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I luoghi e la memoria. “Se quei muri”, una mostra per raccontare le storie del carcere di Sant’Agata

Intervista. La mostra organizzata da Isrec in collaborazione con l’Associazione Maite e il Comune di Bergamo. Al centro ci sono alcune delle storie di vita occorse tra le mura del carcere di Città Alta. L’inaugurazione martedì 15 giugno alle 18

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Prima di tutto è un libro, culmine di un percorso di ricerca durato circa due anni: “Se quei muri potessero parlare” racconta vicende poco note di uno dei luoghi più rappresentativi della Memoria bergamasca, l’ex carcere del complesso di Sant’Agata. Poi arriva la mostra – curata da Luciana Bramati, Chiara Molinero ed Elisabetta Ruffini – che in realtà è il motivo scatenante di quello stesso percorso di ricerca.

“Il libro, che abbiamo pubblicato a settembre e presentato il 27 gennaio, è la ricerca storica che sta alla base della mostra che andiamo a presentare”. È così che racconta l’origine di tutto Elisabetta Ruffini, direttrice dell’Isrec di Bergamo e tra le promotrici di questa iniziativa che vede la stretta collaborazione tra l’istituto di ricerca, il Comune di Bergamo e l’Associazione Maite.

MR: tutto è partito proprio da loro, l’Associazione Maite.

ER: Ci aveva chiesto una mano per studiare il carcere. Sopra lo spazio ExSA, al primo piano, c’è questo corridoio con sei celle che sono rimaste integre da quando il carcere era in funzione. È uno spazio del comune che volevamo valorizzare. E per spiegare alla cittadinanza l’importanza di quello spazio bisognava fare una ricerca nuova sul ruolo del luogo durante la Seconda Guerra Mondiale. Quindi, prima è arrivata l’idea della mostra. Da un po’ di tempo poi a me frullava nella testa la frase di Lydia Curti “Se quei muri potessero parlare ci racconterebbero tante storie...”. Lo ripeteva più volte, lei che era stata detenuta lì prima di finire deportata in un carcere tedesco

MR: Come si strutturerà la mostra?

ER: Sarà divisa su due livelli. Nella parte di ExSA – nel foyer, chiamiamolo così – ci sarà un riassunto storiografico con dei pannelli a sintetizzare i punti importanti della ricerca. Lì ci saranno delle fotografie di Isabella Balena, accompagnate da citazioni, per aprire il lato della ricerca a un coinvolgimento emotivo di chi arriva. La visita al primo piano, alle sei celle, sarà un attraversamento del luogo per portare il visitatore a confrontarsi con lo spazio. Nelle celle si troveranno pannelli documentari, ognuna presenterà una parola chiave per riassumere il significato della Resistenza e degli ultimi venti mesi della Seconda Guerra Mondiale nella storia del nostro Paese. Una costellazione di oggetti importanti interrogheranno la consapevolezza del visitatore sulla storia e le radici della nostra Repubblica.

MR: Sei celle, sei parole e per ogni cella un documento originale...

ER: Per ogni documento l’architetta Francesca Gotti, responsabile dell’allestimento, ha creato un supporto specifico, un totem – l’abbiamo chiamato così. In mostra ci sono pezzi considerevoli: ci sembrava importante sottolineare il valore della memoria di quel luogo anche prendendo il rischio di far uscire alcuni documenti dal nostro archivio. Intorno, altre riproduzioni e documenti che agganciano la parola che accoglie all’ingresso della cella a storie di vita ed esperienze vissute. I documenti sono pochi: ci interessava che non occupassero tutto lo spazio delle celle, affinché si potessero vivere nella loro spazialità non riempita. Pochi documenti per segnare l’esperienza del visitatore. Sei celle per sei documenti che rimangano in testa.

MR: Ad esempio?

ER: Ce ne sarà uno che è piccolissimo, un’immaginetta su cui Betti Ambiveri fa lasciare un ricordo alle sue compagne di cella che verranno tutte deportate ad Auschwitz – di queste sappiamo che torneranno in tre. Dietro ci sono questi i nomi di queste donne dichiarate per legge ebree mentre dall’altra parte c’è l’immagine di una natività che dà proprio l’idea di essere contro l’ideologia della purezza della razza ma per l’intreccio delle vite e delle culture. È commovente: c’è il ricordo di donne che non sono più tornate e allo stesso tempo c’è la forza delle loro vite e della capacità di lasciarsi dei ricordi anche dentro un carcere. Può essere considerato come un memoriale in onore dei cittadini e delle cittadine dichiarate ebree per legge e deportate da Bergamo. Il documento arriva dal museo Carozzi di Seriate. Tutti i documenti raccontano anche il rapporto del nostro archivio con altri archivi della città, in primis della casa circondariale di via Gleno, del quale metteremo in mostra molti oggetti di vita quotidiana nel carcere.

