Sarà mercoledì 18 maggio dalle 10, all’Auditorium di Piazza della Libertà (ingresso libero su prenotazione). «Dal carcere al territorio, dal carcere con il territorio: per una comunità inclusiva della pena» il titolo dell’incontro. Un’occasione per parlare di un tema che assai raramente fa capolino nelle agende quotidiane. Il programma della mattinata prevede innanzitutto uno spettacolo teatrale con la partecipazione di Michele Marini e Michele Agazzi: la riduzione teatrale del romanzo «Fine pena ora» (Sellerio, 2015) di Elvio Fassone, perché sia l’immediatezza di una drammatizzazione ad aprire l’incontro: la storia di un dialogo epistolare tra un detenuto e un giudice che lo condannerà al 41bis.
Seguirà una conferenza, dalle 11:15, per approfondire il rapporto tra il dentro e il fuori nel percorso di rientro in società di detenuti e persone con una pena da scontare. Una delle tante facce del grande tema del carcere, che continua a richiedere attenzione, approfondimento, un dibattito ragionevole, sensibile, fresco. Un ambito che, nondimeno, necessità riforme e progettualità. A Bergamo in primis. La casa circondariale di via Gleno – secondo Associazione Antigone – «versa in condizioni critiche» soprattutto per sovraffollamento e polizia penitenziaria sotto organico. Attualmente è il settimo carcere più affollato d’Italia, con una capienza di 315 posti a fronte di 522 presenti registrati il 30 aprile di quest’anno. Con tutto ciò che ne consegue, perché la qualità della vita in carcere – l’accessibilità agli spazi e alle attività, peraltro interrotte a causa della pandemia e riprese solo recentemente – dipende molto dal tasso di sovraffollamento.
Ma tutto questo è un’altra storia.
L’incontro di mercoledì 18 non riguarderà tanto l’interno del carcere ma il suo rapporto con l’esterno. Interverranno Marcella Messina, Assessora alle Politiche Sociali del comune di Bergamo, Matteo Rossi della Fondazione Istituti Educativi, Gino Gelmi dell’Associazione «Carcere e Territorio», Grazia Fortunato, psicologa e psicoterapeuta impegnata in carcere, dove ha iniziato a lavorare nel 2001 come «psicologo esperto», figura prevista dall’ex articolo 80 della Legge sull’ordinamento penitenziario.
«Il tema sarà quello di dialogare anche con gli studenti di alcune scuole di Bergamo a proposito della perdita di libertà, e della sua gestione da parte di persone che provengono dal carcere» spiega Fortunato, responsabile del «Gruppo di discussione esterno al carcere», la realtà di recente costituzione che sarà lo specifico oggetto di approfondimento dell’incontro, e della quale fanno parte le due persone in esecuzione penale esterna che interverranno come relatori. «Il gruppo è gestito da me e da un’altra collega, la dottoressa Silvia Gherardi: incontriamo delle persone che sono in esecuzione penale esterna, quindi ristrette nella libertà in forme diverse previste dalla legge».
MR: «Esecuzione penale esterna»: scontare una pena non significa necessariamente essere detenuti in carcere.
GF: Purtroppo il tema della pena coincide sempre con l’immagine del carcere. In realtà, esistono forme diverse di esecuzione della pena. Alcune delle persone che incontriamo nel gruppo hanno espiato parte della loro pena in carcere e per rientrare in società gli è stata concessa la misura alternativa. Questa è l’esecuzione penale esterna. Un’altra forma di esecuzione penale esterna si può ottenere direttamente dall’esterno: una persona che commette reato non necessariamente deve essere incarcerata. Purtroppo l’opinione pubblica associa il carcere alla parola pena: pena uguale carcere. Immaginiamo che la risposta punitiva debba essere sempre il carcere: non sempre è così.
MR: Coltivare la cultura della misura alternativa, e il carcere, invece, come estrema ratio?
GF: Il carcere è criminogeno. Non lo dico solo io. Per quanto il dettame costituzionale della pena è quello della risocializzazione, del reinserimento sociale come finalità. Quindi è necessario creare una cultura della misura alternativa, che non va confusa con la libertà. Sono tante le soluzioni previste, anche dall’attuale riforma, le cosiddette pene alternative e pene sostitutive. Le persone che incontriamo portano l’esperienza del carcere e l’esperienza del reinserimento in società con una misura alternativa. La particolarità dell’attività che abbiamo avviato su territorio è proprio questa: riunire persone che provengono da esperienze diverse – carcere per molti anni, per pochi mesi, detenzione domiciliare – e insieme creare una situazione di gruppo in cui discutiamo delle difficoltà che si vivono all’esterno.
MR: Ed è proprio il «gruppo di discussione» di cui parlerete mercoledì 18.
GF: Esatto. Ha la particolarità di abbattere i primi vincoli. Le persone fuori in misura alternativa o in esecuzione penale esterna non possono incontrare altri pregiudicati. Questa invece è un’esperienza in cui si incontrano, e possono farlo solo in quella situazione perché il magistrato l’ha consentito. Questo è già abbattere una prima barriera.
