Marta Scorsetti è direttore del reparto di Radioterapia e Radiochirurgia dell’Istituto Clinico Humanitas, insegna alla facoltà di medicina ed è direttore della scuola di specialità di Radioterapia di Humanitas University (Milano); ma soprattutto fa parte dell’associazione laica «Memores Domini», una parte di Comunione e Liberazione che si conosce poco ed è molto lontana dalla comune vulgata “profana” di CL (giri d’affari, scandali, lobby economiche, etc.).
Con lei, da non credente, più che di questioni politiche o economiche, ho parlato soprattutto di spiritualità e di Cristo. Marta è una persona che comunica allegria, ride spesso e non mette troppe formalità in quello che dice. È una «figlia spirituale» di Don Luigi Giussani, il fondatore di Comunione e Liberazione. La sua è una scelta di vita radicale e mi interessa capirne di più. Quindi nella nostra chiacchierata partiamo proprio da qui.
LB: «Figlia spirituale» di Don Giussani. Che cosa significa?
MS: L’incontro con Don Giussani è stato un incontro per me fondamentale, un incontro che mi ha permesso di fare il grande incontro, quello con Cristo, che poi ha preso tutta la mia vita. All’interno di Comunione e Liberazione c’è una associazione di laici – che si chiama «Memores Domini» – che vive i consigli evangelici, cioè vive radicalmente quello che è il rapporto con Cristo, fondato sul battesimo. Siamo persone che si dedicano totalmente a Cristo e quindi viviamo secondo i principi di verginità, povertà e obbedienza, in comunità di dieci-dodici persone, facendo una vita come chiunque. Prima di tutto lavorando, e scandendo la nostra quotidianità con dei momenti che per noi sono importanti e ci aiutano a fare memoria di Colui che ha reso bella la nostra vita. Sono momenti di preghiera (lodi, vespri, partecipazione quotidiana alla Santa Messa) e momenti di silenzio e riflessione. Cristo è al centro della nostra vita.
LB: Come i primi cristiani, mettete i vostri beni in comune?
MS: Sì, viviamo in modo comunitario, nella memoria di Cristo, sia nel nostro lavoro che in quei gesti di cui le dicevo prima. Portiamo il senso di Cristo in quello che facciamo, siamo ad esempio carpentieri, insegnanti, medici, ma toccati dall’incontro con Cristo. Viviamo in amicizia, la scoperta di Cristo è tutto per noi e ci basta.
LB: È difficile vivere in comunità?
MS: La vita in comunità è un po’ una vita di santità perché c’è qualcosa che ci unisce ed è più profondo di tutto. È Cristo che ci ha chiamato lì, a vivere questo tipo di vita. Don Giussani diceva che il giorno che ha incontrato Cristo l’ha vissuto come «un bel giorno» e ciascuna di noi ha vissuto questo «bel giorno» dove il cuore è scoppiato di gioia perché ha trovato ciò che attendeva. Ci ritroviamo compagni di cammino, al di là di quelli che possono esseri i temperamenti e le differenze individuali, perché siamo nella nostra comunità per vivere la nostra vocazione. Non in modo eremitico ma in compagnia, nella Chiesa: è una sfida quella di condividere radicalmente il nostro bisogno umano nella quotidianità ed è qui che nasce un affetto tra noi che è veramente profondo. L’essere legati nella vocazione è quello che ci unisce più di tutto. L’Altro è tuo fratello nello spirito, la persona che ti è accanto è la persona che ti appartiene. Forma la tua famiglia spirituale, ma anche carnale. È la carnalità della Chiesa che ti è vicina. Cristo ti raggiunge li prima che altrove, appena apri gli occhi la mattina, attraverso un segno visibile.
LB: Quando ha fatto questa scelta?
MS: Io ho incontrato Don Giussani quando ero in università, quindi alla fine degli anni Ottanta. Già allora avevo la gioia nel cuore perché ero giovane e studiavo quella che era la mia passione, la medicina. Però c’erano tante domande che albergavano in me. Poi c’è stato questo incontro bellissimo con alcuni studenti di Comunione e Liberazione che erano alla Statale di Milano e mi hanno invitato a stare con loro, a fare qualche ora di studio insieme e a mangiare seduti allo stesso tavolo. Mi sono stupita che questi ragazzi pregassero, fossero felici, si volessero bene. C’era fra loro un’amicizia bellissima e lì ho capito che Cristo era all’origine di questa amicizia. Poi mi hanno fatto incontrare Don Giussani e lì c’è stato tutto un vibrare del mio cuore, perché io cercavo qualcosa, forse anche un po’ inconsapevolmente visto che ero giovane. A un certo punto Giussani ha detto «il verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi. La bellezza si è fatta carne, la felicità si è fatta carne e ti raggiunge». Allora ho detto «io posso essere felice, quello che cerco c’è». È risonata una bellezza nella mia vita, un senso di gioia, di compimento, di volersi donare agli altri, di gratitudine. Perché Cristo mi aveva raggiunta.
LB: Ma lei era già cristiana, giusto?
MS: Fino a quel momento ero una cristiana «del sabato e della domenica» come ha detto Papa Francesco e Gesù rimaneva un po’ lì da parte, non c’entrava con la mia vita quotidiana. Invece tra le persone di Comunione e Liberazione Cristo c’entrava con tutto: con gli amici, la fatica dello studio, il desiderio di amare e essere amati e sull’amore di Cristo ognuno scommetteva la vita. Poi intorno a me ho cominciato a vedere persone particolarmente vere e trasparenti, che amavano senza volere indietro niente, erano le persone dei «Memores Domini» e allora ho pensato «voglio entrare anche io».
