Un professionista che traduce visivamente numeri, dati qualitativi e quantitativi. Così Federica Fragapane descrive il mestiere dell’information designer. Un mestiere dai contorni un po’ sfumati, che al data journalism – il campo di chi raccoglie, analizza, presenta dati in report oppure inchieste – unisce l’intento di rendere non solo accessibili, ma anche esteticamente belle, informazioni complesse.
Information designer indipendente, Fragapane ha realizzato progetti e visualizzazioni di dati per Google, le Nazioni Unite, Scientific American, BBC, La Lettura de Il Corriere della Sera, ma anche progetti personali come «The Stories Behind a Line» , narrazione visiva del viaggio di sei richiedenti asilo verso l’Italia. Sabato 8 ottobre alle 17.30, Fragapane cercherà di spiegare al pubblico di «BergamoScienza» come è possibile unire numeri, analisi giornalistica ed espressione artistica in un mestiere solo. E come, anche con i dati, si possa costruire un racconto (l’incontro è gratuito ma con prenotazione sul sito bergamoscienza.it).
MM: Alla base di una visualizzazione di dati, da quanto mi sembra di capire osservando i tuoi lavori, c’è una duplice ricerca: contenutistica e visiva. Immagino ci siano due alfabeti diversi, due linguaggi che si intrecciano. Per ogni visualizzazione lavori a un nuovo alfabeto visivo?
FF: Esattamente. Tra l’altro, io uso spesso il parallelismo tra alfabeto, linguaggio testuale e visivo. Diciamo che mi occupo di lavori molto diversi tra loro. In base al tipo di necessità, a chi sono i lettori e a come approcciano la visualizzazione, lavoro a progetti che possono essere molto semplici, classici, oppure a qualcosa di più sperimentale. In questo caso, sì, si tratta di progettare un alfabeto visivo nuovo ogni volta: delle forme, dei colori, delle texture. Per questo motivo, trattandosi di alfabeti visivi che le persone non sono abituate ad utilizzare, è sempre fondamentale per me accompagnarli con una legenda, una chiave di lettura.
MM: Il fatto di utilizzare alfabeti visivi diversi per ogni lavoro non impedisce di sviluppare un proprio stile. Come hai sviluppato il tuo?
FF: Devo dire che per me è stato un processo abbastanza istintivo. Quello che è stato importante nel corso degli anni è stato cercare di capire quali sono gli aspetti visivi da cui personalmente sono attratta. Ovviamente voglio essere sempre aggiornata su quello che stanno facendo i miei colleghi, mi piace attingere però quando cerco ispirazione a mondi diversi: la natura, l’arte, l’illustrazione. Cerco poi di riprodurre quelle forme, quei colori da cui i miei occhi sono attratti e di creare qualcosa di piacevole anche alla vista dei lettori. La naturalezza con cui faccio tutto questo ha fatto sì che poi si creasse un “mio” stile, perché banalmente cerco di fare cose che amerei se fossi un osservatore esterno, una lettrice…
MM: Quanto è importante la parte estetica in una visualizzazione?
FF: Importantissima. Il mio scopo è invitare le persone a leggere i miei progetti, e rendere questa lettura piacevole, soprattutto se si tratta di dati che già di loro sono complessi. La componente estetica non è solo un vezzo finale, un abbellimento, ma è parte di tutto il processo di comunicazione su cui sto lavorando.
MM: Nella presentazione dell’incontro che terrai per «BergamoScienza» leggo «L’aumento della quantità di dati a disposizione su qualsiasi fenomeno naturale e sociale pone una nuova sfida collettiva: non solo quella di saper leggere questi dati, ma di riuscire a raccontare le verità e le storie che i dati contengono in modo intuitivo, avvincente e personale». Quanto è importante la storia, la persona, dietro la precisione del dato?
FF: Premettendo che questo dipende da qual è il progetto finale – ho lavorato a strumenti per decision makers che avevano bisogno di qualcosa che fosse assolutamente “freddo”, minimale e pulito – per me è sempre importante rimanere legati alla storia, alla persona che c’è dietro al dato, e visivamente cerco delle rappresentazioni che possano aiutarmi a tenerlo a mente. Per esempio, a «BergamoScienza» racconterò di come utilizzi spesso delle forme organiche, morbide, che richiamino qualcosa di vitale: è un modo per ricordare a me e ai lettori che c’è della vita dietro questi numeri!
