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Fede, femminismo, filosofia: Susy Zanardo a “Molte fedi”, nel segno della speranza

Intervista. Tra i filosofi, le donne sono una minoranza. A Molte fedi sotto lo stesso cielo ne abbiamo trovata una, Susy Zanardo, che porterà le sue riflessioni domenica 26 settembre per la sezione “Ascolta, si leva l’alba”

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illustrazione Hayuki M

La filosofa morale Susy Zanardo interverrà dalle 9 del mattino del 26 settembre a Molte fedi sotto lo stesso cielo con una riflessione domenicale sul tema della speranza, disponibile in streaming su moltefedi.it, Facebook e YouTube. Professore associato di Filosofia morale presso l’Università Europea di Roma, ha studiato a Venezia e Parigi. Con lei abbiamo parlato della più piccola delle virtù – come Papa Francesco ha definito la Speranza – ma anche di dono, femminismo, Chiesa e filosofia.

MM: Cosa vuol dire “sperare”?

SZ: Sperare è allearsi col bene presente e col bene possibile, cercandolo ovunque tra le pieghe della storia e difendendolo ovunque e operandolo ogni volta che si può. Viviamo in un momento di grandi sfide: usciamo prostrati dalla pandemia, con grosse tensioni geopolitiche, di fronte a un aumento delle disuguaglianze fra i popoli della terra, a diritti umani calpestati, alla precarietà e all’emergenza climatica. Come stare dinnanzi a tutto ciò? La tentazione di dire che tutto va e andrà male piega i nostri animi e ci rinchiude o in una solitudine rassegnata o fomenta ipotesi complottiste e irrazionali, quasi a volersi crogiolare nel male. Tutto questo non aiuta. Al contrario, sperare non è come, a volte, si dice, rassegnarsi e lasciar fare ad altri, ma è tenere lo sguardo fisso sul bene e metterlo al mondo ogni giorno.

MM: Un suo campo di ricerca sono le relazioni di dono.

SZ: Le relazioni di dono sono la stoffa della nostra vita, sono le relazioni autenticamente umane. Sono legami liberi. Innanzitutto sono relazioni: non pensiamo al dono come a uno che dà (padrone del dono) e uno che riceve (suo debitore). Non si tratta di un vaso pieno che riempie uno vuoto. Il dono infatti implica sempre una relazione fra due o più persone, due misteri, due desideri di infinito. Inoltre, sono le relazioni più alte perché hanno cura della libertà dell’altro, la proteggono. In questo senso sono il contrario delle relazioni predatorie e manipolatorie.

MM: Non è una visione un po’ idealista?

SZ: Certo noi non siamo esseri angelici e puri, il dono ha le sue ambivalenze, come le abbiamo noi, ma dobbiamo esercitarci a guardare con compassione queste ambiguità e ad attraversarle per poterle superare. Direi poi che, nel dono, ciò che è più importante è la gratitudine, cioè la gratuità da parte di chi riceve. Noi veniamo al mondo bisognosi di tutto, dipendenti, e impariamo a donare imparando a ricevere, cioè a trasformare il prendere in accogliere con riconoscenza. In questo modo facciamo proprio lo spirito del dono e diventiamo capaci di diffonderlo in direzione di altri.

MM: Come spiegherebbe il suo mestiere di filosofa morale a un bambino di 10 anni?

SZ: Non so se riuscirei, ma direi che la filosofia è domanda sul senso delle cose: cioè qual è il significato di quello che sto facendo o che mi capita di vivere? E qual è la direzione della mia vita? Perché mi alzo la mattina, lavoro, studio, piango, soffro, amo, prego? Gli direi anche di non spaventarsi di queste domande perché si continua a rispondere ad esse fino all’ultimo respiro, non smettendo mai di imparare e di guardare il mondo proprio come fa un bambino di dieci anni, cioè chiedendosi perché? e chiedendoselo insieme agli altri.

MM: Si lamenta la mancanza di donne nelle materie Stem (fisica, matematica, scienza, ndr), nell’informatica, nella politica e nei Cda. Ma non sono poche anche le donne filosofe?