MR: Quali sono le difficoltà più diffuse che emergono da questo lavoro di gruppo?
GF: Rientrare in un territorio non è affatto semplice, soprattutto se consideriamo che la principale forma di detenzione è la detenzione sociale, e riguarda soprattutto persone che fuori non hanno niente, o poco. Uscire non è facile: qualcuno non ha più famiglia o ha perso i legami affettivi, non ha lavoro o una casa – e in questo caso si inseriscono associazione come «Carcere e Territorio». In più sono stati in un contesto in cui le regole sono impartite da altri, fatte rispettare; quando escono le regole ci sono, ma sono richiamati alla loro responsabilità, alla responsabilità individuale. E non è così semplice: la trasgressione delle regole è facile quando si è abituati a stare stretti in un carcere. Proviamo ad immaginare quando queste persone tornano libere.
MR: Il carcere alimenta il senso di solitudine?
GF: Paradossalmente aiuta più a stare soli. Quando escono le persone si trovano in difficoltà, provano un senso di estraneità, di diversità, di provvisorietà. Si sentono come se fossero sempre in carcere. Se si ascoltano i racconti, per chi è stato tanto in carcere anche solo mettere i piedi sull’asfalto o guardare la luce è già un’esperienza traumatizzante. Si devono riadattare, riabituare. L’altro giorno una persona del gruppo raccontava di come era uscito dopo anni ed era tutto cambiato: i social, WhatsApp non sapeva cosa fosse, era tutto cambiato. In realtà il carcere è uno strappo, la carcerazione è uno strappo soprattutto rispetto ai legami, alla società, e rientrare non è facile. Non è facile tornare dai propri figli, dalla moglie o dalla famiglia. A volte non si trovano più, per un motivo o per l’altro.
MR: La domanda è provocatoria, evidentemente: perché all’esterno dovrebbe interessare la salute mentale dei detenuti, o le condizioni psicologiche del loro reinserimento?
GF: Prima di tutto perché chi è in carcere è un cittadino, e rimane tale, al di là della situazione di chi è straniero o clandestino che vive una condizione ancora più difficile dentro, figuriamoci fuori. Chi è in carcere proviene da una società nella quale tornerà: non possiamo ragionare nel termine del “buttiamo via la chiave”. Tutt’altro. Ormai si sta dimostrando che il carcere è criminogeno: recludere il male dietro le sbarre è molto facile, il male vive affianco a ognuno di noi. E invece ci sentiamo in qualche modo sicuri quando una persona è chiusa dentro, ma questa non è la risposta al male. Perché quella persona lì è il prodotto della nostra società, siamo noi. Sempre di più dobbiamo pensare che dobbiamo prenderci cura delle persone, dare una risposta collegiale al male. Non possiamo sottrarci.
MR: Cosa intende precisamente quando dice che il carcere è criminogeno?
GF: Ovunque ci sono autori che lo dicono: il carcere produce criminalità, è criminogeno. È per questo che dev’essere aperto, respirare, aprirsi alla collettività, a chi non ha commesso reati. Bisogna contagiarsi, il bene deve contagiare il male. E di solito succede il contrario. Abbiamo visto che quando non c’è il contatto con l’esterno e non si offrono attività rieducative o risocializzanti, il carcere produce più criminalità.
MR: La tipologia dei reati, anche lievi, puniti con la detenzione ha qualcosa a che fare con questo?
GF: Stiamo facendo esperienza di persone molto giovani che entrano in carcere. Si immagina di solito che le persone siano in carcere a causa di reati molto gravi, ma non è così. Esiste reato e reato, e il rischio poi invece è quello di fare di tutta un’erba un fascio – soprattutto con i processi mediatici. Ricordiamo che in carcere non abbiamo solo le persone condannate, quindi con tutti i tre gradi di giudizio – perché una persona è presunta innocente finché non arriva a sentenza. Abbiamo un alto numero di persone che sono in attesa di giudizio, imputate, senza i tre gradi di giudizio. O persone che hanno pene molto brevi.
MR: Insomma, le cura delle strutture e la progettualità dei percorsi attraverso cui lo Stato articola il recupero e il reinserimento di chi deve scontare o ha scontato una pena, su quello si misura il grado di civiltà di una società.
GF: Assolutamente. Abbiamo purtroppo dimostrato di non esserlo molto in Italia, per come sono le condizioni delle nostre carceri. Lo spirito con cui nasce il gruppo è quello di riuscire a creare un cuscinetto ammortizzatore tra il dentro e il fuori, proprio per quello che è il trauma della carcerazione. Direi che è la situazione un po’ in generale delle carceri, è tutto il sistema che andrebbe oliato, a maggior ragione perché riguarda la sicurezza sociale. Dovrebbe essere un po’ responsabilità di tutti, in questo senso.