LB: Don Giussani aveva davanti a sé una brillante carriera accademica come teologo, però a un certo punto decise di mollare perché trovava nei giovani una forte ignoranza e indifferenza verso il Cristianesimo. Oggi come sta il Cristianesimo secondo lei?
MS: Il Cristianesimo è vivo, ci sono piccoli focolai che dicono che è vivo, perché quando vedi delle persone che sanno perdonare e sanno amare, quando vieni a conoscenza di storie incredibili come quella che ho sentito recentemente di una ragazza ucraina tornata qui in Italia, in una delle nostre comunità, dopo che un uomo ha ucciso sua mamma e il papà è morto, e questa ragazza ha avuto il coraggio di perdonare, significa che questi sono dei segni di vivacità della Chiesa, del fiorire della Chiesa. Oppure quando vedi delle famiglie che hanno figli loro e decidono di fare un affido e scelgono di prendere altri bambini o ragazzi in casa perché c’è qualcosa che sgorga loro dal cuore, che è la gioia che Cristo ci ha dato, e vogliono donarla a tutti. Il Cristianesimo è vivo perché riesce a essere incisivo sulla vita dell’uomo, risponde al bisogno profondo del cuore umano: se capiamo questo allora il Cristianesimo è vivo, se non lo capiamo diciamo che è morto.
LB: La mia impressione però è che non ci sia una vera «differenza cristiana» nelle persone che si dichiarano tali.
MS: Se il Cristianesimo è quella pratica in cui ogni tanto, all’occorrenza, mi rivolgo a Dio, allora ci sono tanti tipi di spiritualità e ognuno può trovare la sua. La particolarità del Cristianesimo è quella che Don Giussani diceva ai ragazzi: Cristo è diventato carne e risponde al bisogno del tuo cuore, che è il bisogno di essere felice. La gente d’oggi cerca soddisfazioni perché vuole essere felice ma non sa dove sbattere la testa. Uno dice mi laureo, mi sposo, poi avrò un figlio, farò i soldi, farò carriera e sarò contento. Ma quando hai avuto tutto questo nessuno può rispondere a quella nostalgia, a quel dispiacere, a quella mancanza che si fa sentire nel cuore alla sera. O al dolore di quando vedi la gente che muore, come in Ucraina. Chi risponde al tuo bisogno di essere felice? Non puoi essere felice da solo, niente e nessuno intorno a te può veramente rispondere fino in fondo a questa richiesta di felicità che tutti abbiamo. Cristo risponde a questa domanda di senso e allora il Cristianesimo è qualcosa che vive con me e nel mondo. Se invece è una pratica “devozionistica” prima o poi ti stufi, perché non c’entra davvero con la vita. È questa la cosa bella che Don Giussani ci ha fatto capire: che Cristo c’entra con la vita perché tu sei amato, tu sei voluto.
LB: Lei è un medico. Oltre a insegnare, si troverà spesso di fronte alla malattia e al dolore. Come vive tutto questo?
MS: Io penso che fare il medico sia qualcosa di più che dare una medicina o una radioterapia. Fare il medico è stare vicino all’altro nella sua domanda di senso e quindi fare compagnia, soprattutto nei momenti più drammatici e sofferti. E allora per me è sempre una sfida, perché Gesù io lo conosco nella quotidianità, lo vivo accanto alle persone che incontro, attraverso la loro domanda di senso nella malattia. Dobbiamo essere aperti alla possibilità che ci accada qualcosa che ci sveli il senso. Penso che ci sia un modo di essere medico che è più profondo. Un modo che porti il medico a condividere un pezzo di strada insieme al paziente.
LB: Spesso però in fondo a questa strada c’è la morte.
MS: Nessun vuole morire perché l’uomo è fatto per la vita. E allora per un medico cosa vuol dire accompagnare una persona al proprio destino, fare un pezzo di strada insieme? Io da un lato ho la certezza che Cristo è davvero la risposta al cuore dell’uomo, però dall’altro non so come Cristo raggiunga l’uomo e lo voglio scoprire insieme alle persone che accompagno. Il Cristianesimo è stare di fronte ad una persona che ti chiede «Dottoressa, che senso ha tutto questo? Perché devo morire?». È stare di fronte a queste domande aperte e condividere una strada. Non è dare una risposta pronta e confezionata, perché il mistero del dolore è molto difficile da comprendere, e il mistero del dolore innocente ancora di più, e neanche per la Chiesa è facile stare davanti ad un dolore così acuto. Però io penso che dobbiamo stare di fronte a questo dolore guardando Cristo sulla croce, con Cristo che ci accoglie, perché lui è con noi nella prova. La luce c’è e dobbiamo guardarla insieme al paziente, che è una persona che ha bisogno di capire e di condividere il suo dolore. Ha bisogno di essere ascoltato, di porre delle domande. Nella medicina di oggi queste domande devono trovare spazio.
LB: Lei si troverà dinanzi tante persone ammalate di cancro.
MS: Certamente, ma io vedo che l’uomo non è la sua malattia, non è il suo cancro. Ha bisogno di scoprire insieme al medico la sua umanità. Perché la vita è più importante del suo tumore, c’è la speranza, la fiducia di avere una possibilità di vita magari diversa ma non meno interessante. Io ho visto in certe persone ammalate qualcosa di grande: persone che il cancro mette a dura prova ma che non le ferma. Perché si può vivere con il tumore, si può fare una strada, si può scoprire un senso più profondo, che magari una persona non conosceva prima. Ci sono dei pazienti che da esperienze di malattie gravi escono diverse, persone che da quando si ammalano riscoprono il valore di tutto, anche delle foglie che cadono dalle piante. Il valore della vita che ti è data, che sei vivo. E che c’è Uno che ti fa vivere.