Non c’è infatti miglior modo di conoscere o approfondire un autore se non affrontando le sue opere in un ristretto periodo di tempo, in successione, come in una degustazione. Inoltre, seppur in qualche modo adombrato dallo straordinario successo popolare – per non dire culto – che nel corso del tempo ha investito soprattutto autori come Herzog, Wenders e Fassbinder, Volker Schlöndorff è stato tra i primi a portare l’attenzione internazionale su quel movimento di straordinarie individualità che è stato il Nuovo Cinema Tedesco. Fenomeno che, sull’onda di altri processi di rinnovamento delle cinematografie innescati dalla politica degli autori della Nouvelle Vague – in Europa ma anche in Giappone, in Brasile e poi negli Stati Uniti con la New Hollywood – lancia il proprio strillo di nascita con il celeberrimo “Manifesto di Oberhausen” del 1962.
Diventerà adulto e vaccinato durante gli anni Settanta, tra forze conservatrici, la diffusione della televisione e le sovvenzioni statali che non risolvono la perenne difficoltà di reperire finanziamenti per non sottomettere l’autorialità alle necessità commerciali, la colonizzazione da parte di Hollywood e l’infilata di soft-porn, film gialli e krauti-western nel mercato cinematografico tedesco: il caso di Schlöndorff racconta in maniera emblematica anche questo (fonda una sua casa di produzione nel 1969).
Le formule che accompagnano Schlöndorff sono ricorsive: il “regista degli adattamenti cinematografici”, il più tecnico e “di mestiere” dei nuovi registi tedeschi, il meno “autoriale”, il più “registico”. Vuoi per i numerosi adattamenti di romanzi per il grande schermo – Musil, Yourcenar, Böll, Grass, Proust, Atwood tra gli altri – vuoi per la formazione giovanile a Parigi, dove frequenta la Cinémateque con il compagno di liceo Bertrand Tavernier e collabora con Melville, Resnais, Malle, Jean-Daniel Pollet. Tutte esperienze che, fin dal debutto, gli permettono di essere riconosciuto come il più consapevole del mezzo, il più avvezzo alla messa in scena (che è spesso notevole, in effetti) tra il resto dei giovani autori tedeschi.
“Un vero cineasta non ha bisogno di scrivere il suo testo per essere l’autore del film. Organizzando per la messa in scena uno spazio e una durata autonomi, egli ricrea l’universo secondo le proprie esperienze personali” ebbe a dire.
Oltre al legame con la letteratura, lo caratterizza una sensibilità per temi sociali e politici che si esprime con particolare efficacia nei suoi lavori sulla Germania degli anni Settanta, costruiti con la consapevolezza che il cinema è un prezioso strumento di riflessione critica del contemporaneo.
Il sodalizio artistico e sentimentale con Margarethe Von Trotta gli permette poi di impreziosire i suoi film (due in particolare, “Fuoco di paglia” e “Il caso Katharina Blum”) con personaggi femminili straordinariamente veri e capaci di riassumere, nel privato di vicende personali seppur molto diverse tra loro, la complessità della questione di genere, le forze antagoniste a una piena emancipazione femminile e la diffusa impostazione maschio-centrica dei costrutti sociali che fanno del sessismo uno strumento di delegittimazione e discredito, di potere sul femminile.
Adattamenti e cinema politico: 3 titoli da non perdere
La selezione dei titoli che la direzione artistica del Bergamo Film Meeting ha fatto in concerto con il regista copre quasi la totalità della filmografia di Schlöndorff. Ogni cosa è interessante. Certo, è difficile riuscire a guardare tutto, e quindi trovarsi a non dover scegliere. Ci sentiamo quindi di dare qualche consiglio di orientamento, una specie di short list per entrare nel mondo di Volker Schlöndorff (e della Germania degli anni Settanta). Ogni titolo sarà disponibile su MyMovies secondo il programma del BFM.
“I turbamenti del giovane Törless” (1966)
Il suo primo lungometraggio, un adattamento del romanzo di Robert Musil pubblicato nel 1906.
