Quentin Tarantino è un regista unico. Non tanto per le tematiche, lo stile, la personalità e il grado di incidenza sul panorama cinematografico contemporaneo, ma soprattutto perché nessuno come lui, oggi, è in grado di tenere insieme, nella stessa opera, la dimensione pop e quella culturale, artistica, autoriale.
“C’era una volta… a Hollywood” in questo senso è un film esemplare. Perché oltre a essere uno dei migliori Tarantino di sempre, è anche qualcosa di diverso, nuovo, mai visto nel suo cinema prima di oggi. Un’opera totale, matura, che cambia completamente l’idea più diffusa sullo stile e la poetica del regista californiano, capace di affrontare come non mai temi che sono la sostanza stessa del cinema. Come il rapporto fra la verità e la finzione, fra la funzione diacronica e sincronica del tempo o ancora, fra spazio e immaginario. E, di nuovo, mette al centro la questione del racconto della Storia. Ma andiamo con ordine.
Il film (come sanno ormai anche i sassi) è ambientato tra il febbraio e l’agosto del 1969 a Hollywood e ricostruisce fra realtà e immaginazione gli omicidi del 10050 di Cielo Drive, quando tre membri della Famiglia Manson penetrarono furtivamente nella casa di Roman Polański (assente al momento) e uccisero barbaramente cinque persone fra le quali la moglie del regista, l’attrice Sharon Tate, all’ottavo mese di gravidanza.
La storia è quella di Rick Dalton (Leonardo di Caprio) che fa l’attore di serie tv western ma non riesce a sfondare al cinema e per evitare il tramonto prematuro della propria carriera si fa convincere dal proprio agente (Al Pacino) a trasferirsi in Italia per girare, da protagonista, alcuni spaghetti western.
Rick è amico fraterno di Cliff Booth (Brad Pitt), la sua controfigura, che invece come attore non ha mai sfondato e si accontenta di stare accanto a Rick in qualità di tuttofare aiutandolo nei lavori di casa, facendogli da autista e da supporto psicologico. Rick e Cliff non sono stelle di Hollywood e non si interessano di controcultura o comunità hippie, ma per puro caso Rick, che abita a Cielo Drive, è il vicino di Roman Polański e Sharon Tate. Cosa che porterà inevitabilmente i destini di tutti a incrociarsi.
Accanto a luoghi, personaggi ed eventi reali ci sono dunque quelli inventati. Tarantino usa la Storia come un dispositivo malleabile, su cui innestare infinite narrazioni, divagazioni, ipotesi di racconto. Come ha sempre fatto assoggetta il dato reale e (ri)scrive la Storia esclusivamente in funzione della propria idea cinematografica.
Tuttavia “C’era una volta… a Hollywood” non è “Pulp Fiction” e nemmeno “Bastardi senza gloria”. Non mescola più generi e linguaggi, non adopera l’intertestualità o – ciò che da sempre viene utilizzato per definire il cinema tarantiniano – il postmoderno per costruire il proprio universo linguistico, scomponendo la rappresentazione in tante piccole storie. No, questo film marca una netta differenza col passato proprio per come costruisce il racconto. Affrontando direttamente il dato storico – l’evento – Tarantino compie un ripiegamento totale sulla Storia stessa. Perché la finzione cinematografica gli consente di aggiungere, togliere, modificare, inventare e filmare quello che vuole, lasciando comunque intatta la patina del reale, del possibile, del verosimile.
Non si parla solo della finzione che appartiene al film naturalmente, ma anche di quella che il film racconta. Hollywood, gli studios, lo Spahn Movie Ranch dove sta la comune di Manson (set che ospitò la lavorazione di decine di western cinematografici e televisivi) sono spazi evocativi, rimandano alla sostanza stessa del “mestiere” del cinema e dicono che quella di Hollywood è una storia che si può riscrivere in continuazione: come si vuole e sempre come qualcosa di nuovo. Elementi che rendono “C’era una volta… a Hollywood” quasi un doppio di se stesso, un’opera che vale sia come film che come film nel film. E dove tutto è ugualmente vero (che sia ricostruzione storica o pura invenzione).
Tarantino ce lo fa capire in un momento che non serve a portare avanti la narrazione e dunque non ha fine narrativo, ma che forse è il più significativo dell’intero film. Ed è quando Sharon Tate/Margot Robbie, passeggiando svagata per le strade di Westwood, si imbatte in un cinema dove danno “Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm” (in originale “Wrecking Crew”), la commedia appena uscita in cui lei recita da protagonista insieme a Dean Martin. Decide di entrare, guardarlo e ascoltare le reazioni del pubblico. In quel momento Sharon e Margot sono in scena insieme, non si somigliano granché e i campi/controcampi fanno risaltare questa differenza. Ma non importa perché entrambe esistono, sono vive e partecipano della medesima finzione. L’unica che può farle esistere insieme rendendo la sequenza incredibilmente vera, nonostante le due figure siano separate da cinquant’anni di industria cinematografica e storia del cinema.
Questa natura doppia di “C’era una volta… a Hollywood”, così come il suo ritmo rilassato, ondivago e pieno di momenti di sospensione narrativa – oltre a quello già citato di Sharon spettatrice, pensiamo alle peregrinazioni di Cliff che gira per Los Angeles in auto: un po’ “La donna che visse due volte” di Hitchcock e un po’ “Chinatown” di Polański – infonde al film un’aura romantica a cui Tarantino non c’aveva abituati. Anche per questo la pellicola sembra qualcosa di mai visto prima (qualcuno dice possa essere l’ultima regia di Quentin, e quindi quasi un testamento). Certamente siamo alle prese con una lettera d’amore al cinema come si legge un po’ ovunque. Ma soprattutto con uno sguardo malinconico, eppure senza nostalgia, a un cinema e a un’epoca che nel 1969 con gli omicidi della Manson Family si risvegliò bruscamente da un sogno. Quello della Hollywood classica che stava cedendo il passo al dirompente esordio della New Hollywood.
Nel film Cliff Booth somiglia un po’ a Steve McQueen e un po’ a Robert Redford, mentre Rick Dalton è una specie di Clint Eastwood (con una spruzzata di Bruce Lee) più grossier, destinato forse a lavorare con Polański. Sono citazioni di miti: figurine, ricordi, quasi santini da esporre sull’altare della citazione a metà fra la devozione e l’affettuosa canzonatura – ma non Sharon: per lei è amore totale e sincero.
Gli stessi miti però sono prima di tutto i testimoni di un cinema che può esistere ancora in forma ideale, contemporanea, attuale. Non nello stile e nemmeno nelle tematiche, certo, ma nell’idea che un film possa essere oggetto di un racconto che contraddice l’idea di serialità (le due ore e quaranta di durata non solo non si avvertono, ma tolgono il fiato). Così come i modernismi estetici esasperati (nessuno gira come Tarantino oggi, con i suoi tempi, il suo sguardo, il suo montaggio). Oppure la devozione al digitale (anche qui si gira in pellicola 35mm).
Di fondo “C’era una volta… a Hollywood” suggerisce l’idea che per essere contemporanei, per entrare con intelligenza e sottile originalità nel dibattito sul futuro e il destino del cinema, della sala e della spettatorialità, non servono arroccamenti partigiani né in difesa né in attacco del medium cinematografico. Ma basta suggerire che uno stile, un’idea, un percorso verso un rinnovamento che non sia quello del mainstream più smodato è ancora possibile. C’era una volta, appunto, ma anche c’è e ci sarà…