In attesa delle candidature ufficiali per la prossima edizione degli Oscar, che si terrà il 3 marzo 2025, il mondo del cinema è in fermento. Mentre l’Academy mantiene il riserbo sui nomi dei contendenti, l’attenzione è già puntata su alcuni film che hanno conquistato critica e pubblico, destinati a essere protagonisti della stagione dei premi. Per vivere l’attesa, ecco quattro consigli di visione: pellicole che spaziano tra generi e stili, tutte attualmente in programmazione nelle sale cittadine, pronte a offrire esperienze uniche e a lasciare un segno profondo nello spettatore.
«Emilia Pérez» di Jacques Audiard
Passato finora un po’ troppo in sordina «Emilia Pérez» – nonostante l’incetta di Golden Globes e il premio della giuria a Cannes 2024 – è uno dei film della stagione. Jacques Audiard – «Sulle mie labbra» (2001), «Il profeta» (2009), «I fratelli Sisters» (2018) – che si conferma uno dei più grandi registi francesi della sua generazione e uno degli autori più rilevanti di questi ultimi vent’anni, confeziona un film sorprendente, fuori dagli schemi e calato in maniera intelligentissima nel presente. Ambientato tra il Messico e l’Europa racconta dell’avvocatessa quarantenne Rita (Zoe Saldana), che vive a Città del Messico sola ed è insoddisfatta del proprio lavoro. Un giorno viene rapita da alcuni uomini e portata in un luogo misterioso dove si incontra con uno dei più potenti narcotrafficanti del paese: Juan “Manitas” Del Monte (Karla Sofía Gascón). L’uomo l’ha fatta sequestrare per chiederle aiuto nel realizzare un progetto all’apparenza folle e segretissimo che lo porterà a cambiare completamente vita e lasciare il mondo dei Narcos. Rita accetta e la scelta condizionerà la sua esistenza per sempre.
Con una trama a metà fra thriller e mélo «Emilia Pérez» in realtà è un musical, punteggiato di canzoni e coreografie che danno un ritmo travolgente alla narrazione. Una scelta rischiosa all’apparenza e che invece trasforma un racconto già di per sé coraggioso in una specie di opera lirica moderna, dove il melodramma e la musica si fondono a un racconto fatto di forti passioni e grandi avventure. Il tutto corredato da uno sguardo acuto sul mondo contemporaneo, un luogo in cui gli opposti convivono in ogni luogo e spazio, criminalità e integrità, denaro e povertà, religione e paganesimo, maschilismo e femminismo, intolleranza e libertà di espressione. Insomma una riflessione che attraverso temi fondamentali del nostro presente, diventa un inno alla vita e alla libertà di ognuno di essere quello che gli pare, senza condizionamenti o conformismi, in Messico o in qualunque altro luogo. Da non perdere!
Conca Verde / Uci Orio / Arcadia Stezzano /Anteo Treviglio
«Io sono ancora qui» di Walter Salles
Walter Salles è senz’altro il più popolare regista brasiliano contemporaneo, autore di film di successo come «I diari della motocicletta» (2004) e «Central do Brasil» (1998) (Oscar per il miglior film straniero), ma fra i tanti temi che ha affrontato attraverso il suo cinema nel corso degli anni, fino a oggi mai aveva affondato lo sguardo nel periodo più tragico della recente storia del Brasile: quello della dittatura militare (1964-1985). «Io sono ancora qui» è quindi un film nodale per la carriera di Salles. Un film che incrocia la memoria personale del regista – classe 1958 e che quindi all’epoca del colpo di stato militare era solo un ragazzino – a quella della storia (con la esse maiuscola) del paese sudamericano e a un trauma con cui ancora oggi si fatica a fare i conti. La storia è quella di una famiglia, quella dell’ingegnere e deputato laburista Rubens Paiva – desaparecido durante le feste natalizie del 1970 e poi torturato e ucciso brutalmente dalla polizia militare alcune settimane dopo – che dal momento dell’arresto dell’uomo precipita da una vita agiata e spensierata nella grande casa a pochi metri dalla spiaggia di Copacabana a Rio de Janeiro, a un vero incubo senza fine.
Il film, che racconta oltre cinquant’anni di storia e dal 1970 arriva sino al 2014, è tratto dal libro di Marcelo Paiva, figlio di Rubens e scrittore affermato, incentrato sulla storia del padre ma soprattutto della madre: Eunice Facciolla Paiva che per tutta la vita ha lottato e si è impegnata sia per dare un futuro ai suoi cinque figli, sia per dare un nome agli assassini del marito e rendere giustizia alla morte di quest’ultimo. Un film commovente e che tocca corde profonde. Che pur con una messinscena classica e senza guizzi estetici o autoriali, riesce a emozionare senza appesantire la narrazione e riuscendo coinvolgere emotivamente. Un cinema civile di cui qui da noi si sono perse le tracce da troppo tempo, ma di cui ci sarebbe ancora grande bisogno.