Inizio Novecento, Törless è un giovane mandato a studiare in un collegio aristocratico. Si trova coinvolto in un morboso e violento gioco di vessazioni e umiliazioni di due allievi nei confronti di un terzo in passiva accettazione. Törless è spettatore-distaccato, e quindi complice-carnefice, di questo esperimento di esercizio di un potere che degrada e sottomette.
Una storia di formazione che a posteriori si fa metafora profetica dell’avvento del nazismo, della banalità del male, dell’oscura capacità dell’uomo comune di ritrovarsi travolto da un’onda di aberrazioni e di uscirne scoprendosi asciutto. “Cosa succede se un uomo si degrada o si trasforma in carnefice” si chiede Törless. “Io pensavo che il suo mondo dovesse crollare. Ma ora so che non succede. Ciò che sembra terribile e inconcepibile, succede e basta”. Non esistono o il bene o il male, il buono o il cattivo, il bianco o il nero, sembra dire.
Perché vederlo: per toccare con mano la maturità dello Schlöndorff esordiente. Movimenti di macchina calibrati, carrellate elegantissime, la panoramica iniziale e finale, le riprese a mano nei momenti di violenza, l’uso narrativo della luce, delle ombre e della profondità di campo. Anche solo la scena dell’assalto collettivo nella palestra merita il prezzo del biglietto. E una chicca: la partecipazione di Barbara Steele.
“Il caso Katharina Blum” (1975)
Adattamento del romanzo-pamphlet di Heinrich Böll, “L’onore perduto di Katharina Blum”. Regia e sceneggiatura sono firmati per la prima volta dal duo Schlöndorff/Von Trotta.
Katharina Blum è una donna divorziata, vive sola, conduce una vita appartata. Durante una festa di carnevale conosce Ludwig, che sappiamo essere ricercato dalla polizia per rapina e anarchismo. Tra i due scatta qualcosa di inaspettato che trascende e promette di redimere le esistenze grigie di entrambi. Passano la notte insieme. Quando la mattina seguente la polizia irrompe in casa di Katharina lui è già fuggito, aiutato da lei. Da quel momento la donna viene accusata di coinvolgimento nelle attività dell’uomo, si ritrova investita dalla complicità ipocrita e senza scrupoli di polizia e stampa nella costruzione di una campagna mediatica che ne sgretola la rispettabilità sociale a colpi di accuse infondate, finte verità, insinuazioni sessiste, speculazioni sul privato.
Sotto accusa è l’ingerenza violenta e ingiustificata della polizia nella vita di una libera cittadina, la delegittimazione del dissenso politico, la nevrosi collettiva costruita dal sensazionalismo di una stampa incapace di raccontare la realtà ma sempre alla ricerca di mostri da sbattere in prima pagina (lo racconta anche Bellocchio nello stesso anno in cui Böll pubblica il romanzo), una morale che non conosce che la bidimensionalità: o buoni o cattivi, o amici o nemici, o bianco o nero, o moglie o puttana, o moderato-conformista o terrorista. Qualcosa che dialoga anche con il tema centrale in “Törless” (e che è legato a doppio filo al terzo film che vi consigliamo). Con un finale che rivela a cosa possono portare tali escalation da caccia alle streghe. E l’ipocrisia dei carnefici che ribaltando la realtà finiscono per travestirsi da vittime.
Grande successo internazionale, è il film spartiacque per il cinema tedesco che voglia farsi strumento di impegno socio-politico.
Perché vederlo: perché non è cambiato nulla. Tutt’altro: i social network non hanno fatto che amplificare la tossicità delle dinamiche al centro del film.
“Germania in autunno” (1978)
Caso unico di film collettivo e di comunione di intenti e impegno civile di 9 registi del Nuovo Cinema Tedesco: Kluge, Schlöndorff, Fassbinder, Brustellin, Sinkel, Rupé, Cloos, Reitz, Mainka.
Il contesto è questo. Il 5 settembre 1977 viene rapito dalla RAF il presidente dell’unione degli industriali tedesca, Hanns-Martin Schleyer: i rapitori chiedono la liberazione di tre membri del gruppo condannati all’ergastolo in aprile: Andreas Baader, Gudrun Ennslin, Jan-Carl Raspe e di altri otto prigionieri politici. Il 13 ottobre un aereo è dirottato da un gruppo di terroristi palestinesi che chiedono la scarcerazione dei membri della RAF e di altri due prigionieri palestinesi. Il 18 ottobre, dopo quattro giorni di peregrinazioni, l’aereo è assaltato a Mogadiscio, i terroristi vengono uccisi. Lo stesso giorno i tre membri della RAF si “suicidano” e Hanns-Martin Schleyer viene trovato assassinato nel bagagliaio di un’auto.
