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Casa? A volte è sia Bergamo che Manila

Articolo. Per esplorare la vita e la cultura della comunità filippina di Bergamo sono partita da una semplice domanda: «qual è la tua storia?». Alla risposta di Ramil sono seguite quelle di Vilma, Wolly e di altri compaesani: quasi tutti avevano lasciato le Filippine in cerca di un futuro migliore e soprattutto con la speranza di trovare un lavoro. Ora molti sono qui da più di trent’anni e sono sereni. Risulta allora difficile, soprattutto per i giovani di seconda generazione, rispondere alla mia seconda domanda: «qual è la tua casa?»

Lettura 6 min.
Nicolas Joel con la figlia Shaira

Alla fine degli anni Novanta, arrivare in Italia dalle Filippine non era facile. Chi partiva, per esempio, da Manila, poteva prendere un aereo fino a Jakarta grazie al visto turistico, ma poi da lì, se voleva raggiungere l’Europa, diventava un clandestino. Me lo racconta Ramil, con la certezza di chi, quel viaggio, l’ha vissuto sulla sua pelle. Mentre cerca di ricordare le tappe percorse nel lontano 1997, è seduto di fronte a me, durante un pomeriggio di una domenica di inizio giugno. Siamo nella parrocchia di San Francesco d’Assisi, punto di ritrovo per molte comunità di immigrati a Bergamo. Vicino a noi, altri filippini si mettono in ascolto.

«Io e tre amici ci siamo affidati a un trafficante per arrivare in Europa. I miei genitori hanno venduto un pezzo del loro terreno per pagare il viaggio» comincia Ramil, narratore di una storia di cui è stato, suo malgrado, protagonista. «Poi a Jakarta, altre persone sono venute a prenderci in macchina, per darci un passaggio». Non sapeva che dall’Indonesia, per i filippini come lui, partiva un vero e proprio viaggio della speranza. «Da lì abbiamo fatto alcuni tratti a piedi, altri in auto, a piedi e poi di nuovo in auto» ripete, come in una litania. “A piedi e in auto”, possibilmente di notte e senza far rumore, era l’unico modo per attraversare la Malesia, il Vietnam, la Thailandia, il Myanmar e il Nepal fino alle porte dell’Europa. «Dopo cinque giorni così, sulle montagne e senza cibo, siamo arrivati in Jugoslavia, da cui abbiamo preso un treno. Il viaggio fino all’Italia è durato 13 ore».

Ad aspettare Ramil nella stazione centrale di Milano c’era la zia Esperanza, di nome e di fatto. «Ripensando a quel periodo, mi vengono le lacrime, sai? Non avevo niente con me, solo i vestiti addosso. Non conoscevo una parola di italiano e non avevo un lavoro» mi racconta l’uomo, ormai con i capelli e la barba brizzolati. «Ma perché fare tanta fatica?» chiedo, nel tentativo di trovare una giustificazione a quel viaggio surreale. «È stata una mia scelta: nelle Filippine gli stipendi sono troppo bassi per vivere». Per questo, mi spiega, raggiungere l’Europa era il sogno di tutti e anche il suo. «Nel mio Paese si guadagna 18mila pesos in un mese, l’equivalente di 300 euro, ma lavorando 8 ore al giorno, anche nei weekend. È impossibile sostenere le spese di una famiglia o le cure mediche. Ora sono 25 anni che sono a Bergamo e ho un lavoro, una casa e anche una macchina. Non posso desiderare di meglio».

Lo confermano anche i suoi compaesani, rimasti fino a quel momento in silenzio. Molti di loro sono giunti in Europa, ormai molti anni fa, per le stesse ragioni, anche se con metodi diversi. C’è chi lavorava come marinaio e ha colto l’occasione di un approdo a Genova per rimanere in Italia, chi invece ha voluto raggiungere un famigliare già presente sul suolo italiano, magari attraverso un matrimonio combinato. Tutti però si sono messi in viaggio nella speranza di trovare una condizione di vita diversa, migliore, rispetto al loro Paese d’origine, soprattutto a partire dall’ambito lavorativo. Percepisco dai racconti dei filippini bergamaschi attorno a me che il tema del lavoro è quello più sentito: fonte di sofferenza e poi di orgoglio personale, un ostacolo all’inizio e poi un riscatto. Nelle loro parole c’è un profondo senso di gratitudine verso l’Italia, verso Bergamo, nonostante le premesse dei loro viaggi non fossero delle più rassicuranti.

