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Filamenti #3: perché dovremmo essere tutte (e tutti) femministe

Articolo. Di Mahsa Amini, di Samantha Cristoforetti e di tutte le altre. Come la cultura patriarcale condiziona la vita delle donne e delle minoranze nelle società occidentali e islamiche e come è anche dagli uomini che deve partire il cambiamento. La storia di Marco Frigerio

Lettura 6 min.

Negli ultimi giorni abbiamo assistito alla vicenda di Mahsa Amini , arrestata dalla polizia morale iraniana per non aver indossato l’hijab secondo gli standard di governo. Mahsa è stata picchiata duramente ed è deceduta dopo due giorni in circostanze sospette. La sua morte, come sappiamo, ha generato un’onda di proteste in Iran, che stanno rivoluzionando il paese e che hanno fortissima risonanza internazionale.

Da occidentali ci scandalizziamo all’idea che ci sia una polizia morale che giudichi il corpo e il comportamento delle donne. Ci sentiamo moralmente superiori e mediamente non cogliamo gli elementi di continuità tra la cultura maschilista iraniana e la nostra. Eppure.

È di pochi giorni fa la polemica tutta italiana sui capelli di Samantha Cristoforetti , prima donna europea comandante della Stazione Spaziale Internazionale. Filmata il giorno della celebrazione della sua nomina nella Stazione Spaziale Internazionale, è stata da alcuni criticata perché i suoi capelli – in ovvie condizioni di microgravità dovute al suo essere nello spazio – si muovevano liberi in aria come una bellissima criniera.

Capelli quindi. Quelli di Masha, che spuntando dall’hijab e quelli di Samantha che fluttuano nella microsfera. Capelli che tradiscono, perché disconfermano – pur nell’apparente finitezza del quotidiano – l’ordine costituto , come diceva Fabrizio De André («“Il furto d’amore sarà punito” / disse «dall’ordine costituito”»).

La vicenda di Mahsa e di Samantha, oltre a sconvolgermi per ovvie ragioni, mi fa pensare alla mia di storia. Io sono una grande ustionata, il mio corpo è coperto per più del 50% da profonde cicatrici. Sa il cielo quanti barattoli di fondotinta ho comprato nella mia vita per nascondere le cicatrici sul viso. Quanti per sentirmi «a posto». Paradossalmente se vivessi in un paese islamico non ne avrei bisogno, ma qui in occidente dove vivo mi sento meglio se esco truccata. Perché? Cosa mi lega a Mahsa, a Samantha e a tantissime donne nel mondo?

L’ordine, che senza soluzione di continuità accomuna le società occidentali, capitalistiche a quelle islamiche e molte altre, non è un segreto che sia, il patriarcato. Il patriarcato è un sistema sociale in cui le posizioni di potere sono detenute principalmente da figure che incarnano l’ideale maschile eterosessuale abile – un disabile è per sua natura fuori dal patriarcato – della razza dominante nell’ambiente in cui si esprime (ideale che può essere incarnato e promosso anche dalle donne), a discapito degli altri generi, provenienze, condizioni di abilità e orientamenti affettivi.

Questo sistema agisce come un meccanismo, un dispositivo che promuove tutto ciò che conferma la sua piramide di potere e annienta i tentativi di presa di spazio di persone, che già con la loro semplice presenza nel mondo rappresentano modi di essere altri. Pensiamo alle donne, alle persone di diverse provenienze, ai mondi LGBTQI+, a quelli legati alle disabilità, per dirne alcuni. Il patriarcato giustifica l’ordine costituito , proprio attribuendolo a differenze intrinseche tra uomini – misura “naturale” di tutte le cose – e le altre e gli altri, che uomini non sono. Quindi, va da sé che nell’ottica patriarcale, io come donna, valgo meno di un uomo e come donna disabile valgo meno del meno.

Per intenderci, da donna con cicatrici in tutto il corpo, vengo accettata dal patriarcato quando nascondo le cicatrici o mi conformo all’altrui definizione di «mezza-donna» (quando mi dicono: «poverina»). Invece dal momento in cui mostro le cicatrici con orgoglio la gente, in particolare in Italia, mi fissa in modo non proprio amorevole. Come sottolineava Michel Foucault, i corpi e le pratiche che non rientrano nel sistema, vengono disciplinati dal sistema stesso. Quindi sta male per una donna mostrare le cicatrici perché non è “graziosa” per il maschio. È proibito far spuntare i capelli dall’hijab perché istiga il desiderio dei maschi (come le minigonne). È oltraggioso lasciare i capelli slegati in una navicella spaziale perché non è “grazioso” come donna e non è “decoroso” come scienziata. Doppia disconferma: sono una donna competente e quindi disconfermo il fatto che la professionalità sia solo maschile; sono una donna che non si preoccupa di essere “graziosa” e quindi disconfermo che la donna debba essere sempre disponibile al desiderio del maschio. Per inciso patriarcato è anche quando i corpi delle donne vengono iper-esposti e reificati, cioè ridotti a uno stato di oggetto. Rendere le donne degli oggetti significa svalutarle e non riconoscerle nel diritto della loro piena soggettività, è tipicamente patriarcale – e che dire allora delle donne curvy di cui l’arte è piena.

Il fatto che ci impedisce di leggere la continuità tra la tragica vicenda di Masha e quella tragicomica di Samantha è che tutti e tutte noi siamo immersi nel patriarcato come una bustina di the in una tazza. Siamo talmente immersi in questo sistema da non vederlo. Non vediamo quanto è esteso e condiviso tra diverse culture, quanto è equamente praticato da destra a sinistra, quanto noi stessi – uomini e donne – lo perpetuiamo nei nostri discorsi. Non è solo una questione di genere, ma di pratiche. Anche le donne quando assumono stili maschilisti tossici o per opposto, stili ancillari ai maschi, operano nella stessa direzione.

