Sulla soglia di una delle stanze della Parrocchia di San Francesco d’Assisi mi accolgono le note profumate di incenso e quelle più pungenti di alcuni cibi speziati. Subito dopo, la voce di una donna: «Accomodati e prendi qualcosa da mangiare!» mi dice, spostando una sedia vicino al lungo tavolo imbandito. Senza ascoltare la mia risposta, Hanan – così si chiama la signora – comincia a riempire un piccolo piatto con i tipici mahshi (involtini di verze e riso), lasagne e zucchine ripiene. Passa poi veloce la fondina nelle mani delle altre donne presenti che, a turno, aggiungono porzioni di pasta al forno, patate e kofta, una polpetta dalla forma allungata.
«A noi fa piacere accogliere chi passa di qui» mi spiega la mia interlocutrice, porgendomi il piatto colmo e una lattina di Coca Cola. Hanan, a differenza di tutte le altre commensali, indossa una giacchetta di pizzo blu elettrico con dei pantaloni dello stesso colore e tiene i capelli sciolti senza velo. Di fronte alla mia istintiva curiosità di fronte a questi particolari estetici, mi risponde quasi ridendo: «Voi pensate che per una donna musulmana mettere il velo o vestirsi in un certo modo sia un obbligo, ma è una scelta personale. Noi siamo libere di scegliere». Dopo la sua precisazione – paziente e gentile – lei e le altre donne riprendono a chiacchierare, condividendo ricette di piatti tipici, il calendario dei futuri ritrovi, ma anche alcune apprensioni “materne”. «Mio figlio – mi rivela una di loro, un po’ a bassa voce – non frequenta molto la comunità egiziana, perché esce con gli amici della scuola. Un po’ mi dispiace, vorrei che fosse più vicino alla sua cultura» sospira. Dai primi scambi con loro, emerge una delle maggiori speranze degli egiziani di prima generazione: che i più giovani rimangano fedeli alla propria identità originaria.
Di contro, però, avere un legame così profondo con il proprio gruppo di riferimento talvolta rischia di portare a una maggiore difficoltà di integrazione, soprattutto per le donne. Molte di loro infatti, specie le più anziane, nonostante siano arrivate in Italia ormai da più di 10 anni principalmente per raggiungere il marito, non sanno l’italiano. Le occasioni di socialità, d’altronde, sembrano limitate per loro: la maggior parte infatti non ha un’occupazione e preferisce stare a casa per dedicarsi alla famiglia. «Tanto c’è mio marito che lavora, a cosa serve che vada io?» la giustificazione di una madre. La loro quotidianità riflette allora i recenti dati Istat, secondo cui, all’interno della comunità egiziana, esiste un profondo divario tra il tasso di occupazione maschile (76,7%) e quello femminile (7,8%). Un fenomeno che però, dal loro punto di vista, è il risultato di una spontanea e consapevole scelta di vita.
Le testimonianze delle donne vengono a poco a poco intervallate dai saluti dei mariti che rientrano nella grande sala e prendono posto attorno a un tavolo vicino. Tra i nuovi arrivati, c’è anche Mohamed Sharabash: cappellino, t-shirt blu e aria giovane. È il Segretario dell’Associazione fratelli egiziani di Bergamo e si mostra subito molto disponibile al dialogo. «Nella provincia di Bergamo, noi egiziani siamo circa 4000, talmente pochi che, quando ci troviamo, è come essere in famiglia. Oggi, per esempio, siamo tutti qui per festeggiare il compleanno di una ragazzina della comunità: Yara» dice, indicandomi una vivace pre-adolescente. «I genitori l’hanno chiamata così in ricordo di Yara Gambirasio, scomparsa proprio nei giorni della sua nascita» precisa Mohamed, per poi allontanarsi indaffarato, richiamato da qualche fratello.
Mi avvicino allora alla festeggiata per rivolgerle qualche domanda e, mentre sto per formulare la prima curiosità, si aggiungono timidamente alcuni suoi coetanei. Zina, Makhara e Makurono, divertiti, si scambiano delle battute in egiziano: sebbene siano tutti nati in Italia, infatti, sanno parlare bene anche la lingua dei genitori. L’Associazione fratelli egiziani, mi spiegano in seguito, organizza per i giovanissimi dei corsi per conoscere non solo la lingua madre, ma anche la religione islamica e le tradizioni del Paese nord africano.