SZ: Il numero delle filosofe è crescente, anche se, come negli altri campi, forse non ancora nei ruoli più alti. Ma le filosofe hanno aperto una stagione di pensiero, a partire dagli anni ’60 e ’70, che rappresenta una delle conquiste più importanti del Novecento: ci hanno insegnano a pensare non in astratto, ma a partire da sé, a interrogare la propria esperienza, cioè a cercare le parole per dirla, le parole che ci corrispondono; hanno introdotto i temi della vita affettiva, della corporeità, della maternità, della sessualità, della politica come aspirazione a un innalzamento della civiltà. Non possiamo che riconoscerle come maestre e continuare il loro lavoro teorico e la loro pratica politica. Quello che possiamo fare è più importante di quello che ancora non abbiamo. Possiamo cercarlo con tutta la determinazione di cui le donne sono capaci.

MM: Si è occupata di pensiero femminista, un tema tornato molto “di moda”. Ritiene ci sia una semplificazione nel modo in cui viene trattato sui media e sui social media?

SZ: Una semplificazione è inevitabile, se non altro per ragioni di spazio, ma ciò che mi preoccupa di più di questi strumenti di comunicazione è il ricorso a slogan (parole che non corrispondono a nessuna esperienza, parole consumate, che non parlano al cuore ma sono chiacchiera), le sterili contrapposizioni ideologiche che fomentano una conflittualità distruttiva e la poca serenità con cui si affrontano i temi: siamo più preoccupati a dire che abbiamo ragione che ad ascoltare quello che l’altro/a ha da dirci.

MM: Qual è la diversità fra gli studi di genere statunitensi e il pensiero della differenza sessuale italiano e francese?

SZ: Semplificando, i due pensieri mettono al centro categorie diverse: il genere negli Stati Uniti e la differenza sessuale in Italia. Entrambi hanno dei meriti: gli studi di genere hanno mostrato i condizionamenti storici che subiamo nel dirci un uomo o una donna e hanno tolto lo stigma dalle identità che non si riconoscono nel genere maschile e femminile. E tuttavia, tendono a pensare i soggetti come assoggettati a strutture di potere e a considerare il corpo come una costruzione sociale, oltre a dissolvere l’identità (sessuale) in un interminabile fare e disfare i copioni sociali. La differenza sessuale, a cui mi sento più vicina, ha sottolineato l’indicibile fortuna dell’essere nata donna (riprendendo il titolo di un libro di Luisa Muraro) e il valore del proprio essere donna o uomo – in un mondo di uomini e donne – come costante lavoro su di sé, sul proprio significarsi e agire, perché sia libero e generativo.

MM: Esistono le differenze di genere ed esiste un modo non stereotipato e non banale per raccontarle?

SZ: Esistono gli uomini e le donne, che hanno da interrogare il proprio vissuto corporeo e il modo di entrare in relazioni con altri. Non è infatti la stessa cosa generare in sé o fuori di sé, non è la stessa cosa nascere uomo o donna da una donna, per le diverse dinamiche relazionali per via dell’identificazione o differenziazione da colei che mi mette al mondo e che è stata il mio primo mondo. Non è la stessa cosa incontrare l’altro/a nell’amore in sé o fuori di sé. Queste sono, a mio parere, le principali differenze relazionali: ma esse richiedono una libera donazione di senso da parte di ogni singolarità. Per cui ogni uomo o donna sono unici e irripetibili.

MM: Lei è di fede cattolica. Pensa che sia fecondo il rapporto delle donne con la Chiesa o potrebbe essere migliore?

SZ: Scherzando dico che sono cresciuta in canonica ed è lì che ho imparato il rispetto per la libertà intoccabile della coscienza umana e la generosità gioiosa, per cui sento la Chiesa come madre, anche ogni mio rimprovero è affettuoso. Ho 52 anni, sono cresciuta nel Veneto rurale, per noi ragazze e ragazzi il punto di aggregazione era la parrocchia, per me come una famiglia. Credo che, nelle parrocchie, la Chiesa si sostenga sulle donne, ma che ci siano ancora poche donne nei ruoli di governo e di pensiero. Per quanto questo stia cambiando, in modo lento ma deciso, forse si potrebbe fare di più.

MM: Da intellettuale non vive come un conflitto il maschilismo delle istituzioni religiose?

SZ: Credo che le istituzioni religiose siano tendenzialmente maschiliste, mentre la parola di Dio ha per le donne una predilezione speciale. Penso al rapporto di Gesù con le donne che non ha precedenti, né mai si è compiuto in modo tanto libero e valorizzante. Io guardo alle prime (alle istituzioni) con lo sguardo della seconda (della Parola di Dio) e questo mi dà la forza e la speranza per lavorare e pensare all’interno di un’istituzione che, va detto, sta ponendo come direzione di lavoro l’alleanza fra l’uomo e la donna per la cura del mondo in ogni campo, anche nella Chiesa.

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