Uscire da questa situazione d’ineguaglianza e ingiustizia non è quindi solo un compito delle minoranze, ma deve essere un’istanza di tutte e tutti, uomini compresi. E qui vengo ai consigli. Recentemente Lorenzo Gasparini ha scritto un bellissimo libro dal titolo: «Perché il femminismo serve anche agli uomini» (ne abbiamo parlato qui, dando anche altri consigli su letture femministe interessanti).

Basandosi sulla letteratura accademica femminista, sostiene che l’unico antidoto a questo sistema di potere sia, anche per gli uomini, proprio il femminismo , o meglio siano i femminismi . I femminismi sono un corpus di pratiche e di conoscenze di rilevanza scientifica elaborate da più di 150 anni dalle donne e diffuso in tutto il mondo, che svela e denuncia lo stato sociale d’ineguaglianza prodotto dal patriarcato in primis sulle donne e che promuove la parità politica, economica, personale e sociale tra i generi.

Lorenzo sottolinea, come quest’immenso corpo di conoscenze sia uno strumento fondamentale per migliorare la società tutta e in particolare anche la vita degli uomini. Infatti anche i corpi degli uomini e i loro desideri sono disciplinati in modo soffocante dal sistema patriarcale. A cominciare dal dover confermare ossessivamente la propria mascolinità fino al dover aderire al cameratismo, come unica forma di organizzazione e relazione sociale. Il patriarcato toglie agli uomini lo spazio di riflessione sulla propria condizione di genere, di elaborazione collettiva dell’orizzonte dei propri desideri e delle proprie responsabilità e impedisce loro di capire come costruire rapporti con altri soggetti che non siano di potere (bella riflessioni di recente ce l’hanno date anche la giornalista Jennifer Guerra e la filosofa Maura Gancitano ).

Per riflettere su questi temi e su come «Dovremmo tutti essere femministi» come dice la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie ho fatto due chiacchere con l’attivista femminista Marco Frigerio, che fa parte dell’associazione «Non una di meno Bergamo». «Non una di meno» è un movimento internazionale transfemminista contro la violenza di genere, in tutte le sue forme, che ha anche sede nelle maggiori città italiane. Questo tipo di associazione promuove il femminismo intersezionale, che prende in considerazione non solo la parità donna uomo, ma una serie d’istanze civili e sociali: dal colore della pelle, al reddito, all’identità di genere ecc.

Marco, che è un ingegnere, è uno dei pochi attivisti uomini del movimento, l’unico (a mia conoscenza) a Bergamo (città che ad esempio vive esperienze come questa). Di per sé Marco non fa parte di nessuna minoranza, è un maschio bianco eterosessuale con una famiglia e una posizione lavorativa di rilievo. Eppure ha scelto di fare un percorso femminista perché ha capito che solo attraverso gli strumenti dei femminismi può avvenire un vero cambiamento sociale, in Italia e nel mondo: «Riuscire da maschi ad approcciare la realtà, soprattutto una realtà vissuta su molti livelli come quella del femminismo intersezionale, aiuta veramente ad avere più cura sia per le persone che per l’ambiente. È un lavoro che bisogna essere disposti a fare. Tutti i femminismi dicono che è necessario “partire da sé”, definirsi. Questo è un passaggio che i maschi non fanno quasi mai. Quando chiedi ad un maschio di partire da sé lui tira fuori delle etichette: “io sono di sinistra o di destra; io sono cristiano o sono non-credente; io sono un grande lavoratore; io sono un antifascista”. Partire da sé in un’ottica femminista significa sostituire le etichette, definendosi piuttosto attraverso l’espressione dei propri desideri, ovvero di come si vorrebbe vivere insieme alle altre e agli altri. Uscire dalle etichette, dai branchi, dai cameratismi per incrociare i propri desideri con quelli delle altre persone, è una cosa estremamente produttiva».

Invece i maschi agiscono di solito il cameratismo: «Il cameratismo è difendere in modo incondizionato, indipendentemente da tutto quello che c’è intorno a sé, il proprio gruppo, facendo in modo che arrivi più in alto di un altro. È una competizione continua. Devi avere tutte le caratteristiche che il gruppo impone. Devi dimostrare la tua mascolinità quotidianamente. Devi accettare l’omertà di gruppo. È una cosa spesso mortificante. Gli uomini non hanno percezione di questo disagio, perché tutto ciò è considerato “normale”. Questa condizione è molto limitante. Il femminismo ci dice invece che dobbiamo agire la sorellanza, che è una forma di relazione che non prevede di schiacciare l’altro o di uniformalo, ma piuttosto di ascoltarlo, accoglierlo, anche confrontandocisi, nella differenza».

Come racconta Marco, sperimentare la sorellanza come forma alternativa al cameratismo è possibile per tutte e tutti. Questa forma ci permette di stare con gli altri e le altre per fare comunità a partire dalla differenza dei nostri corpi e dei nostri desideri. Rendersi consapevoli della cultura patriarcale in cui siamo immersi e agire la sorellanza può essere un passo fondamentale per limitare e mitigare l’eredità pesante delle culture patriarcali. Culture patriarcali che in connubio con il capitalismo spinto stanno mettendo a serio rischio la vita delle persone, in particolare delle donne e delle minoranze e dell’ambiente tutto. È davvero tempo di cambiare.

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