Che siano arrivati a piedi o per mare, quello che è certo è che oggi, nella città dei mille, i filippini sono il 2,56 % di tutti gli stranieri presenti sul territorio: una comunità talmente piccola da sembrare una grande famiglia che si ritrova nelle occasioni importanti. Quella domenica, infatti, si festeggiava un battesimo. Prende la parola Vilma, in Italia ormai da 30 anni: «Quando ci ritroviamo insieme, è come se ci sentissimo di nuovo Filippini. Qui faccio la badante e guadagno bene – questo è l’importante – ma a volte sento la nostalgia di casa».

È così che gli incontri settimanali, organizzati solitamente nella Chiesa di San Giorgio, alleviano un po’ le ferite dovute alla lontananza dal Paese natio. I ritrovi della domenica, oltre a offrire un supporto importante in termini di socialità, per molti sono un’occasione di riposo dai pesanti lavori manuali della settimana. Quasi tre quarti dei filippini in Italia, infatti, sono occupati nel settore dei servizi pubblici, sociali e della persona, con mansioni che spesso consumano molte energie fisiche e mentali. Secondo l’ultimo rapporto sulle migrazioni in Italia, il 65% di loro lavora in qualità di collaboratore domestico o assistente famigliare: «Dicono che siamo bravi e pazienti» commenta Vilma, sorridendo per la fama di cui godono i suoi compaesani badanti.

Per rispondere alle loro esigenze, 20 anni fa nacque l’Associazione Filippini di Bergamo, di cui è Presidente Nicolas Joel, l’uomo alla mia sinistra che fino a quel momento aveva lasciato la parola agli altri. «La comunità filippina si è creata per offrire un supporto e un punto di riferimento, soprattutto per i più giovani – spiega, quando lo invito a raccontarmi di sé – Per i ragazzi, ad esempio, organizziamo tornei di basket». E continua: «Di recente poi la comunità filippina ha festeggiato per le vie di Bergamo “Flores de Mayo”, una celebrazione in onore della Beata Vergine Maria, culminata nella processione, chiamata “Santacruzan”».

Osservando il viso disteso di Joel mentre mi racconta pezzi di vita filippina a Bergamo, è difficile immaginare la sua storia personale. Nella sua vita ha lavorato come lavapiatti, manutentore e operaio; faceva turni di 12/15 ore al giorno per poter mantenere la figlia appena nata; è sopravvissuto all’infarto avuto su un furgone mentre portava la spesa a domicilio. «Questa è la mia terza vita» sospira con il sorriso, dopo aver passato in rassegna anche i mesi trascorsi in terapia intensiva per il Covid. Interrompe il flusso dei ricordi solo per l’arrivo improvviso della figlia Shaira. Ha dodici anni e lo stesso sorriso del padre. «È una pallavolista» precisa fiero Joel, per poi lasciare di nuovo la parola agli altri.

Si aggancia subito un’altra donna che si era appena unita a noi: «È bello ritrovarsi, scambiare due parole in tagalog e mangiare insieme i piatti tipici della tradizione». La lingua e il cibo sono sempre in grado, più di ogni altra cosa, di mantenere e ricordare i legami profondi con la propria madre patria. Così, incuriosita, decido di scoprire i sapori delle Filippine.

Mi incammino verso la saletta dove stavano festeggiando il battesimo, guidata dall’alto volume della musica che risuonava all’interno. Subito vengo presa sotto braccio dalla moglie di Ramil che, con entusiasmo, comincia a mostrarmi e offrirmi le pietanze della tradizione. «Questa è una zuppa fatta con la trippa di manzo: si chiama Menudo. Questa invece è l’Afritada, il più comune pasto filippino, a base di pollo, manzo o maiale brasato in salsa di pomodoro con carote, patate, peperoni rossi e verdi». Passa veloce da una pirofila all’altra, scoperchiando i piatti ed elencandomi gli ingredienti. «Questo è il Dinuguan – spiega, indicando uno stufato ricoperto da un sugo scuro – è preparato con la carne e il sangue di maiale. Vuoi assaggiare?».

