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Emigrazione italiana: un’opportunità o una sconfitta per il nostro Paese?

Intervista. A poche ore dall’inizio del festival «Bergamo Next Level», il Consigliere d’Ambasciata della Direzione generale per gli italiani all’estero e le politiche migratorie Giovanni De Vita anticipa i temi al centro dell’incontro di sabato 6 maggio, dedicato all’emigrazione italiana nei cinque continenti. Appuntamento alle ore 16 in Fondazione Serughetti La Porta

Lettura 5 min.

La mamma di Nancy Pelosi, ex speaker della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti d’America, si chiamava Annunziata ed era originaria di Fornelli, nel Molise. I nonni paterni dell’immunologo statunitense Anthony Fauci, Calogera e Antonino, erano di Sciacca, mentre quelli di Jair Bolsonaro, l’ex presidente del Brasile, venivano dalla provincia di Padova. La lista potrebbe proseguire all’infinito, ma una cosa è certa: i nostri connazionali sono approdati in tutto il mondo. L’emigrazione italiana all’estero c’è sempre stata – un dato rilevabile almeno dall’Unità d’Italia, nel 1861 – eppure non c’è abbastanza consapevolezza del fenomeno.

Ne abbiamo parlato con Giovanni De Vita, Consigliere d’Ambasciata della Direzione generale per gli italiani all’estero e le politiche migratorie. De Vita approfondirà il tema sabato 6 maggio alle 16 presso la Fondazione Serughetti La Porta (via Papa Giovanni XXIII 30, Bergamo), in occasione di « Bergamo Next Level », la rassegna di eventi aperti al pubblico promossa dall’Università degli studi di Bergamo e da Pro Universitate Bergomensi per sviluppare un dialogo insieme ai protagonisti del territorio – enti, istituzioni, imprese, associazioni e cittadini – attorno alle principali trasformazioni in corso nel mondo così come a livello locale.

FP: Consigliere, perché un incontro sull’emigrazione italiana all’estero?

GDV: È un fenomeno troppo poco conosciuto dalla popolazione italiana e che invece ha un grande potenziale. Si stima, al ribasso, che il numero degli oriundi d’Italia – i discendenti degli emigrati italiani che nel corso dei secoli sono espatriati all’estero, senza fare più ritorno nel loro Paese d’origine – sia di circa 80 milioni. In Argentina sono arrivati alla settima, ma anche all’ottava generazione. L’evento vuole quindi essere un momento di dialogo e di riflessione dedicato alle comunità italiane all’estero e, in particolare, al lavoro culturale e politico-culturale che svolgono da decenni le associazioni, i giornali, le riviste, gli istituti in seno a queste comunità.

FP: Su quali di questi aspetti si soffermerà maggiormente nel corso del suo intervento?

GDV: Innanzitutto sul ruolo e l’evoluzione delle associazioni, ovvero le prime realtà di accoglienza e supporto per gli italiani emigrati. Queste hanno aiutato i nostri connazionali a inserirsi in Paesi stranieri anche tenendo vivo il legame con l’Italia attraverso, per esempio, corsi di italiano. Quando si perdeva la lingua, si perdeva la prima occasione di contatto: quindi è stato ed è tuttora importante trovare strumenti per aggregare le persone. Nel 1985 l’Italia ha cercato di dare attenzione alle sue comunità anche creando dei sistemi di rappresentanza: i Comites, Comitati degli Italiani all’Estero. Da allora essi contribuiscono ad individuare le esigenze di sviluppo sociale, culturale e civile della comunità di riferimento e a promuovere opportune iniziative in collaborazione con l’autorità consolare, le regioni e le autonomie locali, oltre che con enti, associazioni e comitati operanti nell’ambito della circoscrizione consolare.

FP: Tutte iniziative che rafforzano il legame con l’Italia…

GDV: Quello delle associazioni è stato un grosso lavoro, che il nostro governo ha riconosciuto. Ora l’obiettivo è quello di mantenere questa fidelizzazione tra gli emigrati italiani e l’Italia attraverso il progetto che il Ministero degli Esteri ha avviato nel 2018, dedicato al «Turismo delle Radici».

FP: Di cosa si tratta?

GDV: È un’offerta turistica che coniuga la proposta di beni e servizi del terzo settore (alloggi, enogastronomia, visite guidate) alla conoscenza della storia familiare e della cultura d’origine degli italiani residenti all’estero e degli italo-discendenti. In questo modo vengono coinvolte persone da tutto il mondo che, anche se non hanno più la cittadinanza italiana, sentono forte il ricordo dell’italianità. Sono infatti numerosi i cittadini stranieri interessati a riscoprire le proprie radici e a recarsi nelle case dove hanno vissuto i propri antenati, spesso collocate in aree rurali, proprio quelle più trascurate dal turismo “tradizionale”. Tanti oriundi italiani hanno il desiderio di vedere da dove sono partiti i propri antenati e, grazie al turismo delle radici, possono leggere vecchie pagine di diario o passati atti giuridici e scoprire così anche legami che pensavano fossero persi. È una strategia volta a invertire il processo di spopolamento dei borghi italiani per sostenere attivamente il rilancio post Covid della nostra cultura, del nostro turismo e della nostra economia. Ricordiamoci che l’Italia rimane il “Bel Paese” per l’estero.