MM: Durante la pandemia, il mio (ma non credo di generalizzare se dico “nostro”) rapporto con i dati è stato malsano, quasi ossessivo, per cui ogni giorno venivamo sommersi da statistiche, numeri… Esiste un codice etico, un limite, quando si lavora con i dati?
FF: Secondo me un gravissimo errore, nel periodo del Covid, è stato quello di “buttare in pasto” ai lettori un’infinità di dati giornalieri senza contestualizzarli, senza fornire – soprattutto all’inizio – analisi più ampie su cosa significassero, sui trend, sui contesti… Questi dati singoli decontestualizzati, lanciati in prima pagina ogni giorno, non hanno aiutato ad osservare il fenomeno con la giusta dose di distacco, tenendo conto del fatto che era già un momento di grande paura. Esiste un’etica della comunicazione, anche quando si lavora con i dati. Quello che è importante, secondo me, è cercare di fornire una visione d’insieme più ampia. Il singolo numero, decontestualizzato, non solo non comunica davvero, ma crea l’effetto opposto, cioè che le persone non vogliono più sentir parlare, anche civilmente, di numeri e di dati che invece sono uno strumento molto utile per capire la realtà.
MM: Siamo abituati alla neutralità dei dati, all’idea che i dati siano oggettivi, che ci informino in modo oggettivo. È vero, o anche i dati vanno interpretati, e con i dati si può sbagliare?
FF: È un’altra cosa di cui parlerò. Secondo me sì, nel senso che i dati non sono creature oggettive e portatrici di verità assolute. È molto importante prendere in considerazione il fatto che come dietro un grafico c’è una persona, che disegnando opera delle scelte, anche dietro alla raccolta dei dati c’è un intervento umano, che si porta dietro un bagaglio culturale e dei pregiudizi. Questo non è per dire che i dati sono inutili, perché non è così, ma non è vero che siano creature oggettive o completamente neutre: se si dà troppa responsabilità al dato come portatore di verità assoluta, nel momento in cui c’è uno spostamento tra il dato e la realtà, si genera una sfiducia troppo forte.
MM: Quanto è importante formarsi oggi sui dati e imparare a capirli, soprattutto in un paese dove il tasso di analfabetismo funzionale è altissimo?
FF: È importante perché i dati vengono usati sempre di più dal mondo del giornalismo, della comunicazione e della politica. Se uno strumento viene usato per informarsi è importante saperlo leggere, anche per proteggersi da informazioni false… c’è un libro di Alberto Cairo, grande esperto di questo settore, che si chiama «Come i grafici mentono» e racconta di come spesso i grafici vengono utilizzati male per raccontare storie che sono false. È molto importante che le persone si abituino a leggere questo tipo di strumento. Anche i grafici più semplici, quelli che per me e per i miei colleghi sono chiari, in realtà vanno spiegati, perché noi impariamo a leggere e scrivere a scuola ma non impariamo a leggere i dati. Accompagnare i grafici a dei brevi testi per me è fondamentale proprio per questo: il grafico non esclude la parola. Qualche anno fa c’era quest’idea, che per fortuna adesso sta molto scomparendo, che una buona infografica non avesse bisogno di testi per essere capita… Io non sono d’accordo: combinare parole scritte e parole visive per me è fondamentale, è il modo migliore per far sì che le persone si avvicinino più facilmente a questo mondo.
MM: Prima di pubblicare una visualizzazione, ti capita mai di sottoporla a qualcuno che non è del mestiere per verificare che si capisca?
FF: La mando sempre ai miei genitori, insieme alla legenda. Se per loro, che non appartengono a questo mondo, il mio progetto è poco chiaro, allora cambio qualcosa, riformulo, aggiungo una frase in più.
MM: Come pensi che evolverà il mondo della visualizzazione dei dati?
FF: Quello che mi piacerebbe è che diventasse un linguaggio usato nel giornalismo italiano. Il New York Times, ad esempio, usa questo linguaggio in modo eccellente da ormai molti anni. Mi piacerebbe vederlo utilizzare con lo stesso approccio anche in Italia, non solo nel giornalismo, ma anche nelle scuole: mi auguro che possa succedere perché è veramente uno strumento utilissimo per raccontare e fare informazione.