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«Bergamo Next Level»: creare una città inclusiva attraverso il mosaico del riuso degli spazi

Intervista. Il 9 maggio, nell’ambito della rassegna, si terrà una lezione aperta sulla rigenerazione urbana come occasione per attivare dei processi di dialogo tra aree centrali e periferiche della città, co-progettando il patrimonio culturale e identitario costituito. Appuntamento alle 16 all’Auditorium ANCE, in via dei Partigiani 8 (Bergamo)

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«Il mosaico del riuso nelle città» ci racconta la seconda vita dei luoghi attraverso una ricollocazione, anche solo culturale, in grado di restituire dignità a quegli edifici e spazi dismessi che grazie alla riqualificazione urbana acquistano un nuovo significato, soprattutto ridisegnando le geometrie sociali e spaziali delle città. In particolare, il concetto di «mosaico del riuso» racchiude i progetti di recupero di edifici, quartieri o intere zone urbane che formano un insieme variegato e composito, come un mosaico appunto. Questo approccio al riuso urbano si propone di valorizzare la diversità e l’originalità di ciascun progetto e di creare un’identità cittadina unica e riconoscibile. Grazie alla riqualificazione di questi spazi, le città possono migliorare la loro attrattività turistica, ma soprattutto diventare più vivibili per le persone che le abitano.

Sono queste le premesse su cui si innesta la lezione aperta «Il mosaico del riuso nelle città: luoghi sospesi, patrimonio culturale e ricuciture urbane», che punta a discutere nuove frontiere per l’abitare cittadino, con un occhio di riguardo alla sostenibilità. Iniziative che siano soprattutto in grado di superare le vecchie e nuove frontiere urbane e di risolvere le dinamiche conflittuali dell’abitare tra centro e periferia.

Al termine della lezione aperta, i partecipanti avranno l’opportunità di visitare la mostra «Bergamo ‘23. Visioni per un futuro presente. Città, ambiente, comunità», curata da Luca Molinari e ospitata presso il Palazzo della Libertà di Bergamo come parte delle iniziative di Bergamo Brescia Capitale della Cultura 2023. Abbiamo intervistato Fulvio Adobati, professore di geourbanistica dell’Università di Bergamo, tra i protagonisti dell’evento.

CP: Professore, cosa si intende esattamente quando si parla di paesaggi dell’abbandono?

FA: Quando parliamo di paesaggi dell’abbandono non indentifichiamo luoghi specifici, invitiamo piuttosto a riconoscere quelle che sono le tipologie dell’abbandono: quelle parti di città che storicamente sono state messe da parte e che rimangono con una sorta di biografia sospesa, in attesa di una ridefinizione del loro ruolo e di connessione con il resto della città. Ci riferiamo tipicamente a quei luoghi solitamente impiegati nelle attività di produzione: le fabbriche, ma anche gli spazi militari. Si tratta di luoghi in attesa di una ricollocazione, che nel contesto urbano più recentemente possiamo identificare anche nei luoghi dedicati al commercio e che sono in attesa di un nuovo destino. Allargando l’orizzonte al di là della città, possiamo anche far rientrare in questa definizione le cascine e tutti gli edifici rurali che si trovano molto spesso in stato di abbandono. Esempio emblematico è il paese di Consonno (frazione di Olginate, nel lecchese), che se vogliamo è l’icona di questa tendenza. Ma possiamo anche parlare di tutti quei borghi, soprattutto di montagna, che sono in stato di decremento demografico e che vivono momenti di difficoltà nell’equilibrio dell’abitare. Qui c’è un tema di aggregazione e di metropolizzazione spinta, legata inevitabilmente ad un cambio di assetto sociale che merita riflessioni a parte.

CP: Ci sono delle barriere che impediscono di recuperare gli edifici? E quali sono i fattori che influenzano la scelta di riutilizzare un edificio piuttosto che di demolirlo?

