieri, soprattutto. Che ci siano stati dei semi piantati in vent’anni di occupazione di guerra non c’è dubbio, questo lo dicono i numeri. Dal ‘96 al 2001 il primo governo talebano è stato profondamento oscurantista. Usciti da lì, l’idea di consentire alle ragazze di sedere sui banchi di scuola era un enorme progresso. Ma il tema è che questo processo si è costruito a macchia di leopardo. Le zone che ne sono state attraversate sono perlopiù aree urbane, in cui l’amministrazione era più incline e morbida a un processo di acquisizione dei diritti. Ma altre zone non sono state sfiorate e qui, allora come oggi, l’idea che una donna studi, addirittura lavori è vissuto come una vergogna. Questo 40% di donne parlamentari forse rappresentava noi, ma difficilmente rappresentava l’Afghanistan; forse la popolazione delle aree urbane. Nel menzionare quali sono stati i progressi di vent’anni di occupazione, l’Occidente dovrebbe avere l’onestà intellettuale di ricordare i radicali fallimenti.
LD: Quali sono secondo te i fallimenti più grossi?
FM: A un anno di distanza risulta evidente che la modalità di uscita da questa guerra è stata fallimentare. Questo, peraltro, non ha colore: l’accordo con i Talebani inaugurato dall’amministrazione Trump è stato rinnovato senza condizioni dall’amministrazione Biden. Non ci sono buoni o cattivi in questa storia. Gli Stati Uniti volevano uscire dalla loro guerra più lunga e per riuscirci hanno fatto accordi con gli stessi con cui combattevano vent’anni prima, parte dei gruppi considerati terroristici, escludendo da questo accordo il governo dell’allora Repubblica Islamica e in qualche modo delegittimandolo.
LD: All’edizione 2021 del «Salone del Libro» di Torino lo scrittore iraniano Kader Abdolah, emigrato da decenni in Olanda, alla richiesta dell’intervistatrice di commentare l’«abbandono» dell’Afghanistan da parte dell’Occidente ha fatto questa riflessione: ci sono paesi in cui il livello di miseria è così alto che è necessario prima arrivare a non morire di fame, poi, un giorno, ci sarà spazio per i diritti. Che ne pensi?
FM: Per quello che riguarda l’Afghanistan a questo ragionamento si può aggiungere un tassello: è un paese che per vent’anni ha fatto dipendere, per responsabilità nostra, il 70, 75% delle sue entrate – stipendi dei dipendenti pubblici, parte delle infrastrutture, la scuola, gli ospedali – dagli aiuti esterni. È piuttosto complicato emancipare un paese che dipende quasi interamente da governi finanziatori. Una volta consegnato di fatto il paese ai Talebani, quello stesso Occidente che aveva foraggiato l’Afghanistan per vent’anni ha chiuso i rubinetti, contribuendo ad affamare la popolazione. Non solo: usando anche sanzioni come leva del bisogno e strumento di pressione politica.
LD: In gioco c’è cosa mettere al primo posto: la fame o la politica.
FM: Esiste la fame prima, la politica poi? Non lo so. Io credo che vadano un po’ di pari passo. È vero che le persone devono prima riempire la pancia dei loro figli; e che oggi in Afghanistan c’è più sicurezza di prima, ma banalmente perché le persone che prima si facevano saltare per aria oggi lo governano. Questo è il prezzo della sicurezza: oggi un paese vive senza libertà e lo fa peraltro affamato. Dunque anche la fame è un gesto politico, soprattutto se questa mancata erogazione di fondi che, sottolineo, sono fondi del popolo afghano, vengono trattenuti come strumento di pressione politica.
LD: Il tuo lavoro più recente si è concentrato in Ucraina. Rispetto alle guerre “storiche”, quella in Ucraina ha la caratteristica di essere iper-rappresentata e al tempo stesso distorta: veicolata da social, video virali, tweet... dai tuoi reportage invece emerge una guerra “comune”, tra macerie e sopravvissuti senza cibo né rete elettrica. Dove si gioca davvero questa guerra?
FM: Ti rispondo con le medesime riflessioni che mi hanno animata in questi mesi. Noi siamo inclini a pensare che, vivendo in tempi moderni, le guerre siano in qualche modo diventate meno brutali. Questo non è vero. Se le consideriamo sotto il grande punto di vista di chi le paga, e nei loro effetti, soprattutto, le guerre si somigliano tutte: madri che piangono sulle bare dei bambini, soldati partiti per difendere il proprio paese che tornano in casse di zinco. Ci impressiona di più per una questione di mera quantità, perché l’abbiamo vista di più, ma sotto macerie di altre guerre si moriva allo stesso modo. E quello che è andato peggio nel destino di milioni di altri rifugiati, e parlo solo di guerre recenti, è che nessuno gli ha aperto le porte di casa come lo abbiamo fatto, giustamente, non mi si fraintenda, con i rifugiati che arrivavano dall’Ucraina. Ne parlavo con l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, che ho intervistato proprio a Sarzana. Una tra le tante cose che ci insegna la guerra in Ucraina è proprio la nostra capacità di accoglienza. Ci è voluta questa guerra per farci capire che l’accoglienza è possibile, funziona: si può spiegare alle persone cosa accade intorno a noi e le persone con piacere aprono le porte di casa loro, oltre che i loro cuori. È possibile in termini economici, di solidarietà, di percezione dell’opinione pubblica ed è possibile non utilizzare il dolore degli altri per biechi scopi politici.