«Abbiamo imparato l’egiziano per conoscere la nostra cultura e per poter parlare con i nonni quando andiamo in Egitto» mi spiega una delle ragazzine. Non a caso, il metodo di insegnamento migliore non consiste nel seguire classiche lezioni frontali, ma nel mettersi in ascolto e chiacchierare con i più anziani della comunità. Un sapere tramandato da generazione in generazione, letteralmente. Me lo conferma poco dopo El Anany, venticinquenne referente dei giovani dell’Associazione fratelli egiziani: «Per noi, i responsabili della comunità, come Mohamed, sono figure di riferimento fondamentali. Loro ci insegnano molto e, per qualsiasi dubbio, ci rivolgiamo a loro. A volte però i miei coetanei hanno un po’ di timore “reverenziale” nei confronti dei più anziani. È una questione di rispetto. Allora io faccio da tramite tra le richieste dei più giovani e le esigenze dei più grandi». Intuisco dalle sue parole che avere un’età – e quindi anche un bagaglio culturale – diversa non separa la prima generazione dalla seconda, al contrario, unisce i vari membri della comunità in un rapporto di aiuto reciproco. «Abbiamo organizzato anche dei corsi in cui sono i giovani ad insegnare agli adulti, nello specifico, l’italiano alle proprie madri» racconta il referente.
Avere un “collante” e trovare nella differenza di prospettive una ricchezza anziché un motivo di scontro è un fattore essenziale per la comunità egiziana, la cui età media è di 29 anni e di cui il 34% è composto da minorenni . Un dato, quest’ultimo, destinato a crescere, come dimostra il continuo arrivo di Minori Stranieri non Accompagnati in Italia –e poi anche a Bergamo – più della metà provenienti proprio dall’Egitto. Un gruppo quindi sempre più giovane, quello degli egiziani-bergamaschi, che non teme di farsi guidare dai consigli dei più grandi.
Di lì a poco, si uniscono alla chiacchierata anche alcuni liceali. Tra loro, c’è chi studia robotica, chi moda, chi informatica. Ad accomunarli, ancora una volta, il profondo legame con l’Associazione e, soprattutto, la condivisione di valori simili. Mi sorge allora un dubbio: «In questo modo non rischiate di “chiudere” la comunità in sé stessa?» chiedo, pensando alle possibili difficoltà di integrazione che possono nascere.
«Alcuni miei amici – risponde uno dei ragazzi – sono egiziani copti, cioè di religione cristiana, ma non è un problema. Nell’Associazione dei fratelli egiziani sono tutti benvenuti e in generale non ci interessa: siamo tutti uguali! Abbiamo fatto anche delle partite di calcio insieme». Un amico lo sostiene: «Io non ho problemi con i miei compagni di classe, anche se non sono musulmani, l’importante è che ci sia rispetto reciproco. Per esempio, i miei amici sanno che io non bevo alcol e quindi, quando usciamo insieme, non fanno storie né insistono».
L’incontro fra la cultura egiziana e quella italiana è quindi naturale per gli adolescenti, più difficile per i giovani-adulti, spesso nati in Egitto e trasferiti in Italia da bambini. Me lo confermano tre studentesse universitarie che si uniscono alla festa di Yara nel tardo pomeriggio: «L’integrazione fra gli egiziani e gli italiani è vista e vissuta in modo diverso, in base all’età» sostiene Salma, una giovane di 23 anni arrivata in Italia all’età di 6. «All’inizio, quando si è piccoli, non noti le differenze fra te e gli altri. Poi, crescendo, ti senti un po’ diverso e stai meglio con i tuoi “simili”». Le sue parole sono confermate dalla cugina, coetanea: «Spesso io mi sento discriminata dagli italiani. Mi hanno rivolto insulti, un classico è “egiziana di mer**”, oppure domande come “ma perché voi donne siete obbligate a mettere il velo?”. C’è molta ignoranza e quindi a volte preferisco stare con gli egiziani». «Io non vedo il mio futuro a Bergamo, ma neanche in Italia – aggiunge la terza ragazza – vorrei andare in qualche città o Paese più aperto, dove io mi possa sentire più libera di essere chi sono».
Mentre le giovani mi raccontano le loro esperienze, attorno a noi cominciano i preparativi per la festa vera e propria. Le donne dispongono grosse torte sul tavolo e anche gli uomini più anziani, vestiti con il thawb , l’abito lungo fino alle caviglie, prendono posto: è il momento di intonare la famosa canzoncina di auguri a Yara. Mohamed invita con un microfono tutti i presenti a radunarsi attorno alla festeggiata e a cantare dapprima «Buon Compleanno» in italiano e, subito dopo, in egiziano. Dopo aver diretto il coro, Mohamed mi raggiunge, con una fetta di konafah, la tradizionale torta a base di pasta fritta a fili sottili e imbevuta di sciroppo dolce. «Ti è piaciuto stare qui?» annuisco, gustando il primo boccone. «Noi egiziani non vogliamo essere migliori di altri, ma, semplicemente uguali. Siamo tutti figli di Adamo ed Eva! L’importante è capire che è fondamentale il rispetto reciproco» mi ripete.
A fine giornata, le musiche dal timbro mediorientale continuano, così come il chiacchiericcio e i festeggiamenti. È tempo per me di andare, non senza una schiscetta di cibo egiziano per la sera. All’uscita, Hanan mi saluta dicendo: «Grazie mille tesoro per essere venuta: siamo stati davvero contenti. Torna presto!». E in un passo mi lascio alle spalle l’Egitto e i suoi profumi.
(Tutte le foto sono di Federica Pirola, eccetto ove indicato)