Marzo si preannuncia come un mese imperdibile per gli amanti del cinema, con un ricco cartellone di pellicole che spaziano tra generi, tematiche e storie in grado di emozionare e far riflettere. Mentre cresce l’attesa per la notte degli Oscar del 2 marzo, le sale cinematografiche ospitano alcuni dei titoli più acclamati della stagione, tra cui film candidati alle prestigiose statuette e opere già premiate nei più importanti festival internazionali.
«September 5 - La diretta che cambiò la storia» di Tim Fehlbaum
Quello che è successo a Monaco di Baviera il 5 settembre 1972 lo sappiamo (o ricordiamo) tutti. L’irruzione nel villaggio olimpico del commando terroristico palestinese Settembre nero, il sequestro degli atleti israeliani, le trattative fra i terroristi e una polizia tedesca inadeguata e inefficiente. E infine il conflitto a fuoco e la strage, con la morte di tutti gli ostaggi, di un poliziotto e di cinque sequestratori. E il motivo per cui questa storia è rimasta così impressa nella memoria collettiva, al di là della sua tragicità, è che fu trasmessa in diretta tv in tutto il mondo. I media internazionali che affollavano Monaco in quei giorni per raccontare le gare sportive infatti si precipitarono al villaggio olimpico e ripresero ininterrottamente il luogo in cui era in corso il sequestro. Il film di Tim Fehlbaum racconta tutto questo dalla prospettiva dell’Abc, il network tv statunitense all’epoca più seguito in patria (e probabilmente al mondo), mettendo al centro le azioni del regista Geoff Mason, del producer del canale Marvin Bader, del dirigente Roone Arledge e della traduttrice tedesca Marianne Gebhardt, mentre sono impegnati a gestire la diretta e a carpire più informazioni possibili sullo sviluppo delle trattative.
I gesti, i comportamenti, le ore concitate che il film mette in mostra, lasciano trasparire la grande bramosia di tutti di arrivare per primi a raccontare l’evento in atto, di catturare le immagini migliori e ottenere uno scoop. Una smania che supera ogni forma di empatia e dà il senso dell’enorme complessità che si cela dietro alle immagini e alla loro etica. Ma anche al confine labile fra informazione, intrattenimento e voyerismo. Inoltre questo film, in questo momento storico, non può non farci pensare a quello che succede a Gaza. Innescando una riflessione sul senso del nostro presente e su come certe storie – e certe immagini – non passano.
Uci Orio
«Anora» di Sean Baker
Palma d’oro al Festival di Cannes 2024 e candidato a sei premi Oscar, «Anora» è uno dei film culto della stagione. Sean Baker, regista indie che da anni si muove nel sottobosco del mondo dei sex wokers, confeziona un film straordinario che unisce al racconto di una società ai margini, il tono leggero della commedia, dando vita a qualcosa di incredibilmente affascinante. La storia è quella della giovane spogliarellista Anora, detta Ani, che lavora in un night club a Brighton Beach, quartiere di Brooklyn vicino al mare, e vive con la sorella in un monolocale poco distante. Avendo una nonna uzbeka e parlando un po’ di russo una sera le viene proposto di intrattenere un cliente russo. Si tratta di Vanja, giovanissimo figlio di un oligarca, perdigiorno e smidollato che quasi subito si innamora di lei. Nei giorni successivi i due continuano a vedersi e dopo un week end a Las Vegas insieme, Vanja chiede ad Anora di sposarlo. Dopo qualche titubanza la ragazza accetta e i due convolano a nozze.
Quando i genitori di Vanja scoprono l’accaduto vanno su tutte le furie e mentre si mettono in viaggio dalla Russia incaricano uno dei loro tirapiedi locale, l’armeno T’oros, di far annullare il matrimonio. Aiutato da due sgherri, fra cui il russo Igor che lentamente inizia a parteggiare per Anora, l’uomo farà di tutto per ritrovare Vanja, che nel frattempo si è dato alla fuga, e convincere la combattiva e furiosa Anora a divorziare. Nella sua apparente semplicità «Anora» è un film intelligentissimo e capace di raccontare il presente come pochi altri film. Non è solo la storia di un’emancipazione impossibile (nemmeno nel 2025 la favola della spogliarellista che sposa un milionario può reggere alla prova della realtà), ma è una riflessione sulla stratificazione sociale del nostro mondo e sulla complessità culturale dell’occidente. Un posto dove tutto sembra fluido e accessibile e dove invece il classismo, l’emarginazione, il potere del denaro e il rapporto servo-padrone sono più vivi che mai. Ma più di tutto «Anora» è un viaggio dentro la Brooklyn di Brighton Beach e la sua comunità russofona, un luogo quasi straniero, fatto di isolati tutti uguali e popolato di personaggi troppo bizzarri per essere veri. Una terra di mezzo invisibile dove ognuno a modo suo, proprio come Ani, può salvarsi soltanto da solo.
