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Davide Demichelis, per viaggiare a volte basta «farsi invitare a cena»

Intervista. Dall’India al Ghana, dal Senegal all’Ucraina. Il giornalista e documentarista torinese, protagonista e autore del programma «Radici» su Rai 3, presenterà il suo libro «Viaggi di sola andata (e qualche ritorno)» sabato 13 gennaio alle 16 alla Biblioteca Tiraboschi di Bergamo e alle 20.45 nella Sala Polivalente di Piazza Brembana

Lettura 6 min.
Senegal, Davide Demichelis e Coumbaly Djaw (© Alessandro Rocca)

Alle parole «secondo il me il giornalista è innanzitutto un appassionato dell’Altro», non posso fare a meno di sorridere. Davide Demichelis intervista me, per i primi quaranta minuti del nostro incontro telefonico. Mi porge il microfono e ascolta curioso la mia storia, come fa quando viaggia da una parte all’altra del pianeta.

Il primo volo lo ricorda ancora: Bruxelles – Monaco di Baviera, ventun anni, più o meno. «Tutti mi avevano detto: quando decolli ti senti schiacciato sul sedile, quindi devi tenerti stretto… E poi l’aereo parte e becca un po’ di aria in decollo, balla, lì mi son detto “caspita”. Poi però mi sono guardato intorno e vedevo tutta questa gente che leggeva il giornale tranquillamente. Mi sono messo a leggere anch’io».

Di anni, oggi Demichelis ne ha cinquantotto e gli aerei che prende probabilmente non li conta più. Giornalista professionista, autore e regista di documentari televisivi per National Geographic, Rai, RSI, Al Jazeera, nel cuore conserva in modo particolare l’esperienza di « Radici, l’altra faccia dell’immigrazione », il programma che ha ideato e condotto per undici anni su Rai 3. Una serie nata dal desiderio di accompagnare, telecamera alla mano, diversi immigrati in Italia nella loro terra di origine, per conoscere la loro famiglia, i loro amici, le loro «radici» appunto.

Il libro « Viaggi di sola andata (e qualche ritorno) », che Demichelis presenterà domani 13 gennaio alle 16 alla Biblioteca Tiraboschi di Bergamo e alle 20.45 nella sala polivalente di Piazza Brembana, raccoglie alcuni di questi episodi. Otto storie di furgoni che ballano sulle buche dell’asfalto, di abbracci e incontri a lungo attesi. Soprattutto, otto storie di persone vere, con un nome e un cognome. «Perché davanti hai sempre un volto, un uomo, una donna. Non gli immigrati, la categoria, i numeri. Ma Zacharia, Jeanette, Coumba. E quando hai la persona davanti cambia tutto».

Il giornalismo prima della guerra

Kigali, luglio 1994. Dall’alto di una delle colline che dominano la capitale del Ruanda, devastata da mesi di guerra, si intravede un fascio di luci roteanti, dai mille colori: è una discoteca. La vita continua, la gente balla in una città fantasma. All’epoca, Davide Demichelis non raccontò questa storia: le redazioni volevano racconti di guerra, massacri, eccidi. Perché «la guerra è sexy».

«Un grande antropologo torinese, Alberto Salza, sostiene che il sistema dell’informazione dovrebbe cambiare radicalmente: dal giornalismo della guerra al giornalismo “prima della guerra”. Anch’io la penso così».

Demichelis è un fiume in piena mentre mi spiega il significato delle parole con cui dà inizio a «Viaggi di sola andata». «Fare giornalismo “prima” della guerra significa fare quello che dovrebbero fare anche i medici. Prevenire è meglio che curare. Il senso del giornalismo è, o almeno dovrebbe essere, quello di rendere più forte – perché più informata – l’opinione pubblica. E allora noi l’opinione pubblica la dovremmo informare prima della guerra perché, per quanto possibile, l’opinione pubblica spinga i politici a non farla scoppiare. Agli esteri, nei nostri giornali, nei tg, è riservato ormai uno spazio limitato. Ma è chiaro che se io non so niente del prima, cosa posso capire durante una guerra? Niente. E quindi mi annoio, mi giro dall’altra parte, cambio canale, pagina. Una volta ho telefonato ad un’agenzia di viaggi chiedendo la quotazione di un volo per il Madagascar, e mi sono sentito rispondere:“Il Madagascar è in Africa?”. È un problema della scuola, è un problema di cultura, ma anche di informazione».

Cambiare punto di vista

«È sbagliato scrivere di qualcuno senza averne condiviso almeno un po’ la vita» scriveva il noto reporter polacco Ryszard Kapuściński. Il punto di partenza è la quotidianità. In punta di piedi, Davide Demichelis è entrato nella casa della nonna di Olha, in Ucraina, prima dell’invasione russa. Ha guardato gli occhi neri di Zacha fissare incantati quei fiumi di persone che camminavano sulle strade di Kumasi, nel cuore del Ghana. Ha assistito con stupore all’affermazione di una donna senegalese di nome Coumba: «In Italia le donne hanno conquistato una parità solo apparente. In Africa, invece, c’è una solidarietà tra famiglie, e soprattutto tra donne. Qui, ad esempio, i figli sono di tutti. Se io devo uscire, so che una vicina o chi per lei, me li terrà. In Italia, no».