Dal 30/01
«Babygirl» di Halina Reijn
Presentato alla Mostra di Venezia dello scorso settembre «Babygirl» è il terzo film da regista dell’attrice olandese Halina Reijn che per la prima volta riesce a mettere insieme un cast internazionale d’eccezione. Con Harris Dickinson, Antonio Banderas e soprattutto la protagonista Nicole Kidman. E quest’ultima è in realtà il vero elemento di attrazione, intorno a cui gravita tutto l’interesse riservato al film. La storia infatti la vede al centro di una sorta di melodramma erotico che sfocia nel thriller in cui lei interpreta una ricca e affermata manager di una compagnia tecnologica, felicemente sposata con un regista teatrale (Banderas) e madre di una figlia adolescente. La donna e si lascia attirare in una relazione sessuale dal suo nuovo stagista (Dickinson) molto più giovane di lei, il quale la seduce instaurando un rapporto di dominazione in cui lei si trova volontariamente sottomessa.
Non è un’avventura granché originale e neppure particolarmente trasgressiva quella che «Babygirl» mette in scena – il cinema ne ha raccontate tante di storie come questa, da «Bella di giorno» (1967) di Buñuel in avanti – eppure visti i tempi che corrono, quella di una donna che sceglie liberamente di infrangere le regole sociali e di genere e di assecondare i propri istinti e pulsioni sessuali, ha evidentemente una presa molto più forte sul pubblico rispetto al passato, visto il successo che il film sta avendo a livello internazionale. In realtà si tratta di un racconto zeppo di cliché e trovate narrative in linea con le manie del mondo moderno che non aggiunge molto né in termini di erotismo, né dal punto di vista del thriller. Il vero interesse infatti sta nel modo in cui è rappresentata Nicole Kidman e come l’attrice accetta, a 57 anni, di spogliarsi davanti alla macchina senza alcun pudore e mettendo letteralmente a nudo le imperfezioni e le fragilità di un corpo che non ha più nulla di quello reso iconico da Kubrick tanti anni fa con «Eyes Wide Shut» (1999) e che la chirurgia estetica ha reso ancora più difficile da riconoscere. Un’operazione per certi versi simile a quella fatta da Demi Moore in «The Substance» (2024) e uno degli argomenti di discussione più interessanti di quest’ultima stagione cinematografica.
Dal 30/01
«The Brutalist» di Brady Corbet
Un altro film presentato in concorso all’ultima Mostra di Venezia diretto da un altro attore passato da tempo alla regia: Brady Corbet. «The Brutalist» è senz’altro il film più smisurato della carriera di Corbet e quello più inafferrabile e difficile da incasellare. Che il progetto sia ambizioso lo si intuisce sia dalla durata (3 ore e 45 minuti) sia dalla scelta di girare in pellicola, caratteristiche tipiche del grande cinema d’autore di cui il regista si sente evidentemente un rappresentante. La storia è quella di László Tóth (Adrien Brody), architetto ungherese di origine ebraica ed ex docente del Bauhaus che, sopravvissuto alla prigionia nel campo di concentramento di Buchenwald, a metà degli anni Quaranta emigra negli Stati Uniti. Qui, dopo aver lavorato come designer nel mobilificio del cugino, viene notato da un ricco uomo d’affari, Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), che attratto dallo stile brutalista dei suoi lavori, gli commissiona un monumentale progetto architettonico all’interno della sua villa. Ispirato alla figura di Frank Lloyd Wright (per lo stile, non per la biografia) e al film di King Vidor del 1949 «La fonte meravigliosa» (a sua volta tratto dal romanzo omonimo della scrittrice Ayn Rand), «The Brutalist» è un’opera espansa, fuori schema e fuori formato rispetto al cinema contemporaneo.
Aspetti che esercitano un innegabile fascino e piacciono agli amanti del cinema più feticisti e affezionati all’aspetto “meccanico” e tradizionale del medium, ma allo stesso tempo rendono il film un disordinato accumulo di cose – storie, situazioni, personaggi, memorie, inserti onirici – che rendono complicata l’immedesimazione. Non è soltanto la lunghezza a generare confusione – anche se conta eccome: nella prima parte potevano essere tagliati almeno quaranta minuti – ma la sovrapposizione di temi: tanti e talmente rilevanti da scolorirsi uno dentro l’altro. Lo scontro tra culture e sensibilità opposte (l’essenzialismo intellettuale europeo e il pragmatismo americano), l’architettura come forma di assoggettamento del mondo, il conflitto tra storia e idealismo, materia e spirito, elevazione e dannazione che la cultura ebraica di Tóth e quella calvinista di Van Buren incarnano sono dunque tanta, troppa carne al fuoco che Corbet non riesce a sintetizzare. Ed è un peccato, perché il film è incredibilmente affascinante (e da vedere) e con qualche accorgimento in più sarebbe stato addirittura memorabile.
Dal 06/02