Uci Orio / Anteo Treviglio
«Il seme del fico sacro» di Mohammad Rasoulof
C’è un luogo dove fare cinema, come regista o attore, è fonte di enorme popolarità e perfino venerazione ma allo stesso tempo di grande pericolo per la libertà e l’incolumità individuale. Si tratta dell’Iran, un paese innamorato del cinema e che da decenni è patria di registi straordinari e celebrati in tutto il mondo, dove però il governo limita l’attività artistica spesso fino alla detenzione. È il caso di Mohammad Rasoulof, autore di film che hanno vinto importanti premi internazionali, che ripetutamente processato, incarcerato e persino fustigato a causa del contenuto dei propri film, lo scorso maggio ha deciso di fuggire clandestinamente dall’Iran e rifugiarsi in Germania. «Il seme del fico sacro» (causa degli ultimi dissidi con le autorità del suo paese), presentato a Cannes lo scorso anno e candidato agli Oscar come miglior film straniero, è stato girato in clandestinità e quasi tutto dentro un appartamento. Ambientato durante le proteste per l’uccisione di Mahsa Amini nel 2022, il film comincia con la nomina a procuratore di un magistrato fedele alla rivoluzione e entra poi all’interno della famiglia di quest’ultimo, dove le due figlie adolescenti e la moglie incarnano le istanze di libertà delle nuove generazioni e delle donne.
Da Teheran si arriva poi a un entroterra da western, per esaltare la metafora di un potere che divora sé stesso e il suo stesso popolo. I semi del fico sacro evocato dal titolo, come dichiarato in esergo, si dice possano germogliare e crescere sui rami di una pianta morente, sostituendosi in sostanza ad essa. Sono l’evidente metafora dell’incarnazione di una speranza: quella nelle nuove generazioni, nella loro determinazione e volontà di cambiare la storia e scrivere un futuro nuovo per tutto l’Iran. Che è un paese, sembra dirci il film, che somiglia sempre meno al proprio governo e come il cinema e i registi che lo abitano, ama la libertà, la bellezza e la vita. In tutte le sue forme.
Conca Verde / Anteo Treviglio
«A Real Pain» di Jesse Eisenberg
Jesse Eisenberg, attore amato e popolare del cinema americano, da un paio d’anni è passato dietro la macchina da presa. Questo «A Real Pain», presentato al Sundance Film Festival dello scorso anno e candidato a due Oscar (miglior sceneggiatura e attore non protagonista) è il suo secondo film da regista. Racconta di due cugini newyorkesi di origine ebraica sulla quarantina, David (Eisenberg stesso) e Benji (Kieran Culkin), che partono insieme per un viaggio in Polonia a visitare i luoghi in cui aveva vissuto la loro nonna, sopravvissuta ai campi e poi emigrata negli Stati Uniti e morta di recente. I due si uniscono quindi a un tour della memoria con altri cittadini ebrei americani e guidati da un ragazzo inglese e attraversano la Polonia fermandosi in alcuni luoghi simbolici della Shoah e della diaspora ebraica, fra cui il campo di sterminio di Majdanek.
Durante il viaggio il carattere sopra le righe e debordante di Benji – esattamente il contrario di quello mite e trattenuto di David – dà vita a una serie di situazioni imbarazzanti e difficili da gestire, ma allo stesso tempo diventa l’occasione per Benji di lasciare il segno e far breccia nelle anime delle persone che incontra. Qualcosa con cui David non riesce del tutto a venire a patti e che gli causa un profondo sentimento di odio/amore verso il cugino. «A Real Pain» come dichiara già dal titolo è un film sul dolore. Ma quale dolore? Sicuramente quello del popolo ebraico, con il quale i due protagonisti provano a entrare in contatto e che li segna in modo profondo. Ma anche un dolore più sfumato e diffuso: quello delle relazioni complicate ma irrinunciabili (quella fra David e Benji), quello della perdita (la scomparsa della nonna) e soprattutto quello che sta nel male di vivere di Benji (che pochi mesi prima del viaggio aveva tentato il suicidio) e del senso di colpa di David nei confronti del cugino. Il tutto raccontato con la leggerezza e il garbo di una commedia, recitato splendidamente e con una vena malinconica che non viene addolcita nemmeno nel finale. Da vedere!
Dal 27/02