Viaggiare significa accettare di vedere le cose da un’altra prospettiva. In buona parte dell’Africa, per esempio, guardare il proprio interlocutore negli occhi è un segno di sfida, non di attenzione, come in Occidente. «Pensa a quanti fraintendimenti. Parli con un africano che arriva qui e che magari non ha ancora imparato questa dimensione della cultura e per rispetto guarda per terra. In quel momento lì, se io non lo so, mi sembra che non stia attento a quello gli sto dicendo, che non gli interessa. Sono piccoli episodi che mi hanno colpito e penso che, allo stesso modo, possano colpire gli altri. Danno la dimensione di come ci siano linguaggi completamente diversi, di cui non si può non tenere conto».

Dall’incontro alla parola scritta

A Davide Demichelis vengono ancora i brividi quando racconta la storia di Ali, un ragazzo che fece ritorno in Gambia per la prima volta proprio con la troupe di «Radici», dopo essere emigrato in Italia sopravvivendo a un naufragio nel Mediterraneo. Il giornalista ricorda l’emozione di quel mattino in cui Ali incontrò Omar, il camionista che aveva salvato sua mamma rimasta in Niger e se ne era preso cura per due anni. «Tu puoi immaginarti una donna in punto di morte, che dice: “Quando vedrai mio figlio, dagli queste tre cose”. E vedi lui, Omar, che tira fuori questo sacchetto di plastica. E dentro c’è il tappetino per la preghiera, l’anello, il certificato di morte del padre che Ali non aveva mai visto in vita sua…».

Rispetto alla figura del giornalista tradizionale, forse quella di Demichelis è stata spesso «stramba», come mi confida scherzando al telefono. «Non sono mai stato e non credo che fosse neanche giusto essere terzo, cioè non ho mai raccontato in terza persona o in modo distaccato questi viaggi. Non ero coinvolto come Ali e come tutte le persone che ho avuto la fortuna di accompagnare, perché comunque per loro è stata veramente una bomba. Però una bomba lo è stata un po’ anche per me…».

Scrivere un libro ha aiutato il giornalista a ripercorrere alcuni di quei momenti: la prima volta di Ali al cimitero, davanti alla tomba della madre, oppure il rito della curandera, la guaritrice, a cui ha assistito a Cochabamba insieme a Rosita, una ragazza tornata in patria dopo diversi anni trascorsi a Bergamo. Quando si è in giro, il tempo è poco, basta a malapena per appuntare qualcosa su un block-notes. «Hai sempre mille cose a cui pensare: guardi la telecamera, la batteria è carica, la macchina è a posto. Scrivere mi ha fatto ritrovare e anche riscoprire dei momenti che ho vissuto, per certi aspetti anche con più intensità di quella che ho avuto sul momento».

Tommy Kuti, Baricco e la forza del racconto

Ho sempre creduto, perdendomi fin da bambina tra le pagine dei libri, che si possa viaggiare molto anche stando fermi. Mi accorgo però che i miei piedi si muovono insofferenti sotto la scrivania, quando Davide mi racconta dell’India colorata di Jatinder o della Cina di Wei e Gin, dove ringraziare un parente stretto è maleducazione («si ringraziano solo le persone lontane, quelle con cui non si è in confidenza»).

Vorrei alzarmi e partire anche io. Per questo, a bruciapelo, non posso che domandare al giornalista come si fa a incontrare Coumba senza andare in Senegal. «C’è una battuta che prendo a prestito da un ragazzo di origine nigeriana che si chiama Tommy Kuti, con cui abbiamo fatto una puntata di “Radici” – mi risponde – Tommy vive a Milano, fa il rapper. Quando parlavamo del rapporto con le persone, dei migranti che hanno storie e culture diverse dalla nostra, lui mi diceva spesso: “Fatevi invitare a cena a casa di una di queste persone, perché quello è un bel modo di viaggiare” . La cosa più interessante di questa sua battuta è che non ha detto “Invitate a casa a cena”, ma “Fatevi invitare”. Vengo io da te a mangiare e tu mi dai da mangiare: tu mi racconti e anch’io ti racconto. L’idea di viaggiare con persone immigrate in Italia mi è venuta in mente per raccontare i luoghi non raccontati, prima delle guerre, ma anche per raccontarli a partire dalla testimonianza di un vicino di casa di cui so pochissimo, che però mi può parlare della sua terra in italiano, nella mia lingua, nella lingua dello spettatore. E tutto questo può avvicinare paesi lontani a un pubblico come il nostro, che ha un po’ paura dell’estero, dello straniero, proprio perché non lo conosce».

Prima di salutarci, Davide mi lascia «due annotazioni». Non sue: di Alessandro Baricco, uno scrittore che ama. «Prima: ti vedi passare alla tivù e sui giornali la realtà, per mesi, per anni, poi a inchiodarti con una violenza tutta particolare sono un bestseller e un film da Oscar. Ancora una volta: a prescindere da cultura alta o bassa, è il racconto della realtà che ti incunea la realtà nella testa, e te la fa esplodere dentro. I fatti diventano tuoi o quando ti schiantano la vita, direttamente, o quando qualcuno te li compone in racconto e te li spedisce in testa».

«Raccontare è una necessità civile» conclude Baricco. Capisco ora perché mi commuovo, quando leggo la storia di Ali.

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