MR: Avete dovuto fare i conti anche con la fragilità dei documenti originali...

ER: Ci prendiamo un rischio notevole. Siamo un Istituto che conserva carte e ha come idea che queste carte da una parte continuino a parlare però dall’altra siano conservate per durare. L’ex carcere è un luogo abbandonato da tempo, non ha vetri alle finestre e c’è un cantiere poco lontano. È stata un’idea che ci è venuta sull’onda dell’emozione ma che poi abbiamo ragionato attentamente. Ci siamo confrontate con due restauratrici che lavorano con noi da anni.

MR: È ancora fondamentale garantire lunga vita agli originali?

ER: Conservare le tracce del Novecento significa capire che la materialità ha bisogno di cura. Conservare la memoria significa conservare anche queste tracce delicate. Quando si guarda la delicatezza delle tracce si capisce anche la delicatezza della memoria, la fragilità e l’impegno necessario affinché una cosa resti. I ricordi e la memoria sono fragili come i supporti su cui i documenti sono scritti. Questa mostra vorrebbe lasciare in chi passa la consapevolezza che conservare luoghi come il carcere, conservare gli stessi documenti, significa fare attenzione anche alla materialità delle cose. Quando si arriva in un luogo abbandonato si ha la sensazione che se non facciamo qualcosa quel luogo lì sparisce: così vale per i nostri documenti. Volevamo che questo fosse abbastanza chiaro ai visitatori.

MR: Si tratta anche di questo quando si parla di public history...

ER: Questa è esattamente un’operazione di quel tipo, ma addirittura dimostra come gli istituti della Resistenza come il nostro facciano da sempre public history. È una cosa importante perché la public history non solo apre gli archivi al pubblico, ma è con il pubblico che crea le esigenze della ricerca: qui c’è un’associazione Maite che lavora nel complesso di Sant’Agata, il comune con un luogo da salvare... e di colpo l’archivio va a rispondere alla voglia di salvare storie di un luogo della città. Mi sembra importante. Un lavoro di équipe, con linguaggi diversi, perché la storia continui a parlare alla sensibilità del presente.

MR: E in questo caso come mediate l’incontro tra il visitatore e il documento vergine?

ER: Penso a Gianfranco Maris, ex detenuto del carcere, deportato politico poi diventato presidente dell’ANED, con cui avevamo già lavorato sul memoriale di Auschwitz. Mi diceva sempre “ricordati che le lezioni di storia non si danno, si lasciano tracce perché il passato interroghi le persone del presente”. Questo modo di fare storia l’ho incontrato durante i primi passi mossi all’Istituto ed è diventato anche mio. Con le curatrici, ma anche con il nostro presidente Angelo Bendotti, ci siamo detti proviamo a portare i documenti facendo un passo indietro come storici, senza particolare mediazione, lasciando che i documenti interroghino il luogo e le persone. La mostra potrà essere vista con un taccuino in mano, per ogni cella riprenderà la parola caratterizzante dalla prospettiva di un bambino che impara le parole: sarà un avvicinamento al documento e al significato della cella nel tentativo di spogliarsi dei modi abitudinari di guardare che prendiamo diventando adulti. Nel taccuino si troverà sempre una contestualizzazione storica, per chi avrà voglia di prendersi un momento di pausa. Ci saranno anche pagine bianche, per segnarsi note o suggestioni.

Luciana Bramati, Chiara Molinero ed Elisabetta Ruffini, curatrici della mostra

MR: Se quei muri potessero parlare, quindi, racconterebbero piccole storie dentro la Storia...

ER: Assolutamente. Piccole storie che soprattutto danno significato alla grande Storia. Sono storie di uomini e donne normali, non eroi ma persone che hanno rischiato di mettere il proprio corpo dentro la Storia. All’indifferenza, alla passività, al cinismo hanno risposto con la loro esperienza.

Sito ISREC

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