FA: Innanzitutto, un primo criterio che influisce riguarda tutti gli edifici che hanno un valore storico-architettonico riconosciuto, sui quali esistono dei vincoli paesaggistici e c’è un tema di progettazione attenta che deve preservarne l’identità. Una volta che sono rispettati i criteri di legge, la questione è soprattutto di natura economica. Nel senso che i costi per salvaguardare un edificio sono spesso onerosi, anche perché le caratteristiche stesse degli immobili non sono in linea con gli obiettivi di rifunzionalizzazione dell’edificio. Mentre naturalmente la costruzione di una struttura ex novo concede maggiori libertà nel rispettare le esigenze di progettazione moderne.

CP: Quali sono le nuove forme di abitare che si prospettano col riuso degli edifici? E che tipo di conflitti si possono risolvere a livello urbano?

FA: Dal punto di vista urbanistico è piuttosto lampante la necessità di mettere mano al patrimonio edilizio dismesso e obsoleto, che all’interno delle politiche di rigenerazione urbana va sempre ripensato con una prospettiva di tipo plurale. Rendendosi cioè conto che ciò che rende attrattiva una città è avere al suo interno più funzioni che si compenetrano e dialogano tra di loro. Penso all’idea che ha preso piede durante l’emergenza pandemica della «città del quarto d’ora», sintesi che ci racconta il paradigma di uno spazio nel quale tutti i servizi essenziali si trovano a una distanza di 15 minuti da percorrere a piedi o in bici. Bisogna quindi immaginare un compendio di funzioni che avvicini abitanti e sistema dei servizi, rendendo i tessuti urbani vivaci e abitati. Questo va un po’ in contrapposizione a quell’idea di inquadrare la città suddividendola in zone addizionali. Pluralità di funzioni quindi, e soggetti plurali che abitano la città con politiche di housing che favoriscano una diversità nell’abitare le diverse zone, per evitare di avere quartieri che poi si polarizzano dal punto di vista della composizione demografica. La città di Bergamo è una città universitaria che esprime esigenze di residenzialità che rispondano alla domanda degli studenti. L’idea è quella di un plurale di istituzioni e persone che abitano la città in modo permanente e temporaneo. E le parole d’ordine di questa pluralità sono mescolanza e integrazione, nella costruzione di una città che si ispiri a queste esigenze. Che poi è il modello di città tipicamente europeo a cui siamo più affezionati.

CP: Il riuso degli edifici come si ricollega dunque alla sostenibilità?

FA: Anche rispetto a quello che dicevamo prima, c’è un tema di sostenibilità sociale, nel senso che in alcune zone la città può diventare esclusiva ed escludente. Dal punto di vista ecologico, la sostenibilità degli edifici lavora sul rendimento e sull’efficienza energetica, oltre che sulle qualità igienico-sanitarie. Del resto, il miglioramento delle prestazioni energetiche è una condizione essenziale sostenuta anche dallo Stato in questi anni con importanti incentivi. C’è anche un tema di organizzazione che spesso sfugge, nel senso che una città compatta che ha degli spazi verdi, che è permeabile, è una città sostenibile, perché è più facile da servire. Il trasporto pubblico, ad esempio, si alimenta con l’utenza che sostiene il sistema dei trasporti con una pressione demografica che lo fa stare in equilibrio. Più c’è dispersione abitativa e più è difficile rispondere alla domanda e si ricorre all’automobile.

CP: Quali sono quindi progetti virtuosi che testimoniano che è possibile rendere vivo il mosaico del riuso?

FA: L’ex centrale termoelettrica di Celadina è un buon esempio perché oggi è un centro culturale. Semplicemente perché va a inserire una socialità all’interno di una cellula sociale di recente formazione, promuovendo quella pluralità di cui abbiamo parlato in precedenza. E poi come non citare l’uso degli edifici storici da parte dell’Università di Bergamo con Sant’Agostino e le altre sedi, che incarnano un patrimonio che viene rivitalizzato e che sicuramente ravviva il tessuto urbano e quello sociale.

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