Il tema è di quelli molto dibattuti: le disuguaglianze. Il plurale non è casuale, perché come spiega Roberto Barbieri, direttore generale di OXFAM Italia, “parliamo di disuguaglianze su più livelli: economico in primis, ma anche sociale, sanitario, educativo, lavorativo”. L’andamento è in crescita: “OXFAM ha osservato un aumento delle disuguaglianze molto significativo negli ultimi 30 anni che ha coinvolto sia il reddito che la ricchezza in oltre il 70% dei paesi dove siamo presenti”. L’organizzazione no-profit che lavora per una riduzione della povertà globale, attraverso progetti di sviluppo e aiuti umanitari, monitora la questione in oltre 70 nazioni ed è stata fra le prime a riconoscere il problema.
Dati che contrastano con quelli delle più diffuse teorie dello sviluppo, da Milton Friedman al thatcherismo, passando per i Chicago Boys e Reagan, dal dopoguerra agli anni ‘80. Si è sempre sostenuto che l’aumento della torta del reddito di un paese avrebbe portato benefici e benessere alla totalità della popolazione in termini complessivi. Ma non è così: “Notavamo che la realtà si discostava da queste teorie, ed abbiamo iniziato a puntare il dito contro il fenomeno globale della diseguaglianza economica”. Ciò che si presentava era infatti un divario sempre più accentuato, e disuguaglianze in crescita nella forbice che separa le élite della popolazione dalle fasce più povere.
Ma perché questa difficoltà nell’accettare un’evidenza che, numeri alla mano, è sempre più evidente? “In primis, nessuno aveva posto queste problematiche all’attenzione pubblica. OXFAM, con un rapporto sulle disuguaglianze presentato al World Economic Forum del 2014, aveva scelto un’immagine chiave per denunciare questo fenomeno”. Immaginate un autobus londinese, di quelli rossi a due piani. Coloro che riempiono i sedili del bus, circa 85, hanno la stessa ricchezza di metà del pianeta, ovvero 3,5 miliardi di persone. Un’immagine shock, che ha portato alla creazione di un movimento di contestazione dei dati e delle fonti che OXFAM aveva raccolto. “Un secondo motivo è legato alle teorie più diffuse, secondo le quali gli aspetti da considerare erano la crescita economica e il benessere complessivo. Ci si concentrava sulle statistiche e sulle percentuali di persone che vivevano in condizioni di povertà assoluta”. Insomma, teorie totalmente da rivedere, dato che con il tempo anche il concetto di povertà assoluta stava cambiando, da una soglia di 1,90 $ a 5,50 $ al giorno.
“Infine, quando anche le popolazioni più elitarie hanno aperto gli occhi di fronte a questi fenomeni, non utilizzavano il termine disuguaglianze” conclude Barbieri. Ne sono scaturite lotte sociali e populismi, soprattutto in paesi dove il sistema economico evidenziava un grande divario tra chi stava bene e chi meno. Contesti in cui la popolazione era disorientata, e manifestava il suo dissenso con proteste e astensioni.
Oggi, per fortuna, la consapevolezza globale fa sì che siano in pochi a negare il problema. E il tema fondamentale è diventato: cosa fare?“Per molti anni abbiamo lavorato su questo fenomeno. Ad esempio in grandi paesi come India e Vietnam, che hanno avuto un importante e recente sviluppo economico. Abbiamo riscontrato un consistente divario tra la crescita del PIL e la possibilità di tutta la popolazione di avere accesso alle risorse”. La pandemia ha poi aggravato le disuguaglianze pre-esistenti. “È una differenza che abbiamo notato sia all’interno dei paesi, che tra diversi paesi.”
Nazioni più stabili economicamente hanno saputo attivare delle misure di welfare in supporto alla popolazione. È il caso dell’Italia dove le azioni di contrasto alla pandemia come la cassa integrazione, il blocco dei licenziamenti, i fondi di integrazione salariale e gli sgravi fiscali hanno fatto sì che il peso sulla parte di popolazione più povera fosse meno sentito.
Al contempo altri paesi non hanno potuto contrastare il fenomeno. Ad esempio con forme di lockdown per il contenimento dei contagi, perché andare meno al lavoro avrebbe inficiato pesantemente sull’economia del paese. “Siamo felici di aver contribuito ad aumentare le strutture di contrasto in alcuni paesi come il Vietnam. I nostri aiuti umanitari hanno dato beneficio a 7 milioni di persone nei periodi più bui della pandemia, e questo per noi è stato un grande successo”.
Da qui, l’importante lezione che possiamo trarre dalla pandemia è che le politiche pubbliche possono e devono fare qualcosa. In questa situazione straordinaria a livello europeo è avvenuto ciò che fino a pochi mesi prima era inimmaginabile: l’allentamento dei vincoli di bilancio comunitari, la risposta coordinata e la programmazione comune del post-pandemia in UE. L’intervento pubblico e gli strumenti di welfare sono divenuti centrali, e questa dovrebbe essere una lezione per il domani.
Guardando al presente post-pandemico, Barbieri infatti auspica “un profondo ripensamento e riequilibrio delle disuguaglianze che si sono fin qui delineate. Ciò deve avvenire dando maggior peso ai redditi da lavoro rispetto ai redditi da capitale e alle rendite, che negli ultimi 20 anni sono notevolmente aumentate”.
Insomma, le disuguaglianze economiche dopo la pandemia riguardano le differenze di patrimonio e quindi la ricchezza e il capitale che ognuno ha a disposizione. E poi le differenze di reddito, ovvero le entrate sotto le diverse forme. In situazioni di shock come la pandemia, chi può attingere ad un patrimonio e ad entrate più consistenti è senza dubbio in una posizione privilegiata (leggi: allarga la forbice della disuguaglianza) rispetto a chi magari non riesce neanche ad arrivare alla fine del mese.
C’è poi il tema importante della povertà educativa e delle opportunità date ai giovani: “l’Italia è uno dei paesi con il più alto tasso di giovani che sono fuori dal sistema educativo e non ancora inseriti nel mondo del lavoro”. E per quanto riguarda quest’ultimo la diseguaglianza diventa di genere: “basti pensare che le donne costituiscono la maggior parte dei lavoratori che hanno perso l’impiego con la pandemia”.
Senza dimenticare le disuguaglianze di accesso ai servizi e di esercizio dei diritti. “Se pensiamo al tema dei vaccini notiamo come alcune aree del mondo abbiano una diffusione meno efficace. Da rivedere in questo senso è il sistema di sviluppo, produzione e distribuzione dei farmaci, che ancora oggi è mal organizzato soprattutto nelle parti più povere del pianeta, dove le persone non hanno accesso a percorsi di cura”.
In tutti i paesi dove opera, OXFAM prevede programmi che supportano le comunità più vulnerabili, cercando di incidere sulle cause strutturali della povertà. Un impegno costante per garantire salari dignitosi, redditi minimi e una parità di accesso a beni e servizi.“Siamo all’interno della People Vaccine Alliance che vede varie organizzazioni della società civile in ogni paese. Su questo tema siamo stati tra i principali artefici nel sollevare un dibattito che ancora non ha trovato soluzioni concrete e attive sul tema della liberalizzazione dei brevetti, ma noi ci stiamo lavorando fin dall’inizio, da aprile del 2020.” Un lavoro che vedrà l’organizzazione impegnata anche durante il prossimo G20 in Italia, a fine ottobre.