L’arrivo di alcuni dolcetti distoglie l’attenzione alla domanda, lasciata – volutamente – in sospeso da me. «Cosa è quello?» cambio argomento, indicando prontamente uno dei dessert appena portati. «È il Leche flan, il classico creme caramel alla filippina», la sua risposta divertita. Opto per quello, insieme a qualche Kakanin, ovvero tortini di riso al vapore. La donna nel frattempo mi riempie il piatto, aggiungendo anche dei biscotti a base di lenticchie. Passo quindi all’assaggio che, contro ogni pregiudizievole previsione, si rivela una dolce sorpresa.

Mentre finisco con gusto la porzione di Bibingka, una variante del Kakanin, chiedo alla mia guida culinaria: «A casa cucinate filippino o italiano?». «Io mangerei sempre filippino – mi risponde lei – ma mio figlio preferisce il cibo italiano, più leggero e salutare». Lo dice richiamando con un gesto l’adolescente, costretto a sollevare lo sguardo dallo smartphone. Il giovane si avvicina a passi lenti, mostrando uno stile molto simile a quello del padre Ramil: una grossa collana con un crocifisso sopra la camicia blu, alcuni bracciali e tanti anelli di ogni forma. Axle, questo è il nome del giovane, ha quindici anni e frequenta il liceo artistico. Da grande, vorrebbe diventare un tatuatore. Gli domando se gli anelli che indossa abbiano un significato: «Sì, mi piacciono perché è come se qualcuno mi tenesse sempre la mano» commenta osservandosi le dita sottili. Dopo qualche altra curiosità sui suoi monili, gli chiedo ciò che più mi premeva: «Ti senti più filippino, italiano o bergamasco?». Axle mi risponde con naturalezza: «Un po’ di tutto. A volte però a scuola è difficile integrarsi. Ci si sente un po’ isolati, diversi dagli altri. È normale…».

Mi stupisce la risolutezza con cui sembra accettare quest’ultimo aspetto – il non sentirsi al 100% “come gli altri” – e ripenso un po’ al significato dato ai suoi anelli. Le radici di Axle, d’altronde come quelle di molti altri ragazzi di seconda generazione, affondano in due città e in due continenti diversi: in parte a Bergamo, in parte a Manila. E infatti: «Prima del Covid, quasi ogni estate tornavo nelle Filippine, per rivedere il resto della famiglia» mi racconta il giovane. Proprio per poter comunicare con i nonni e i cugini rimasti nel paese dell’Asia orientale, Axle ha imparato fin da piccolo la lingua del suo Paese. «Capisco il tagalog, ma dovrei parlarlo di più», ammette sghignazzando. Continuo a scambiare qualche battuta, con la sensazione che l’argomento sulle proprie origini sia ormai “assodato” per lui, talmente naturale – il sentirsi diversi “perché è così” – che è quasi strano parlarne. Me lo confermano degli altri ragazzini lì vicino, i quali, di fronte alle mie domande mi danno una semplice risposta: «Casa è sia Bergamo che Manila».

Dopo l’ennesimo sguardo confuso di un bambino di 10 anni, messo davanti a questioni a cui fino a quel momento probabilmente non aveva dato molto peso, capisco che forse è il caso di salutare la comunità filippina e ringraziarla per il tempo che mi ha dedicato. Con il piatto ormai vuoto, mi dirigo nella sala del buffet, illuminata da luci colorate e dove gli ospiti stavano continuando i festeggiamenti. Non appena varco la soglia, alcuni filippini – con cui non avevo ancora parlato – si avvicinano baldanzosi, proponendomi di ballare. Non potevo dire di no a quella spontanea gentilezza e così non oppongo particolare resistenza. Chi l’avrebbe mai detto – ho poi pensato in mezzo alla pista – che il mio viaggio nella comunità filippina si sarebbe concluso al ritmo di «Makarena».

(Tutte le foto sono di Federica Pirola)

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