FP: Questo significherà anche nuovi posti di lavoro per l’Italia…

GDV: L’operatore turistico specializzato in viaggi delle radici è una figura nuova. L’iniziativa è dunque uno stimolo alla formazione e all’occupazione, in particolare quella giovanile. Nel 2018 il flusso economico in entrata generato dal «Turismo delle Radici» è stato pari a circa 4 miliardi di euro (+7,5% rispetto all’anno precedente). La Direzione Generale per gli Italiani all’Estero del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale ha riconosciuto il potenziale offerto da questo segmento di Turismo e, il 29 maggio del 2018, ha organizzato insieme ad ENIT (Agenzia Nazionale del Turismo) e alle associazioni RAIZ ITALIANA e ASMEF (Associazione Mezzogiorno Futuro) il primo tavolo tecnico di coordinamento sul «Turismo delle Radici», tenutosi presso la Farnesina, con la finalità di creare una rete di attori pubblici e privati interessati alla realizzazione e alla promozione di un’offerta turistica a livello nazionale.

FP: In questo modo si mostra agli emigrati italiani tutta la ricchezza delle proprie origini. Ma in passato quale è stato il contributo degli italiani all’estero?

GDV: La cultura italiana ha seguito i flussi delle persone che sono emigrate, creando diversi “centri”: basta pensare a Parigi per la musica di Rossini e Cherubini. I nostri antenati hanno diffuso il modello culturale italiano. Per esempio riguardo all’organizzazione delle città: San Paolo in Brasile diventò una metropoli proprio grazie al gusto degli italiani. Quando si trasferirono lì, i nostri antenati furono i primi a fornire i servizi di cui aveva bisogno la gente che viveva nelle piantagioni. La cultura italiana è anche etica della solidarietà: Amadeo Giannini, figlio di italiani, agli inizi del ‘900 creò un sistema di concessioni di credito ai piccoli imprenditori fondamentale per la San Francisco colpita dal terremoto. La sua concezione di banca diventò un modello di successo anche per sostenere le attività culturali, tanto che Charlie Chaplin si rivolse proprio all’italo-americano per finanziare «Il monello». Gli italiani hanno dato poi un grande apporto alla cosiddetta “settima arte”, il cinema: all’inizio i film erano muti, per questo vennero reclutati gli attori della commedia dell’arte napoletana perché erano gli unici a saper gestire l’espressività, con il viso e i gesti.

FP: Nonostante tutti questi contributi, all’inizio gli italiani non erano ben accolti all’estero….

GDV: I nostri connazionali sono stati oggetto di ridicolizzazione e di profondi pregiudizi. Famoso è il linciaggio di New Orleans del 1893, quando undici pescatori siciliani vennero ingiustamente accusati di aver colpito un poliziotto locale e dunque assaliti e uccisi dalla folla di cittadini. I pregiudizi non hanno risparmiato nessuno: nemmeno il tenore Enrico Caruso, che venne incolpato di aver molestato una donna – con la giustificazione che «gli italiani fanno queste cose» – per poi risultare innocente. L’italiano è sempre caduto vittima di stereotipi e associato alla rappresentazione che si faceva di lui nei film come «Pane e cioccolata» o «Totòtruffa 62». Nonostante questo, l’italiano ha sempre combattuto in maniera tenace ed è andato avanti…

FP: Episodi simili a quelli che descrive si vedono oggi in Italia, ma nei confronti degli stranieri…

GDV: Proprio per questo è importante conoscere la storia delle nostre comunità all’estero: altrimenti gli italiani non hanno gli strumenti per leggere i fenomeni del presente, come quello degli attuali flussi migratori.

FP: Per la conoscenza è importante la formazione: perché, secondo lei, le università italiane attirano sempre meno studenti stranieri?

GDV: In parte questo potrebbe essere dovuto al fatto che in Italia ancora molti corsi universitari sono svolti solo in italiano, tranne qualche eccezione. Forse però il problema va affrontato dal punto di vista più ampio: il nostro Paese deve porsi delle domande per cercare di capire come poter sviluppare i fondi della ricerca, anche utilizzando strumenti già disponibili a livello europeo. Attraverso il mondo dell’industria e quello produttivo, il nostro sistema accademico potrebbe riuscire ad attirare più studenti dall’estero. Adesso poi, l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea è un’opportunità per le nostre università.

FP: Abbiamo parlato di cultura, tradizione, ricchezza del Bel Paese… ma quindi l’emigrazione italiana all’estero è un’opportunità o una sconfitta per l’Italia?

GDV: Il nostro mondo non è mai tutto bianco o tutto nero. Chi è costretto a partire vivrà sempre un’esperienza traumatica di distacco, in cui dovrà affrontare l’incognita del futuro, la sofferenza della nostalgia. Però dobbiamo anche considerare che dall’emigrazione sono nate opportunità per il nostro Paese, non solo per i benefici che gli emigrati hanno dato all’Italia, ma anche perché essi pongono delle basi su cui possiamo sviluppare un rapporto nuovo e costruttivo a vantaggio nostro e loro.

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