Subito dopo quei registi decidono di realizzare insieme un film: senza aspettare, digerire o razionalizzare i sentimenti. Il filosofo Slavoj Žižek in “Islam e modernità”, pubblicato subito dopo gli attentati al Bataclan del 2015, scriveva: “Contemperare le reazioni a caldo e l’atto del pensare: questo è davvero difficile. Ragionare a freddo non è di per sé garanzia di maggiore obiettività, ma, al contrario, normalizza la situazione e ci porta a schivare la punta acuminata della verità”.
Gli autori tedeschi hanno fatto esattamente questo (emblematico l’episodio di Fassbinder con cui si apre il film) nel tentativo di raccontare nel modo più spontaneo possibile, con un approccio testimoniale, lo stato d’animo personale e di un paese sotto shock, sempre più in preda a un cieco isterismo anti-terrorista che finisce, però, per assumere anche dei contorni anti-democratici.
Esce così un film prezioso e di grande potenza suggestiva, “capace di mordere la realtà” [Blumenberg] con una struttura a episodi che mischia finzione, materiale di repertorio, documentario. E che non dà risposte e non fa analisi ma chiede di considerare la complessità della realtà, di riflettere e scavare in profondità nelle contraddizioni sé stessi, dello Stato, dei media, della società. Senza intransigenza, senza morale a due sole dimensioni (ancora), considerando il terrorismo non un fenomeno alieno, ma quello che è: un prodotto di questa società.
Pochissima musica, soprattutto l’amara grazia dell’inno tedesco che accompagna le immagini dei funerali di Schleyer e dei membri della RAF morti in carcere. I cui tre corpi diventano, simbolicamente, quello di Polinice dell’Antigone, in uno degli episodi diretti da Schlöndorff, il caso di una redazione tv che annulla la messa in onda della tragedia sofoclea per timore che possa istigare la rivolta giovanile, o fomentare sentimenti anti-statali. Ancora una volta, sembra voler dire, non sarà la TV a riflettere sul presente. È il cinema a farlo.
Perché vederlo: perché è uno dei grandi film che la cinematografia italiana, seppur nella sua ricchezza, non ha avuto. Un titolo da invidiare, insomma. E che racconta molto anche delle nostre vicende analoghe, e del rapporto che l’opinione pubblica ha con quella stagione (si pensi al caso del rientro in Italia di Cesare Battisti, ad esempio).
PS: Voilà Varda!
“Un po’ di Varda” è il nome della retrospettiva che la piattaforma di streaming online MUBI dedica alla regista francese, e a cui si può accedere come parte del programma di Bergamo Film Meeting. Originalissima documentarista, spesso in bilico tra i generi, Agnès Varda ha uno sguardo inconfondibile: fanciullesco, istintivo, eppure sempre di grande profondità. Ne parlammo già questa estate, a pochi mesi dalla scomparsa, per Esterno Notte.
“La prima Nouvelle Vague è stata fatta da una donna, 5 anni prima di Truffaut e Godard. Agnès Varda ha dato vita alla Nouvelle Vague francese a 25 anni” scrive un utente commentando il film “Le pointe-courte” del 1955.
E come dargli torto. Agnès Varda è una delle registe di maggior talento nella storia del cinema. E per scoprirla consigliamo tre opere che la raccontano nei suoi modi di lavorare: il documentario “La vita è un raccolto”, il film di finzione “Il verde prato dell’amore” e il film in bilico tra i due generi che si è aggiudicato il Leone d‘Oro nel 1985, “Senza tetto né legge”.
Ma per chi volesse di più, c’è anche il documentario breve “Black Panthers”, girato nell’estate del 1968 durante gli incontri delle Pantere Nere. Documento preziosissimo, uno squarcio nel tempo che riesce a parlare anche del nostro presente.